SARA PERNIOLA | Il dolore fa rumore più di tutto: che sia visibilmente mostrato o ben celato, nel suo percorso scopre le nostre fragilità, le tracce sincere della nostra umanità. La sua storia è lunga quanto quella del mondo ed è difficile poterlo definire davvero, dal momento che deriva da un’esperienza soggettiva modellata da componenti fisiologiche e comportamentali, psicologiche e socio-culturali, diverse per ognuno di noi. Nonostante questo, è un’esperienza comune a tutti gli esseri umani, e l’arte ne è la forma di rappresentazione più elevata.
The Garden di Fanny & Alexander – rappresentato a Bologna presso Atelier Sì, il 14 e 15 dicembre scorso, per l’anniversario dei 30 anni della compagnia – investiga proprio il rapporto tra arte e sofferenza, cercando di rispondere a questi interrogativi: «Perché nell’arte ricorre così spesso un soggetto come quello della sofferenza? Non siamo forse nient’altro che consumatori del dolore altrui o esiste in noi veramente uno spazio per la compassione? C’è una bellezza sublime nella sofferenza? Un’ambiguità? Quali sono le storie del nostro tempo che riverberano questa sofferenza? Deve l’arte assorbire questa istanza? Farsene portavoce? Non rischia di essere consolatoria? Che responsabilità abbiamo nel guardare la sofferenza altrui?».
Luigi De Angelis – ideatore e drammaturgo, cura anche la regia e video di ciò che, più che uno spettacolo, è una vera e propria esperienza – aspira al visibile e, allo stesso tempo, lavora sull’impossibilità della visibilità assoluta di un concetto così ampio, complesso, che rinvia a prospettive multiple. Lo fa – insieme alla soprano Claron McFadden e al musicista Emanuele Wiltsch Barberio – con l’allestimento di una galleria di lamentazioni e memorie musicali del passato, da Monteverdi a Bach, da Nina Simone a Giovanni Legrenzi, da Barbara Strozzi a John Dowland.
Ospitati nella sala teatrale Lo Spazio della memoria dell’atelier di sperimentazione, siamo testimoni di un polittico video su cui affiorano sette figure cristologiche ispirate a altrettanti casi della cronaca recente, più altri personaggi di rimando evangelico del nostro tempo. Corpi e volti che racchiudono vicende umane ed eterne affiorano su sette schermi, allegorie di una Passione contemporanea. Osserviamo, così, una moderna Maria Maddalena che piange, provata dal pathos per essere stata vittima, insieme a sua figlia, di violenze indicibili in un campo di detenzione a Tripoli; e poi Pilato, interpretato da Marco Cavalcoli, il quale simboleggia il dolore morale e terrestre di un Primo Ministro che nel 2003 era un fervente sostenitore dell’invasione americana in Iraq, e ora pentito.
Ancora, attrici e attori – Andrea Argentieri, Mirto Baliani, Ilenia Carrone, Mirko Ciorciari, Consuelo Battiston, Gianni Farina, Adama Gueye, Chiara Lagani, Bet Lihem, Joshua Maduro, Roberto Magnani, Fiorenza Menni, Mauro Milone, Marco Molduzzi, Stefano Toma -, alcuni con la corona di spine, nel ruolo di Gesù; altre in quello di Maria; o Pietro e Giuda, a denunciare ingiustizie, con le lacrime che fanno brillare i volti e accompagnano la loro inesauribile volontà di protesta.
Il paesaggio che scorre sui pannelli evoca il giardino di Getsemani sul Monte degli Ulivi, dove Gesù si ritirò dopo l’Ultima cena e da dove fu poi prelevato per essere crocifisso: un luogo di vita e di morte, in cui perdersi nell’incantevole intreccio dei rami degli alberi, ma il cui crepuscolo cela anche il furore delle fiamme che consumano il mondo e i singoli individui. L’eco di Gerusalemme, così, si sovrappone e fa pensare a quello della Siria e di Hong Kong, del Brasile e dell’Africa Occidentale, del Messico e della Libia. Indimenticabilmente l’Ucraina, la Palestina e lo Yemen.
