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mercoledì, Aprile 30, 2025
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Il lamento e il rancore: le Troiane di Cerciello da Euripide a Gaza

OLINDO RAMPIN | A pochi passi dalla prima fila di spettatori, al centro di una scena povera d’oggetti, Imma Villa è la regina di una città che non esiste più. Accasciata a terra, in antichi abiti luttuosi, Ecuba rivendica con regale fierezza il diritto a piangere. Non sarà il silenzio, ma il thrênos, il canto funebre, ad accompagnare il dolore di questa sovrana dýsdaimon, «infelice». Nelle Troiane, nella versione del greco Euripide ma anche nel vario mosaico di testi, da Seneca a Sartre, che ne sono derivati, e dai quali Carlo Cerciello ha elaborato adattamento e regia aggiungendo il sottotitolo Ovvero in guerra per un fantasma, è l’infelicità umana, prima ancora che la disumanità della guerra, il centro del discorso tragico.
È la «filosofia dolorosa ma vera» che più di duemila anni dopo il Leopardi delle Operette morali, nei panni di Tristano, rivendicherà coraggiosamente, replicando ai suoi detrattori che quella filosofia non era affatto una invenzione sua, ma dei poeti e filosofi antichi «i quali tutti sono pieni pienissimi di favole, di sentenze, di figure significanti l’estrema infelicità umana». Ed Euripide è certamente un nobile antenato di questa illustre prosàpia.

Imma Villa è Ecuba

Al centro delle sue Troiane c’è dunque il pianto. C’è, più ancora, l’affermazione del diritto al lamento, il piacere delle lacrime, rifugio degli infelici. Dice Ecuba, con parole programmatiche: «Anche questa è musica per i disgraziati: gridare le loro sciagure». Il Coro esprime ancor meglio questo concetto, centrale nell’opera: «Come sono dolci le lacrime, per quelli che stanno male, e i gemiti delle lamentazioni, e la musica che contiene i dolori». Ne deriva così, a dispetto di facili attualizzazioni, la meravigliosa inattualità delle Troiane euripidee, il presente essendo un tempo che condanna il piangere, dileggia il lamento e celebra l’obbligo alla felicità, quandanche fittizia.

Alla sinistra della dolente vedova di Priamo vediamo alzarsi e prendere la parola Mariachiara Falcone, grintosa e combattiva Cassandra, profetessa invasata ma lucida. Destinata ad Agamennone come concubina, è follemente felice perché ne profetizza la morte, la vendetta essendo l’unica giustizia in un mondo in cui la forza ha preso il posto della legge. Alla destra di Ecuba si solleva Serena Mazzei, un’Andromaca che del dolore è l’espressione più pura, avvolta in un peplo e in un mantello neri che le coprono la testa, funebre maschera di un lutto atroce che segue l’uccisione del marito Ettore: l’assassinio del figlioletto Astianatte, gettato dalle rovine di Troia su crudele proposta di Ulisse.

Mariachiara Falcone è Cassandra

Le Troiane disegnano un epos capovolto, in cui i grandi eroi greci sono rappresentati come dei mostri. Ulisse, che ha scelto come preda di guerra la vecchia regina, è nelle parole di lei «un essere immondo, subdolo, nemico della giustizia, un mostro senza legge. La sua lingua bifida rivolta le cose, capovolge il qui e il là e rende odioso a tutti ciò che prima era caro». E non è forse una perversione sessuale quella che ha reso Agamennone infatuato di Cassandra, essendo la giovane una “religiosa”, destinata da Apollo a restar vergine? Neottolemo, il figlio di Achille, ha straziato il corpo del re Priamo mentre questi pregava sull’altare: un’azione sacrilega che gli frutterà l’ostilità divina.
La versione di Cerciello, con l’ostensione finale della bandiera palestinese, additando nella crudeltà del presente governo israeliano un’analogia con la brutalità greca nella distruzione di Troia, chiude il triangolo di allusioni iniziato dalle due versioni maggiori: di Euripide all’imperialismo ateniese del suo tempo, di Sartre alla feroce repressione francese del movimento di liberazione algerino negli anni ‘50-‘60 del Novecento.

