ROSSELLA PICCARRETA | Sul palcoscenico quattro sagome falliche bianche di plastica e un uomo che sguscia come un verme da un porta abiti chiaro. E tre enormi bozzoli: di velo quello al centro, di cellophane gli altri due.
Siamo nel 1500 o giù di lì. Nel piccolissimo Teatro Duse, alla periferia di Bari, questa grande abbuffata di oggetti prende lo sguardo di chi osserva la scena dalla platea.
Come fa tutta quella roba a essere disposta con ordine e funzionalità e a raccontare di un testo di cinquecento anni fa? È quello che ha provato a fare il regista Vito Latorre con La Mandragola, commedia scritta da Machiavelli nel 1518.

La scena non viene svelata subito, lo spettacolo inizia a sipario chiuso. Due attori seduti sul palcoscenico, minimali negli abiti – lui, Domenico Piscopo (poi messer Nicia), in nero, lei, Rosanna Cassano (Lucrezia), in leggings e canotta bianca – si rivolgono agli spettatori nella lingua di Machiavelli.
Recitano due canzoni, lei sulla possanza d’amore, lui sulla stupidità umana e sulla felicità. Nei versi si racconta di uno dei personaggi della vicenda, lo sciocco messer Nicia che, «bramando aver figlioli, credria ch’un asin voli».

Dal fondo della platea giungono altri attori: Davide De Marco (Callimaco) e Luca Amoruso (Ligurio), mentre i primi due vengono inghiottiti dalle tende del sipario. Questa volta i costumi (di Angela Gassi) sono colorati, con le maniche a sbuffo e i farsetti di velluto rosso e verde. Imitano l’abito antico ma lo esasperano nei cappelli enormi, quasi grotteschi, che nascondono il volto degli attori.
I due dialogano con tale animosità e partecipazione che ci dimentichiamo del gap temporale della lingua. Li capiamo. Entriamo nell’atmosfera del Cinquecento.
Ma dura un attimo, il tempo che il sipario si apra e ci mostri la scenografia ridondante e surreale di Davide Sciascia, povera nei materiali ma efficace nell’idea sottesa.

Nicia e Lucrezia, i due coniugi della Mandragola, dietro ai veli del bozzolo centrale – alcova e culla – simulano con gesti stereotipati e reiterati un coito al ritmo di musica trash, saccheggiata da X Factor, Dovercela fare.
Il ritmo martellante dei suoni in loop sembra riprodurre la ferocia di un atto sessuale meccanico senza amore. I gesti sono rallentati, il tempo interminabile.
Una scena a luci rosse. E la scelta così didascalica del colore delle gelatine suona qui grottesca come i cappelli enormi prima citati. Altrove è meno giustificata: manca un disegno luci preciso e ragionato.

L’ansia da prestazione di messer Nicia è l’ossessione di avere un figlio, ovviamente maschio. «Maschio, maschio, maschio!» è un mantra dello spettacolo, una gag buffa che, nel codice deformato proprio del linguaggio comico, smonta il machismo del marito cornuto a colpi di risate. La sua dabbenaggine lo fa becco: crede nel potere magico di un’erba, la mandragola, appunto, capace di rendere gravida sua moglie, e cade così nel tranello del falso dottore Callimaco, innamorato di Lucrezia, il quale ordisce trame con la guida dell’amico Ligurio, la complicità della madre di lei, Sostrata (Daniela Locuratolo) e del confessore, fra Timoteo (Michele Santomassimo).

ph Federico Guida

La commedia prosegue veloce tra una battuta esilarante e un inganno, segue nel testo il copione antico, ci sorprende per le trovate sceniche, ci diverte e ci fa riflettere.
Da segnalare la vis comica di Vito Latorre, che ha anche una piccola parte come attore nei panni del servo, e di Domenico Piscopo, di cui si apprezza la padronanza del corpo e del gesto.
Le azioni, costruite da una regia attenta al ritmo degli accadimenti e al passaggio tra una scena e l’altra, si svolgono dentro e fuori: dentro i bozzoli di plastica, in cui si consuma la menzogna e l’inganno, e fuori, sul palcoscenico, luogo dell’ipocrisia e dell’apparenza.

I bozzoli di cellophane, da cui gli attori entrano ed escono, sembrano enormi condom. Questi, l’alcova e le sagome bianche priapee sullo sfondo sono espliciti riferimenti sessuali. Rimandano al desiderio di paternità di messer Nicia e alla maternità mancata di Lucrezia,  cui  allude anche una grande sfera bianca custodita nell’alcova.
Ma il tema della commedia è questo solo in superficie, il senso di tutto è nel finale.

L’opera machiavelliana si conclude con un sarcastico lieto fine: Lucrezia fa di Callimaco il suo amante fisso, giovane e bello, resta incinta, il marito è cornuto e contento, il frate ha il suo gruzzolo di guadagno e tutti vivono felici e contenti. Lucrezia, “principe in gonnella”, vince: crea un nuovo codice di valori, sa adattarsi con ingegno ai colpi di fortuna. Per Machiavelli la commedia è dunque occasione gioiosa per una riflessione su fortuna e  virtù.
Nella Mandragola di Latorre, arrivati al finale, dopo un intero copione fedele al testo, ci aspettiamo lo sguardo d’intesa tra Lucrezia e Callimaco. E invece sulle note di Amandoti (già in un’altra scena dello spettacolo nella versione originale dei CCCP, torna qui in quella più lcontemporanea dei Maneskin), lui si defila. Lei, abbandonata dall’amante, sceglie la stabilità coniugale.
Allo spettatore resta l’amaro in bocca: la commedia assume improvvisamente un significato nuovo, attuale. Rappresentarla non è più mera operazione storica di riconsegna di un testo classico alla scena. E acquista un senso pure quella scenografia ridondante.
Sentiamo che fuori dalla favola cinquecentesca, oggi, siamo prigionieri di bozzoli di plastica e inquietudini, in bilico tra il desiderio di emozioni, la paura del legame e il bisogno di sicurezza, incapaci di vivere l’amore che ci affatica e ci svuota dentro.
Oltre le risate grasse ci arriva alla fine una domanda bruciante sulle relazioni e sul presente.


MANDRAGOLA

di Niccolò Machiavelli

produzione di Compagnia Teatrale Tiberio Fiorilli e Onirica Teatro
regia di Vito Latorre
con Luca Amoruso, Rosanna Cassano, Davide De Marco, Vito LatorreDaniela LocuratoloDomenico D. PiscopoMichele Santomassimo
costumi Angela Gassi
scene Davide Sciascia
direzione artistica Dino Signorile
organizzazione generale Luca Amoruso

Teatro Duse, Bari
7 e 8, dal 12 al 17 ottobre 2021