Quella che viene messa in scena è una terra oscura, dove il male rimane sigillato nel tempo e percorre le vie della ragione e della Storia: le guerre civili e le uccisioni per l’identità di genere, le lotte per la libertà e i perversi meccanismi di potere, l’inferno dei campi di detenzione e il razzismo, sono tragedie quotidiane che dimostrano un vivere senza memoria e coscienza di colpa; incarnano le violenze della politica, scettri e imperi, capaci di creare un girone mortale in cui siamo tutti coinvolti.
La sensibilità, dunque, non può rimanere sorda al richiamo della verità, che viene presentata utilizzando come medium espressivo anche la vocalità, trasformando The Garden in un vero e proprio concerto: messa in relazione con un determinato tempo e spazio, ha una funzione drammaturgica ed emozionale imperante, poiché entra in contatto con il pubblico in modo più intimista, parlandoci direttamente.
La voce di McFadden è, infatti, pura energia sonora: l’aria che esce dai polmoni si codifica in parole e suoni che incontrano i microfoni e si propagano verso l’ambiente, stabilendo un legame con tutto il corpo dello spettatore. Il segnale viene, così, interpretato in modo sensoriale diverso, e questo avviene anche grazie al live looping di Wiltsch Barberio: i riverberi dei suoni presentano una specifica coerenza, definendosi come un loop di sequenze di musica elettronica e sperimentale, che passano dall’universo uditivo e tattile a quello neuronale.
Questa unità contemporaneamente armonica e tragica costituisce un concentrato di sofferenza di crescente intensità, ravvisabile nella dolorosa via degli sguardi e dei pianti delle moderne figure cristologiche; nell’espressività canora che, con frasi ripetute e cantate come «Chi mi toglie il respiro?», o che leggiamo sullo schermo come «Beati i poveri perché a loro è destinato il regno dei cieli», sottolinea il carattere commovente della pièce.
Perfettamente in linea con il modus operandi di F&A, anche questo spettacolo presenta una moltitudine di indizi polisemici – la regia e le inquadrature, i movimenti e il montaggio video, l’illuminazione, il live looping e la vocalità – che articolano in strutturati labirinti di senso la materia narrativa, l’apparato teatrale e le pulsioni espresse.
Un processo multi-autoriale che ha come sfondo un asciutto allestimento e che funziona nel suo rendere consapevoli di una narrazione transmediale, in cui i legami tra un mondo e l’altro – quello in cui siamo e quello riprodotto – sono continui. Forse una dimostrazione di come i dispositivi artistici riescano a esercitare – riprendendo un grande insegnamento di Carmelo Bene – una potenza di effrazione della realtà, a oltrepassare la bellezza e a non fermarsi al suo velo protettore, spezzando il quadro delle canoniche rappresentazioni, per metterci violentemente in contatto con ciò che lascia un vuoto. Insomma, una rappresentazione non dalla natura consolatoria, e che riconferma la vocazione multimediale della Compagnia, presentando con raffinatezza l’artificio della ricerca scenica, mentre osa confrontarsi con i lati bui, sconcertanti, dell’esistenza.
The Garden è, dunque, un accurato prodotto artistico che parla di quanto dolore ci sia nel mondo, e di come chiarirlo sia impossibile e vederlo sia necessario. Di come affrontarlo significhi crescere in umanità e maturare con sé stessi, con la terra, con il mondo. Solo così, forse, si potrà contribuire a frenare la caparbietà del male che anima la vita umana.
THE GARDEN
ideazione, regia, drammaturgia, video Luigi De Angelis
costumi (video) Chiara Lagani
vocals Claron McFadden
live looping Emanuele Wiltsch Barberio
regia del suono Damiano Meacci (Tempo Reale)
video performer Andrea Argentieri, Mirto Baliani, Ilenia Carrone, Marco Cavalcoli, Mirko Ciorciari, Consuelo Battiston, Gianni Farina, Adama Gueye, Chiara Lagani, Bet Lihem, Joshua Maduro, Roberto Magnani, Fiorenza Menni, Mauro Milone, Marco Molduzzi, Stefano Toma
organizzazione Marco Molduzzi, Maria Donnoli
produzione Fanny&Alexander / E-Production, Muziektheater Transparant
co-produzione Romaeuropa Festival, Klarafestival
in collaborazione con Cosmo Venezia
Atelier Sì, Bologna, in occasione di “30F&A! Trent’anni di Fanny & Alexander” 15 dicembre 2022