Serena Mazzei è Andromaca

L’atmosfera che si respira in quest’opera, di crudeltà e catastrofe per la fine di una città e di una civiltà, riguarda Troia ma sovrasterà anche i greci, che per rancorosa volontà divina affronteranno un disastroso rientro in patria. Qualcosa risuona con la temperie raccapricciante del brechtiano Terrore e miseria del Terzo Reich. Non è forse un caso che Cerciello abbia messo in scena anche quell’opera, forse percependo torbidi echi tra i sinistri crepuscoli di imperialismi antichi e moderni.
Non sfugge alla sua interpretazione la cognizione di una sorte ugualmente distruttrice che unisce vittime e carnefici. Il regista sfronda e cancella ogni presenza maschile in scena, rendendo l’azione drammatica un perfetto gineceo. Soppressi l’araldo Taltibio e il marito di Elena, Menelao, il Coro stesso è tradotto in voci registrate fuori campo. Assenti anche le divinità: il prologo, che nell’originale contiene il dialogo tra Poseidone e la rancorosa e umorale Atena, che dopo aver voluto la distruzione di Troia decide di «rendere amaro il ritorno della flotta argiva», viene “ridotto” a una serie di scritte luminose che scorrono all’inizio della rappresentazione. Lo spettatore è fatto subito consapevole che la devastazione colpirà anche i carnefici.

Cecilia Lupoli è Elena

Ma la contiguità tra oppressi e oppressori utilizza una ulteriore chiave interpretativa. Quel che emerge dal testo di Euripide è la cruda realtà della condizione femminile nel mondo antico. Assoggettata alla concezione maschile patriarcale della donna come strumento riproduttivo, lodata in quanto sa essere esempio di pudicizia e riserbo. Ecuba vede in Priamo un “fecondatore”, padre di cinquanta figli, Andromaca si racconta fiera della sua ritrosia alle relazioni, custode della quiete domestica e del letto dove svolge la sua funzione di generatrice di discendenza.
Cerciello vede come in Euripide le donne troiane, inasprite dalla brutalizzazione, non rivendicano una visione altra, diversa da quella maschile, individuando erroneamente in Elena la causa della guerra.

È lei, Elena, il fantasma a cui allude il sottotitolo. Cecilia Lupoli, desituata rispetto alla scena dove agiscono le tre donne troiane, vestita d’abiti novecenteschi e glamour, è collocata su un piano elevato e in un altrove spazio-temporale, una sorta di Miami Beach anni ’60, accanto un cavallino a dondolo, giocattolo di guerra con cui Troia è stata espugnata. È Elena ed è Marylin Monroe: come Elena ostaggio della sua bellezza, come Elena vittima sacrificale dell’uomo di potere, se Menelao o Paride rivivono in JFK e nel celebre Happy Birthday Mr. President, canto di gioia triste, che risuona così non troppo diverso dal thrênos, il canto funebre delle donne troiane.

LE TROIANE
Ovvero in guerra per un fantasma

Da Troiane di Euripide, riscrittura di Seneca, adattamento di Sartre
Da Ecuba e Elena di Euripide
Da La guerra di Troia non si farà di Giraudoux

con Imma Villa, Mariachiara Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei
costumi Antonella Mancuso
musiche originali Paolo Coletta
foto di scena Anna Camerlingo
realizzazione scene Andrea Iacopino
video editing Fabiana Fazio
realizzazione costumi LAB.DONADIO e DANZA CREATA
aiuto regia Aniello Mallardo
adattamento e regia Carlo Cerciello
produzione Fondazione Teatro Due, Anonima Romanzi Teatro Elicantropo

Teatro Due, Parma | 5 febbraio 2025

Una polifonia per l’Inferno: gli esercizi danteschi di Chiara Guidi

ESTER FORMATO | Inferno, primo segmento di Esercizi per la voce e violoncello sulla Divina Commedia di Chiara Guidi è andato in scena a Milano, al Teatro Fontana in una sola data. Il titolo, che potrebbe presagire un prodotto tecnico e sterile, di solo appannaggio per addetti ai lavori, sta invece a indicare un lungo studio sugli endecasillabi danteschi a cui da anni s’interessano Chiara Guidi ed il violoncellista Francesco Guerri.
Chi conosce la storia della Societas, nonché il percorso artistico dell’interprete, sa che materia e strumento d’indagine corrispondono perfettamente, trattandosi della voce e di tutte le sue possibilità espressive. Ne derivano, quindi, spettacoli in cui la voce acquisisce una consistenza solida, in grado, da sola, di creare una dimensione precisa e definita sulla scena.
Qualche anno fa abbiamo visto, tra gli altri lavori, come Chiara Guidi avesse dato vita ad un suo particolarissimo Edipo Re, articolato in quattro voci atte a dar forma a un mondo arcaico, pre-verbale, nell’intento di riportare in vita, attraverso il teatro, uno stadio quasi pascoliano del linguaggio, corrispondente a quello di inconsapevolezza del protagonista, colto appena prima di incominciare il suo percorso di conoscenza.


