MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | ES: Nella sequenza iniziale del film Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) il palazzinaro Edoardo Nottola (Rod Steiger), indicando Napoli e guardandola da un terreno ancora agricolo e vuoto, afferma che la città «da là deve essere spostata qua. Questo metro quadro ora lo paghiamo 300 lire, ma domani può valerne anche 70.000. Il 200% di guadagno». Ecco. Un manifesto del profitto facile e incurante del bene pubblico. Mi sono venuti in mente molti riferimenti mentre guardavo la prima replica milanese de La Ferocia al Teatro Fontana di Milano, questo è il primo, apparso spontaneo per associazione di nefandezze.

MB: L’inizio – a Milano come al Teatro Cantiere Florida di Firenze – comincia dalla fine. È la fine. La caduta della casa dei Salvemini avviene subito, nelle prime battute. Anzi, è già avvenuta. La villa che fu la loro reggia è data in vendita, il loro potere è ormai ricoperto di polvere e oblio, come ogni altra cosa tra quelle mura. È il passato, ma attenzione: non è dietro di noi, non è alle nostre spalle. Ce l’abbiamo davanti. E si sta per ripetere.
VicoQuartoMazzini prende il romanzo di Nicola Lagioia – Premio Strega e Premio Mondello nel 2015 – e con lo splendido adattamento di Linda Dalisi ne fa una tragedia del potere. Ossia, un’indagine a ritroso delle cause intime e collettive, scandaglio delle zone d’ombra politiche e culturali, affondo verticale nei processi e nei legami di una famiglia amorale assunta a simbolo di un sistema fondato sul crimine dello Stato di fatto: “si è sempre fatto così”.

ES: “Si è sempre fatto così” – o almeno dal boom economico degli anni ’60 – e “lo faccio per i miei figli”. Per costruire il loro futuro così come si costruiscono edifici, non importa a quale prezzo. Un alibi tanto autoassolutorio quanto franoso. In realtà, i figli finiranno sepolti sotto le fondamenta edilizie, insieme ai rifiuti tossici cacciati sotto il tappeto della speculazione.

ph. Daniele Spanò

MB: Allora, più che a ritrarre come questa storia va a finire (come detto, è rivelato in apertura), più che alla risoluzione del giallo della morte di Clara, la figlia maledetta dei Salvemini, i due ideatori e registi Michele Altamura e Gabriele Paolocà sono interessati a esplorare perché va a finire così. E lo sono, in particolare, da figli del Sud Italia. Per questo, hanno scelto una vicenda che parla del Sud, di un importante narratore del Sud, e in scena interpretano, rispettivamente, Ruggero e Michele, il figlio integrato e il figlio bastardo di Vittorio, il capofamiglia impersonato da un luciferino Leonardo Capuano: per fare i conti con sé stessi, con chi sono ora e, a un tempo, con chi sarebbero potuti diventare se non avessero incontrato il teatro sulla loro strada vent’anni fa (correva l’era Nichi Vendola e la Puglia era felix).

ES: Il Sud. La grande metafora del Mezzogiorno. A questo proposito, Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1961) scriveva che la linea della palma, quindi il clima favorevole a questa pianta, stava salendo dal Sud, dalla Sicilia, un po’ per volta verso Nord, e ormai era già oltre Roma… L’habitat per la corruzione si ampliava rampicando lungo lo stivale. Chissà se i fusti di quelle piante alte e magre che vengono continuamente spostati dagli attori in scena ricordano inconsapevolmente l’immagine di Sciascia. Sicuramente fanno pensare all’uomo che vuole muovere la natura, al lavorio per farsi spazio, con la tracotanza di chi non può incontrare ostacoli che non possano essere abbattuti.
Salvemini padre non si preoccupa nemmeno di nascondere alla famiglia i suoi intrallazzi, Leonardo Capuano è bra-vis-si-mo, la sua interpretazione scalda la tavola fredda delle frodi, è un perfetto uomo marcio che vuole salvare la borsa al costo della vita della figlia. La verità si fotta.

ph. Daniele Spanò

MB: In scena la vicenda è un nastro che si riavvolge, come un filo di Arianna che si riannoda al centro del labirinto, per opera e intervento del narratore / giornalista d’inchiesta Danilo Sangirardi, portato sulla scena da un misurato Gaetano Colella. Ciò che lui vede, noi vediamo. Ciò che lui sente, noi sentiamo. Ovvero, tutto.

