ILENA AMBROSIO | Partiamo dalla fine. «Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita!… È  stata tutta una vita di sacrifici e di gelo!… Così si fa il fa il teatro, così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni e l’ho pagato! Anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato».
Il 15 settembre del 1984 Eduardo De Filippo, nella sua ultima apparizione pubblica, a Taormina, pronunciò queste parole. Con il senno del poi, il poi della sua morte di poco dopo (il 31 ottobre), risuonano come un testamento spirituale e poetico, ma anche come una sorta di finale confessione, quasi una giustificazione del modo, rigido, integerrimo, intransigente, gelido, appunto, in cui per un’intera esistenza si era dedicato all’arte.

Sulla commossa e commovente voce di Eduardo si chiude Il Gelo di e con Mimmo Borrelli – una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini – un reading che intende essere certamente un omaggio a De Filippo ma, al contempo, anche un’accorata e intensissima meditazione. Anzi, un’incarnazione del gelo che deve aver pervaso l’artista nei momenti più sublimi – se il sublime contiene bellezza e terrore insieme – della sua creatività. Quelli della poesia.
La poesia per Eduardo è stata ristoro dalle fatiche della drammaturgia, ma anche messa a punto di situazioni e personaggi che hanno poi condotto ad alcune delle sue commedie. Ancora pagine bianche da affrontare, ancora parole venute fuori da una penna intinta nella solitudine e nella strenua dedizione. Tra queste parole Mimmo Borrelli ha incontrato e deciso, si diceva, di incarnare quelle che raccontano tre figure particolarissime dell’immaginario eduardiano: Padre Cicogna, Vincenzo De Pretore, Baccalà. 

Ph. Flavia Tartaglia

Il primo è protagonista del poemetto omonimo del 1969: un sacerdote che ha deciso di abbandonare l’abito talare per sposasi e che, onde evitare la maledizione divina, decide di offrire in rappresentazione natalizia i propri figli nelle vesti dei Re Magi. Una rappresentazione che non avrà mai luogo: la morte coglierà sempre uno degli infanti.
Poi, la poesia del 1948, Vincenzo De Pretore, nucleo della successiva commedia del ‘57: la morte e l’ascesa di un povero “mariunciello” dei bassifondi napoletani devoto a San Giuseppe. È un viaggio in un paradiso popolato da dèi più che da santi, figure di estrema umanità, con pregi e difetti simili a quelli degli uomini. Un paradiso che, alla fine, accoglie l’emarginato ladruncolo che il mondo aveva condannato senza pietà, e che lo vede morire drammaticamente.
Termina la triade a ritroso nel tempo il melanconico poemetto del 1949, Baccalà. A pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il racconto  dell’esistenza di Gennarino, «un personaggio tipico di una Napoli eterna, fermato e disegnato in versi». Lavoratore così così, che si arrabatta come può, Gennarino gode dell’amicizia e degli affetti di coloro che gli stanno intorno, ma che ritrova spenti e inariditi al rientro dalla guerra, tanto da indurlo, solo e misero, al suicidio per impiccagione.
Tre vite purgatoriali che hanno a che fare con la morte e con la miseria, e che la penna di Eduardo deve aver fatto scaturire con somma sofferenza.

Ph. Flavia Tartaglia

Borrelli dichiara di aver immaginato Eduardo “solo di fronte al lenzuolo bianco della morte in pagina, solo e infreddolito dalle idee mancanti di gesso, gelide di marmo, solo poiché la creatività non esiste. Va preparata dalle sofferenze, nutrita dalle mancanze, concimata dalle responsabilità”. Ancora, l’ha immaginato “tra le quattro mura del suo camerino, intento a fissare su carta i suoi tormenti e a ripeterli e provarli magari a bassa voce come è solito fare chi scrive”.
E così, allora, ritroviamo il corpo dell’attore in scena: stagliato su un gelido fondale argenteo, solo, seduto a uno scrittoio, di fronte alle pagine (essenziale, ma molto bella la scena di Palladino). Allo scrittoio e alla sedia che gli sta dietro, così piccoli rispetto alla sua stazza imponente, Borrelli rimane inchiodato da una forza di gravità che non agisce dall’esterno, bensì pare scorrergli nelle vene: è il gelo della dedizione alla scrittura, sì, ma un gelo che ribolle, che nel momento della messa in corpo della parola genera quella energia vigorosa, caleidoscopica, anche sinistra, che solo questo artista sa portare in scena. 

E allora si materializzano, incandescenti, le figure che popolano i versi di Eduardo, si materializzano le voci e le cadenze popolari, i visi distorti, i corpi con le loro particolari posture ed eccessive movenze. Borrelli resta incatenato alla sedia, ma ogni sua azione è una ribellione alle catene, uno scatto vitale che rende i racconti di Eduardo, la sua parola scritta, qualcosa di organicamente visibile, palpabile, affatto aleatorio.

Ph. Flavia Tartaglia

E dunque cos’è questo Gelo? Una lettura certo, format forse stanco, talvolta “di comodo” che, in tutta onestà, non ci si sarebbe aspettati dalla fervida e appassionata creatività di Mimmo Borrelli. Ma il peso specifico di un artista sta spesso nel come, non tanto nel cosa: nell’arco di un’ora circa Borrelli regala – in quel modo tutto suo che è quasi, anche, una violenza dei sensi –  tante cose. Sopra tutte offre in voto al Nume eduardiano non solo un omaggio alla sua arte, ma lo stesso sacrificio della scena che l’aveva raggelato pur facendogli tremare il cuore, reiterandolo, ancora e ancora.
In questo sacrifico offre, poi, conoscenza profonda, e perciò dolorosa, di cosa possa voler dire «fare teatro sul serio», fare cioè quello autentico, che pretende tutto. Borrelli fa questo teatro dandogli tutto e, nel farlo, il dono finale è a chi lo guarda, a un “umano, troppo umano” spettatore che può sperimentare, nel breve spazio di un’ora, con lo stesso tremore del cuore, la gioia e lo sgomento del sublime.

 

IL GELO

da Eduardo De Filippo
con Mimmo Borrelli
musiche a cura di Antonio della Ragione
luci e spazio scenico di Salvatore Palladino
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

21 marzo 2025 | Teatro Bellini, Napoli