Se però in La fiaba di magia dell’Edipo il suono prodotto dalla voce subisce una distillazione, fino a raggiungere un certo livello di astrazione che ci riporta a fasi ancestrali del nostro essere, per la Commedia di Dante la questione si fa più articolata.
In primo luogo, il progetto di Chiara Guidi e Francesco Guerri si articola in tre livelli corrispondenti a un diverso lavoro per ognuna delle tre Cantiche. Il primo, quello al quale abbiamo assistito, si concentra sull’Inferno e viene concepito come impianto apparentemente monodico, ma attraverso la sola voce di Guidi si compie una vera e propria polifonia; polifonico è l’Inferno nel quale la presenza di Virgilio e di Dante (che qui ritrovano una precisa identità vocale) è accompagnata da una sequela di anime che si affastellano durante la loro discesa e che marcano, con le loro barocche individualità, il mondo caotico e senza speranza del primo regno. Si tratta di concepire la polifonia come pluralità di voci disorganiche che non convergono in un’armonizzazione, per la condizione ontologica dell’Inferno laddove ogni anima vive in solitudine la propria eterna disperazione.

Ciò non si può dire per il Purgatorio, dove, invece, esse si riconoscono parte di un unico cammino di penitenza che porta alla redenzione collettiva, la cui salvifica attesa si incarna in un assetto corale armonico. Così la Guidi ha vocalmente immaginato il secondo regno. Si tratta di una visione più ampia e meno semplificatoria di quella applicata all’Inferno: infatti, questo secondo segmento del progetto vede la propria realizzazione in un site specific dove un coro costituito da persone comuni, afferenti a ogni ambito possibile o contesto sociale, trasferisce al pubblico il senso di comunione d’anime che si fa così tangibile nella seconda cantica.

Per il Paradiso, invece, ancora in fase di maturazione per una buona parte, ci si sta concentrando su un’esperienza sonora e vocale totalmente diversa, avente come fine quello della dematerializzazione progressiva della voce, coerentemente alla rarefazione della materia stessa che si compie nei cieli divini.

Tornando alla polifonia infernale, a differenza dell’Edipo in cui il singolo fonema appariva distillato, qui invece Chiara Guidi tende a restituire la concretezza della singola parola e del contorno in cui essa viene agìta. Difatti, la collaborazione con Guerri non è finalizzata soltanto a ricostruire sugli endecasillabi danteschi una partitura musicale, ma soprattutto è volta a ricreare l’ambiente sonoro in cui si situa la figura dantesca. Per questo. in alcuni punti, le parole pronunciate sono accompagnate da un’eco che dà corpo al vuoto dello spazio si che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso ed alla relativa profondità che, per lo meno all’inizio, separa il novello pellegrino dal fondo assoluto del Male.
Nel frequente echeggiare di suoni, si muovono attraverso la voce e il suono del violoncello, Dante e Virgilio, le variazioni maggiori, accompagnati da alcune celebri anime come Francesca da Rimini, la cui parola compensa il pianto del suo Paolo e il terribile Minosse, posto all’ingresso del primo cerchio. Si arriva così alle Malebolge dove le anime sono tutte conficcate a testa in giù nella lordura (che Dante non esita a chiamare merda).
S’interrompe qui questo segmento artistico dedicato alla Commedia, preambolo di una costruzione più complessa che esplora una selezione precisa di canti, come se ciascuno di essi fosse vero e proprio spazio vocale e sonoro, vivo e concreto. Un percorso senza dubbio arduo, come del resto quello dantesco, ma che, com’è stato concepito nella sua interezza potrebbe proporre una lettura stimolante e profonda delle terzine. Difatti, è proprio l’idea complessiva del progetto a sollecitare suggestioni che vanno oltre il compimento di un esercizio tecnico della porzione cui abbiamo assistito. È auspicabile, per questo, che presto potremo vedere anche gli altri segmenti, così da poterci immergere negli endecasillabi della Commedia, compenetrandoci nel viaggio che il Poeta compie dentro di sé.