ES: Ecco, io qualche dubbio sull’efficacia del suo ruolo in scena (non nel romanzo) ce l’ho. Visivamente il suo cubicolo studio può ricordare il confessionale del Grande Fratello: lui ascolta da lì “le confessioni”, cioè la vita dei Salvemini mentre si svolge, origlia ciò che già conosce e racconta al lettore/spettatore come in una differita che guarda al passato. Nelle intenzioni di VicoQuarto è un podcaster ma questo poco cambia. È, più che altro, una figura che dà appoggio ai personaggi e respiro al pubblico, anche grazie a una recitazione piana e distensiva.

MB: Le confessioni di cui parli, a sé e al pubblico, avvengono all’esterno della villa dei Salvemini, una struttura minimale, tanto bianca quanto asettica, composta da una grande porta-finestra, al di là della quale batte il cuore del potere: il tavolo delle trattative. La chirurgica scena di Daniele Spanò sembra una teca entomologica. Dentro vi si respira un’aria chiusa, già respirata da altri. I sogni sono già sognati, certo da Vittorio Salvemini, il costruttore pugliese arrivato a Bari poco più che trentenne, che dagli anni ‘70 ha costruito un impero di cantieri edili, ma anche dalla moglie, Annamaria, a cui Francesca Mazza dà la sofferta potenza di una Lady Macbeth suo malgrado.

ES: La scena, esteticamente, sta a metà tra i quadri desolati di Edward Hopper e le ville con piscina di David Hockney, dove un tuffo è appena avvenuto, ma non c’è traccia del tuffatore, gli schizzi resteranno lì, fissati per sempre senza bagnare nessuno.

David Hockney, A bigger splash

Quanto a Lady Macbeth, la povera Annamaria subisce e sopporta, ma mai sobilla. È vero che si ritrova, come dici, moglie di un faccendiere malgré soi, ma non lo istiga. La malvagità che esplode nel suo monologo è in fondo l’esasperazione di una donna trascurata, tradita, madre sfinita di fronte al pianto ininterrotto della neonata il cui parto la costringe a letto. Annamaria si augura il male dell’amante del marito, ma non l’annientamento di una stirpe per lo scettro.

MB: Della stirpe no, ma di Clara e Michele, ribelli e riottosi, sì. Peraltro, in casa non si nomina quasi mai Clara, trovata morta una notte sulla provinciale che collega Bari a Taranto. È una scomparsa, ma è anche un’assenza, metaforica e concretissima: il suo personaggio, presente nel libro, a teatro non c’è. Non c’è lei, ma i discorsi su di lei, intorno a lei, per lei. A ben pensarci, però, qualcuno che la rappresenta esiste eccome: siamo noi, noi spettatori, noi fantasmi che restiamo al buio, in silenzio, senza poter fare niente per nessuno. Una soluzione che sfrutta in maniera potente l’immersività e la catarsi che soltanto la scena può offrire.
Gli altri personaggi sono perlopiù sempre in scena. Sono presenti anche se non dovrebbero stare lì, anche quando nel romanzo di Lagioia non è scritto che stiano lì. E portano e “piantano” lungo lo spettacolo quelle piante che hai ricordato prima. Sono finte, immobili, e rimandano, a mio avviso, ai giunchi sul luogo del disastro ambientale coperto da Vittorio e dalla sua rete di connivenza, che passa anche per il marito di Clara, uno schietto Andrea Volpetti, e culmina nell’ex sottosegretario alla Giustizia Valentino Buffante, un raggelante Roberto Alinghieri. Per restare nella metafora shakespeariana: è una “foresta di Birnam” del crimine che ricade su chi pecca facendo il male e, citando Pier Paolo Pasolini, anche su chi non fa il bene. Secondo VicoQuartoMazzini sono tutti ugualmente colpevoli e della morte di Clara e dell’avvelenamento di un intero territorio.

ph. Daniele Spanò

Il tempo frammentato della pagina, continuamente avanti e indietro, viene reso per dissolvenze e assolvenze date da entrate e uscite con moto quasi circolare, come se lo spazio coincidesse con il meccanismo di un infernale orologio meccanico. Su questo passo il racconto delle storie personali è attraversato con monologhi pieni di figure incrinate, che non si spaccano unicamente per rispettare i ruoli e le convenzioni sociali.

