ELENA SCOLARI | Il regno degli equivoci di Carmelo Rifici è arredato con parallelepipedi di gommapiuma color bon bon che ammorbidiscono come marshmallow qualsiasi urto, fisico o emotivo. George Feydeau (1862-1921) era un costruttore ineguagliabile di qui pro quo e mettere La pulce nell’orecchio è un metodo infallibile per creare malintesi forieri di girandole comiche: scambi di persona, corna presunte, mariti becchi, mariti in surplus di focosità, mogli intriganti e sospettose, armadi salvavita, americani tonti e serve insoddisfatte. Insomma, tutto il catalogo indispensabile alla riuscita della giostra dei fraintendimenti.
Carmelo Rifici si è lanciato una sfida e ha affrontato quest’opera (coproduzione LAC Lugano/Piccolo Teatro), avvicinandosi al genere vaudeville, finora non toccato nella sua carriera teatrale; nell’ambito commedia aveva diretto I pretendenti di Jean-Luc Lagarce nel lontano 2009, regia che gli fu commissionata proprio per il Piccolo dall’allora direttore Luca Ronconi. La pulce nell’orecchio è appena stata in scena in prima nazionale al Piccolo Teatro di Milano, dopo il debutto svizzero al LAC di Lugano.
Per l’ambientazione de La pulce Rifici ha scelto un’attualizzazione estetico/simbolica. Infatti i costumi dei dodici attori sono abiti d’oggi, tailleur e vestiti di colori saturi e sgargianti – niente che occhieggi ai primi del ‘900 – ma le situazioni sono quelle del testo originale: lettere scritte a mano, alberghetti che custodiscono scappatelle, serate a teatro in cui ci si osserva da palchetto a palchetto. Se all’epoca di Feydeau l’intento dell’autore era dileggiare in scena la classe sociale borghese che assisteva alla pièce in platea, oggi questo effetto è completamente perso: nessuno si riconosce nella vacuità di comportamento di personaggi tanto sfaccendati quanto ripiegati su se stessi e sulle proprie ridicole bagattelle private.
A ben guardare, la critica, in realtà, potrebbe ancora avere valore (forse che oggi non ci guardiamo costantemente l’ombelico, vivendo dentro a un’ininterrotta vetrina?), ma le circostanze descritte appaiono così distanti da allontanare anche qualsiasi sospetto che la presa in giro possa ancora riguardarci.
E in questo è complice, in tutto il primo atto, un certo atteggiamento di bonomia che la regia spolvera sui caratteri, resi “incredibili” anche per via dell’effetto caramellato che riveste tutti. Una menzione a parte merita Camillo, il personaggio interpretato con impareggiabile brio da Tindaro Granata, che diversamente da tutti gli altri ha un esplicito richiamo a un genio indiscusso del cinema: Charlie Chaplin, per movenze, pantaloni troppo corti, baffetti e ingenuità. Gli mancano solo bombetta e bastone. E mutismo. Anche se un problema di linguaggio ce l’ha, perché Camillo è affetto da un pesantissimo e buffo difetto di pronuncia che gli impedisce di dire le consonanti, e questo difetto lo rende (anche per capacità recitativa) il corpo più libero in scena, il suo e quello di Elide (Giulia Heathfield Di Renzi) sono i ruoli con più sfaccettature e in cui intravediamo il maggior sviluppo umano.
Granata mostra la sua professionalissima poliedricità anche interpretando Zia Theresine, una vecchietta con occhiali fondo di bottiglia, decisa a tutti i costi a non trapassare.
La cifra dello spettacolo è improntata su un registro che ricorda gli sketch clowneschi in cui le cadute su gommapiuma sono sottolineate dal suono dei piatti di una miniband situata a destra del palco. Le musiche (curate da Zeno Gabaglio) hanno un ruolo importante anche per le scelte di inserimento di brani pop suonati e cantati dagli attori stessi: da Girls Just Want to Have Fun di Cindy Lauper (brano del 1983 che sta vivendo un momento di revival universale) a Walk Like an Egyptian delle Bangles (1986), fino a Into My Arms (1997) di Nick Cave and the Bad Seeds, il secondo di questi senza un motivo drammaturgicamente leggibile.
Adattamento del testo, drammaturgia e traduzione sono firmati da Rifici e Granata, ed è un buon lavoro che linguisticamente scorre in maniera liscia, i nomi sono spassosi: il dottor Spacciato (un frizzante Fausto Cabra, che interpreta anche Carlos Homenidas de Histangua, il caliente spagnolo), la coppia dei Carcassa (Ugo Fiore e Carlotta Viscovo); ci sono poi alcune scelte caratterizzanti, come il fatto che le due serve, Elide in casa Chandebise e Olimpia all’Hotel Feydeau, parlino in romanesco, richiamandosi all’immaginario cinematografico italiano. Alfonso De Vreese è l’americano tonto, detto Rugby, tutto muscoli e sempre in divisa da gioco, alla affannosa ricerca di un’anima gemella che troverà in Elide – inizialmente innamorata del menomato Camillo, ma che risulterà molto meno interessante quando un palato d’argento risolverà il suo handicap di eloquio -, l’atleta nasconde un’anima poetica, che rivela alla tastiera del piano (è lui che canta Into My Arms). Christian la Rosa è Vittorio Emanuele Chandebise e Buco (un factotum dell’albergo Feydeau), disinvolto nel primo ruolo, è quasi più accattivante nel secondo, imprevedibile e più sfumato di quel che sembra; Francesca Osso è Luciana Homenidas de Histangua, ottima per saper mettere fin dall’inizio qualche incertezza preparatoria alla svolta del secondo atto.
Un tondo girevole, secondo perno scenico insieme alla gommapiuma (scene di Guido Buganza), è la giostra che fa passare in rassegna i personaggi e gli equivoci come un carillon animato da figurine spumeggianti ma superficiali. Uomini fatti e signore rimbalzano come in un parco giochi e si inerpicano sui cubi gommosi come bambini, e il loro tempo è un tempo da bambini, tutto frizzi e stratagemmi.
Questo genere di commedia si basa sulla perfezione degli ingranaggi, sul perfetto incastrarsi delle tante tessere che compongono il garbuglio e soprattutto sul ritmo, che deve essere rutilante, deve stordire lo spettatore per travolgerlo e non lasciare respiro tra una risata e l’altra; qui non è sempre così, c’è un pizzico di dilatazione in più.
In fondo, non ci importa tanto che gli intrecci si sciolgano (come in effetti avviene, ça va sans dire), quanto vedere l’effetto che lo scioglimento produce nei personaggi: nel secondo atto, infatti, qualcosa cambia: compare la malinconia e tutto si fa un poco più pensieroso, affiora qualche riflessione, nessuno è ciò che vuol essere e tutti percepiscono che c’è qualcosa di più intimo e profondo che sfugge ma la cui ricerca li renderà persone più rotonde. Forse, vorranno scendere da quella giostra per impegnarsi in una vita meno inconsistente.
LA PULCE NELL’ORECCHIO
prima nazionale
di Georges Feydeau
traduzione, adattamento e drammaturgia Carmelo Rifici, Tindaro Granata
regia Carmelo Rifici
scene Guido Buganza
costumi Margherita Baldoni
luci Alessandro Verazzi
musiche Zeno Gabaglio
assistente alla regia Giacomo Toccaceli
con (in ordine alfabetico) Fausto Cabra, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
immagini © LAC Lugano Arte e Cultura – foto Luca Del Pia
Piccolo Teatro Strehler, Milano | 25 novembre 2023