INFERNO
Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia di Dante

voce Chiara Guidi
violoncello Francesco Guerri
cura del suono Andrea Scardovi
cura Irene Rossini

produzione Societas

Teatro Fontana, Milano | 27 marzo 2025

 

Non ho nulla da dire, con le vostre parole. Sei personaggi in cerca d’autore di Valerio Binasco

LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB *| Valerio Binasco, che ha già avuto modo di confrontarsi con il teatro pirandelliano mettendo in scena Il piacere dell’Onestà, propone in questa stagione del Teatro Argentina la sua versione di Sei personaggi in cerca d’autore.
L’opera di Pirandello debuttò il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, suscitando orrore e sconcerto nel pubblico presente in sala per la sua trama complessa, inaudita a quel tempo. Il dramma appartiene alla trilogia del teatro nel teatro, insieme a Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto, e gioca con i temi più cari a Pirandello, come la percezione soggettiva della realtà e la complessità dell’interiorità umana. Esso racconta l’incontro tra una compagnia di attori, guidata dal loro capocomico, e sei personaggi che si definiscono “in cerca d’autore”, desiderosi di rappresentare la loro storia, ma che lo Scrittore non ha mai terminato.

Il lavoro di Binasco si concentra sulla frammentarietà della rappresentazione, popolata da personaggi distrutti dalla penna esitante dello Scrittore il quale ha composto figure incapaci di trovare un modo per uscire dal loro racconto o di viverlo fino in fondo. Il vero protagonista dell’adattamento, perciò, è il vuoto: una sospensione che, nella sua veste di solitudine e angoscia, persiste nello spazio che divide due parole, ma soprattutto, è incarnata dai personaggi, che sono costretti ad abitare in un limbo da cui vorrebbero solo fuggire.

Greta Petronillo, Sara Bertelà, Martina Montini, Valerio Binasco, Ilaria Campani, Alessandro Ambrosi, Christian Gaglione. Ph. di Virginia Mingolla

Sono le parole a creare lo spazio in cui si svolge questo allestimento. Ogni volta che i personaggi rievocano un dialogo avvenuto, i giovani membri della compagnia, alunni della Scuola del Teatro Stabile di Torino, compongono la scenografia: spostano una porta per consentire al Padre di entrare nella stanza dove si trova la Figliastra o creano una vasca in giardino per la drammatica scena che conclude il racconto. Seguendo le didascalie dell’opera originale, si configura una scenografia scarna, minimalista e grigia, quasi a voler suggerire che la percezione di un unico spazio scenico sia solo un’illusione. Un piccolo letto viene posizionato al centro palco per rievocare un momento decisivo della storia e una casa borghese prende forma, attraverso la realizzazione di alcuni suoi spazi, senza mai però dare l’impressione di raccontare una realtà altra che né la compagnia e né i personaggi intendono di mostrare. Ogni oggetto è trattato solo per quello che è realmente: un oggetto di scena.
Tutti i personaggi sono ben riconoscibili grazie ad abiti in stile anni ’20 e ad un trucco che dona loro un innaturale; tranne i due bambini: scelti tra i giovani attori della compagnia, che pur cambiandosi poi con dei costumi simili a quelli dei personaggi, mantengono il viso pulito, privo di trucco. Un richiamo all’innocenza dell’infanzia e, pare, alla difficoltà di coinvolgere dei bambini all’interno di un dramma di bugie e segreti, con un dolore così inteso che li circonda.