ES: Linda Dalisi ha senz’altro fatto un grande lavoro nell’adattare il romanzo alla scena, la scrittura di Lagioia è un po’ carica nello stile, poco teatrale (non pensava certo a uno spettacolo dal suo libro) e quindi non facile da indossare in scena. Far emergere e incarnare la complessità di un personaggio – soprattutto il figlio Michele interpretato da Paolocà, che così tanto cambia nell’arco del tempo narrativo – che si sviluppa lungo le tante pagine di un romanzo è un lavoro difficile e che non riesce pienamente per tutti i caratteri.
Lo spettacolo è molto parlato, questo non sarebbe di per sé un difetto se ci fossero idee teatrali forti a bilanciare verbosità e staticità. Le invenzioni si limitano, invece, agli elementi già citati: le piante, le porte scorrevoli e traslucide per dividere intrighi e intimità, il box del giornalista. Data la ricchezza del testo, che possiede momenti di bella prosa incisiva e anche poetica, la drammaturgia è costretta a spiegoni “di servizio” nell’ultima parte, per riuscire a concludere i nodi dell’intreccio. Gennaro Lopez, ex medico legale prezzolato che ha mentito sull’incidente di Clara, interpretato da Enrico Casale, è troppo caricaturale e spiattella tutta la verità un secondo dopo essere entrato in scena.

ph. Daniele Spanò

Nella crudezza della sostanza feroce del testo c’è un’eco di Bret Easton Ellis, la sua America tutta superficie e cocaina basava il riconoscimento di esistenza in vita sul possesso: sei ciò che hai. I Salvemini hanno cantieri in tutto il mondo e in Puglia hanno Porto Allegro, il villaggio turistico intorno a cui gira la squallida girandola di corruttele, tutt’altro che allegra. E in questo nome c’è forse un richiamo al manifesto di Porto Alegre in Brasile, dove nel 2005 si tenne il Forum Sociale Mondiale durante il quale fu presentato un dodecalogo “per un mondo differente”.

MB: Ciò non toglie che siamo di fronte a una compagnia indipendente che si è pensata in grande per realizzare un progetto in cui ha fortemente creduto (qui l’intervista di Ilena Ambrosio per PAC al debutto a Romaeuropa) e che adesso è più che pronta a entrare, a suo proprio modo, nelle stagioni del teatro classico, quello in abbonamento, per intenderci. E lo fa con una Ferocia che assume a ogni giro di frase i toni e i colori di un funerale costante, un pugno su di un cuore raggelato che non dà sangue, soltanto morte.
Non c’è violenza, c’è distruzione. Non c’è dolore, c’è commiserazione. La fine finisce dall’inizio. I Salvemini non sono riusciti a fare del loro legame una casa da abitare. La colpa – è il monito dello spettacolo – non è del sistema, non è della cultura, di cui pure fanno parte: è non scegliere, è non assumersi fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni. Cosa che, invece, fa Michele, distruggendo tutto perché possa essere ricostruito meglio da qualcun altro. Ma chi?

ES: Forse con l’aiuto dell’uomo-rana che, in quella guisa, disegna a Michele il destino triste della sorellastra caduta sotto il peso del cupio dissolvi in cui si è rifugiata per cancellarsi; chissà che il riscatto non venga anche da chi deve sudare dentro costumi ridicoli per guadagnarsi la giornata, pubblicizzando prodotti scadenti in un centro commerciale. Probabilmente abusivo.

LA FEROCIA

ideazione VicoQuartoMazzini
dal romanzo di Nicola Lagioia
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
adattamento Linda Dalisi
con Roberto Alinghieri, Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Gabriele Paolocà, Andrea Volpetti
scene Daniele Spanò
realizzazione scenografie Officina Scenotecnica Gli Scarti
luci Giulia Pastore
musiche Pino Basile
costumi Lilian Indraccolo
aiuto regia Jonathan Lazzini
direttore di scena Daniele Corsetti
progetto audio Niccolò Menegazzo
datore luci Marco Piazze
cura della produzione Francesca D’Ippolito
ufficio stampa Maddalena Peluso
grafiche Leonardo Mazzi
consulenza artistica Gioia Salvatori
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, LAC Lugano Arte e Cultura, Romaeuropa Festival, Tric Teatri di Bari, Teatro Nazionale Genova 

Teatro Cantiere Florida, Firenze | 24 febbraio 2024
Teatro Fontana, Milano | 27 febbraio 2024