Ph. di Virginia Mingolla

Valerio Binasco si ritaglia il ruolo del Padre, incarnando un’umanità corrotta e viziata dai propri privilegi. Il desiderio incessante di raccontare il dramma che la sua famiglia è stata costretta a vivere lo rende il nucleo attorno a cui si snoda la costante ricerca dei personaggi di sottrarsi alla sospensione in cui sono intrappolati. Così come Giordana Faggiano, che restituisce il ruolo della Figliastra con una notevole prova attoriale, delineando il percorso del suo personaggio nel tentativo di sfuggire a quel limbo, talvolta anche attraverso il delirio, in un costante equilibrio tra estrema follia e puntuale lucidità. Giovanni Drago è il secondo perno della rappresentazione. Superata la prima parte dell’opera, in cui i due gruppi si incontrano, il personaggio del Figlio assume un ruolo sempre più centrale, diventando il simbolo di quella mancanza di parole che avvolge la storia. Fin dall’inizio, Drago appare distante dagli altri personaggi, quasi infastidito e imprigionato nella sua rigida fisicità. L’invalidità alla gamba rende ogni suo passo un momento rilevante nella trama, e ogni sua frase segna un frangente in cui la realtà dell’opera si incrina ulteriormente. Eppure egli non prova mai a convincere la compagnia a mettere in scena il suo dramma, non lotta per la sua storia: ha già ceduto alla sospensione che lo tormenta. Drago riesce a sostenere con efficacia questo ruolo, anche durante il finale, che Binasco ha scelto di modificare, facendo suicidare proprio il Figlio, il personaggio che pensava di non avere più nulla da dire. La questione che naturalmente può sorgere è: come mai chi non ha mai voluto resistere alla condizione che lo affliggeva cerca di sfuggire alla narrazione della propria opera? La risposta, forse, può risiedere nella convinzione che il Figlio quasi desiderasse quella sospensione e nel momento in cui ha visto la sua famiglia in procinto di uscirne, ha scelto di compiere un gesto estremo per evitare che accadesse anche a lui. Il personaggio di Drago rifiuta, cioè, di essere rappresentato attraverso parole che non gli appartengono e, del resto, poi il dramma di questi sei personaggi, che si definiscono in cerca d’autore, è tale che è meglio non sia mai raccontato. Tuttavia, ciò è irrealizzabile, poiché una storia, dopo essere stata scritta, diventa immortale. Infatti, come è morto, il Figlio si risveglia tra le braccia dei suoi cari, evidenziando quanto sia illusoria la certezza di poter abbandonare la storia in cui si è stati creati.

Nel complesso, l’adattamento sarebbe risultato più completo se il personaggio della Madre (Sara Bertelà) fosse stato delineato con maggiore efficacia. Lo Scrittore non le ha affidato quasi alcuna battuta, ma le ha concesso il peso insostenibile di assistere alla morte di uno dei suoi figli. La Madre avrebbe dovuto essere l’espressione di un dolore che è incapace a esprimersi, ma che mostra la sua angoscia attraverso la sua presenza nel palco. Eppure l’interprete non sembra trovare il focus giusto per stare davvero in questo ruolo, emergendo come un’immagine che non restituisce la difficoltà di vivere nel limbo.
Anche Jurij Ferrini che interpreta il capocomico, a tratti fatica a sincronizzarsi con il tempo drammaturgico, interrompendo in alcuni momenti l’armonia della messa in scena. La sua interpretazione lo rende una figura più marginale, che esita a diventare quella controparte razionale che avrebbe dovuto aiutare gli spettatori a immergersi più profondamente nel racconto.

Ph. di Virginia Mingolla

Questo Sei personaggi in cerca d’autore si configura come una versione interessante dell’opera pirandelliana, in cui è la forza attoriale di alcuni interpreti a portare avanti l’intero adattamento. Seppur con tali dislivelli interpretativi, alcune scelte risultano coraggiose e riescono a trasmettere il messaggio dell’opera in modi differenti, mettendo in luce aspetti inusitati del testo e presentando così una pièce originale. Ma ciò che principalmente rende singolare il lavoro di Binasco è la capacità di aver reso tangibile il limbo in cui stanno personaggi, e nel quale cui ciascun individuo si può immedesimare.


SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

da Luigi Pirandello
regia Valerio Binasco
con (in o.a.) Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
scene Guido Fiorato
costumi Alessio Rosati
luci Alessandro Verazzi
musiche Paolo Spaccamonti
suono Filippo Conti
aiuto regia Giulia Odetto
assistente regia e drammaturgia Micol Jalla
assistente scene Anna Varaldo
assistente luci Giuliano Almerighi
foto Virginia Mingolla
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Argentina, Roma| 27 marzo 2025

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

C’è un cinghiale sotto il sole di York: Riccardo III di Calderòn e Montanari

Screenshot

ELENA SCOLARI | Una vernice dorata sul viso, sul collo e sulle mani. È l’oro di cui sono ricoperti gli idoli? Se ti avvicini per toccarli il brillio ti resterà sulle dita. Oppure è l’oro della corona? L’agognato traguardo di potere del mostruoso Riccardo. O invece è il bagliore del sole di York che fa scintillare la spietatezza del feroce monarca? 
Francesco Montanari 
placca d’oro il suo personaggio, lo fa distrattamente ma con destrezza, attingendo a quella luce fasulla senza che noi ce ne accorgiamo, da una fonte nascosta. Può solo cercare di velare le sue nefandezze, le uniche cose che in lui brillano davvero sono la capacità diabolica di seduzione e l’abilità di tessere intrighi a proprio favore. Riesce addirittura a far innamorare di sè la donna cui ha da poco ucciso marito e padre, qualche numero fascinoso ce l’aveva. E questo nonostante la natura sia stata avara con lui: è nato prematuro e deforme, ha subíto un’ingiustizia di cui non aveva colpa e passa la vita a meritarselo, quel torto.

ph. Masiar Pasquali

La sua è una vita di menzogne, raggiri, inganni, falsità insinuate e disseminate per distruggere tutti quelli che si frappongono fra lui e il trono. E una vita di finzione è anche quella dell’attore, come il personaggio di Montanari che non è mai riuscito a ottenere una parte importante fino a questa occasione in cui gli è stato offerto il ruolo di Riccardo III nell’omonima tragedia di Shakespeare. Ed ecco il teatro nel teatro di Gabriel Calderón: nel centro del Piccolo Studio Melato – un Globe milanese secondo lo stile dell’architetto Zanuso – si solleva il tendone bianco sopra a un altro teatrino, fatto di tutti quegli elementi romantici che raramente si vedono in scena, oggidì: corde, tiri, carrucole, tanto legno, fondalini dipinti, contrappesi, zavorre, doppi fondi… Le luci di Manuel Frenda accendono morbidamente il calore del legno, quel teatrino è un focolare in cui si raccontano storie di ogni tipo, e c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltarle.

Per Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III (in scena fino al 6 aprile), lo scenografo Paolo Di Benedetto ha costruito un secondo piccolo mondo dentro al quale Montanari/Riccardo vive, ed è bravissimo a muovere, arrotolare, sciogliere, nascondere, alzare e abbassare cose continuamente, mentre recita un testo difficile, abbondante, ricco, spesso in versi e che fa girar la testa. I capogiri li crea prima di tutti il Bardo, con la sua sempre mirabile inventiva verbale, ma anche la scrittura di Calderòn (entrambe tradotte benissimo da Teresa Vila) e l’impetuosa recitazione di Montanari, mai domo, che ora è Riccardo, ora l’attore che lamenta la mediocrità del cast, ora Lady Anna, ora la regina Elisabetta Woodville. Tutti interpretati con una veemenza irresistibile, con la quale l’interprete unico gioca, invitando il pubblico a respirare, qua e là, a riposare il cervello da un ascolto tanto ininterrotto.

ph. Masiar Pasquali

Il cinghiale del titolo è nello stemma araldico dei Gloucester ed è l’animale che Shakespeare sceglie come gemello zoologico di Riccardo, compare nei sogni di Stanley Conte di Derby mentre gli strappa l’elmo e nella tragedia la sua storia è quella di un nobile storpio che di sè dice “Il mio corpo asimmetrico è una canzone stonata. Il ricordo di me sarà piccolo e storto”. Rivoltando – con effetto sorpresa – il costume della madre Elisabetta (costumi di Gianluca Sbicca), dopo il monologo in cui ripudia il frutto delle proprie viscere, Montanari riappare, come espulso dal ventre della regina, in forma di cinghiale, ed è bianco, come la conoscenza che simboleggia.
La vicenda di Riccardo non è sempre centrale, la drammaturgia privilegia spesso le meta-questioni parallele, infatti anche la postura sgraziata che ricorda la deformità del reale è accennata solo brevemente; questo rende un po’ più pallida la ragione di aver scelto proprio Riccardo III per dare corpo (sbilenco) all’idea teatrale espressa.

La scatola teatrale inserita dentro alla scatola del Teatro Studio ha poi anche un terzo livello: l’attore protagonista ha la sua da dire anche sul mondo delle scene di oggi, e qui ci sono alcuni paradossi insiti nel testo. Per esempio le critiche ai registi, quelli che scelgono le attrici in base all’avvenenza e quelli che non rispettano il ritmo del verso shakespeariano perché lo traducono (come avviene anche qui, del resto), la presa in giro dei light designer, i finanziamenti dati in maniera iniqua… Invettive un po’ convenzionali, no? Il contrasto con la sede prestigiosa in cui si pronunciano è ormai  privo di mordente. E, nella fattispecie, qualcosa non gira anche perché, nel gioco drammaturgico, Montanari combatte proprio per ottenere “la corona” di regista.
E quando sarà sua, Calderon gli regala una bellissima tirata sul coraggio di fare teatro: forse che Shakespeare si scoraggiò davanti al pubblico che gozzovigliava durante le rappresentazioni dei suoi spettacoli? O forse si fermò dopo due anni di chiusura dei teatri londinesi per la peste? O quando era senza soldi? No. E allora avanti! Il personaggio si ribella alle sue stesse lamentele e, con vigore, incita gli spettatori a sposare la sua causa. Dopo un’arringa così la tentazione di alzarsi e unirsi alla lotta per il fuoco del teatro è forte, ma è chiaro che l’attore chiama senza aspettarsi risposta, offre il suo regno “per uno spettatore intelligente” e il tendone cala su di lui, ricostituendo quella forma scenica primigenia: un circo bianco di uomini e animali, di attori e personaggi, di funamboli e spettatori. Così, da millenni, tutti insieme combattiamo gli inverni del nostro scontento.

STORIA DI UN CINGHIALE. QUALCOSA SU RICCARDO III

liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare
scritto e diretto da Gabriel Calderón
traduzione Teresa Vila
scene Paolo Di Benedetto
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
con Francesco Montanari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
foto di scena Masiar Pasquali

Teatro Studio Melato, Milano | 29 marzo 2025

Tu non mi perderai mai di Raffaella Giordano respira ancora nell’interpretazione di Stefania Tansini

CHIARA AMATO / PAC LAB* | La trama dei gesti porta con sé il tema dell’amore / la percezione è viva di un rapporto esistente / l’amore spinge e manca di un tu e di un me non trovati / lo spazio e il tempo sanno cose che non possiamo sapere.
Con queste parole, vent’anni fa Raffaella Giordano introduceva il suo spettacolo Tu non mi perderai mai liberamente inspirato al Cantico dei Cantici, del quale era interprete e ideatrice e che aveva presentato durante Uovo Performing Arts Festival. L’artista è tutt’oggi una delle firme più importanti della danza contemporanea, allieva della scuola Carolyn Carlson/Pina Bausch, e dal 1985 è co-fondatrice del collettivo Sosta Palmizi.
Il sottotitolo dell’opera va preso con le giuste cautele, in quanto con il testo biblico è un incontro, un indizio non casuale, ha cioè fornito respiro e sacralità al gesto nel lavoro di ricerca.
Proprio in questi giorni, in occasione dell’ottava edizione di Fog Festival, è andato in scena in prima assoluta al Teatro OutOff di Milano una seconda versione di quello spettacolo, reinterpretato dalla giovane coreografa e autrice Stefania Tansini.
Resta indubbio che l’operazione di trasmissione e passaggio di un’opera può risultare molto complessa, a maggior ragione nell’ambito della danza. Un’eredità che rende necessario un incontro reale delle personalità e una immersione nel respiro dell’opera, che resta una delle più ermetiche e inafferrabili tra le creazioni di Giordano.

Tu non mi perderai mai 2005 – Raffaella Giordano – ph. Sottile

Tansini entra in scena alzandosi dalla platea con estrema grazia e indossa una gonna longuette nera, una camicia variopinta sulle tonalità del rosso, scarpe decolleté nere e una borsetta (costumi di Beatrice Giannini); sullo sfondo appare solo la pietra nuda del teatro e sul palco vi sono due punti luce fissi agli angoli opposti (luci curate da Gianni Staropoli, Maryse Gaultier) e un rettangolo di terra sulla sinistra.
Durante il breve assolo, l’artista si muove con una lentezza disarmante, lasciando spazio alla profondità di ogni singola azione e facendo diventare tutto un elemento poetico. Cerca qualcosa nella borsa, cammina in diagonale, si toglie lentamente le scarpe e le braccia si fanno abbraccio: si percepisce l’assenza e si percepisce la ricerca dell’altro, ancor più nei momenti di un silenzio che risulta rumorosissimo.
Durante la performance, ad accompagnarla ci sono suoni che per lo più richiamano l’ambiente naturale: un corso d’acqua, versi di uccelli, un temporale, il vento (suoni di Lorenzo Brusci, Jòhann Jòhannsson). Altre volte l’elemento sonoro si fa disturbo, diventa rumore, come il ronzio di un televisore guasto. Insieme a questi suoni il suo corpo si scioglie in una serie di movimenti che lo distendono, lo allungano e lo ripiegano: le altezze giocano un ruolo importante nella sua danza, rimandando l’occhio dello spettatore al divino e all’umano, al cielo e alla terra ogni qual volta le braccia tendono verso l’alto o la performer si abbassa strisciando al suolo. Le mani di Tansini, con estrema precisione e perfezione di movimento, si cercano tra di loro, incrociandosi in una stretta dietro la schiena e in abbraccio che la avvolge come un’onda.
Il suo sguardo è nel vuoto, nell’immenso, quasi mai rivolto al pubblico e non appare ancorato al qui e ora ma travolto da un’energia altra. È un’opera che fa dimenticare allo spettatore il presente per portarlo nei ricordi del passato: rallenta il pubblico nella stasi della contemplazione, nella naturalità e profondità del respiro.

Tu non mi perderai mai 2025 – Stefania Tansini – ph. Laura Farneti

L’elemento amoroso si fa spazio con tenerezza e nostalgia, nel modo in cui viene delicatamente sfiorato il pavimento con il corpo, nelle carezze che Tansini fa a se stessa, nelle mani che sembrano lanciare un bacio a qualcuno che non c’è (Mi baci egli dei baci della sua bocca, poiché le tue carezze sono migliori del vino, recitava il Cantico).
In questa performance si percepiscono una disarmante innocenza e un forte mistero: non c’è qualcosa da capire o una coreografia che appaia netta, ma una pulizia di movimento che lascia ammaliato il pubblico in sala. Tansini, Premio Ubu 2022 come Miglior performer Under35, è riuscita a fare una vera e propria indagine sulla mutazione dei sentimenti e dei corpi nel tempo, rispettando la promessa del titolo dell’opera: si sente fortemente la conferma di una presenza che aspetta e che accoglie l’amore, che ‘non si perderà mai’.
È un assolo evocativo, come lo è la promessa d’amore del testo biblico, e riempie quel voluto vuoto scenografico con l’intensità e le tensioni del corpo.
L’opera riecheggia di ricordi e di vita, che sono forse la cosa più difficile da far rivivere a un corpo danzante che non è il proprio e in questo le due artiste vincono la sfida, mantenendo contemporaneo uno spettacolo che compie vent’anni e allo stesso tempo rinasce con nuova pelle.

 

TU NON MI PERDERAI MAI – liberamente “inspirato” dal Cantico dei Cantici
PRIMA ASSOLUTA

coreografie Raffaella Giordano
danzate da Stefania Tansini
creazione luci Gianni Staropoli, Maryse Gaultier
disegno del suono e composizione elettroacustica Lorenzo Brusci
suono aggiunto Jòhann Jòhannsson
costumi Beatrice Giannini
esecuzione tecnica suono Andreas Froeba
luci Maria Virzì, Lucia Ferrero
produzione Sosta Palmizi (2025)
in coproduzione con Triennale Milano Teatro, Fuorimargine Centro di produzione di danza e arti performative della Sardegna
con il sostegno di Fondazione Teatro Grande di Brescia, Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni
in collaborazione con Teatro Out Off

Teatro Off Out, Milano| 29 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

L’esemplare scalata di archiviozeta alla Montagna incantata di Thomas Mann

La montagna incantata. Foto di Franco Guardascione

MATTEO BRIGHENTI | Un’impresa prodigiosa. archiviozeta ha preso il teatro e l’ha portato in una dimensione smisurata. Quella dell’opera-mondo. Oggi, in Italia, soltanto la compagnia diretta da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni ha il coraggio, la visione e la sensibilità per immaginare e poi realizzare una maratona teatrale di 7 ore da un romanzo colossale come La montagna incantata di Thomas Mann. Sono statɜ allievɜ di Luca Ronconi: in loro la lezione del Maestro, a 10 anni dalla scomparsa, è più presente che mai. Ovvero, intonare la scena nel denso spaziotempo tra testa e cuore come “canto alla durata” della Storia, sofferta e profonda vastità che ci spalanca gli occhi sul presente, il nostro presente, oggi così pericoloso e incattivito.
Il Teatro di Marte di archiviozeta, quel Cimitero militare germanico del passo della Futa, Appennino tosco-emiliano, che ha accolto la prima parte nel 2022, la seconda nel 2023 e la terza nel 2024, e che è casa estiva e rifugio creativo per la compagnia da oltre 20 anni, stavolta è sceso in pianura. Fino al Teatro Arena del Sole, a Bologna, la città che già aveva ospitato La montagna incantata (prima e seconda parte) nel complesso monumentale di San Michele in Bosco all’Istituto Ortopedico Rizzoli. Il palcoscenico è arrivato, infine, per volere di adozione da parte di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, che ha coprodotto un simile progetto.

Foto di Franco Guardascione

Il confronto con il volume di Mann nasce itinerante, come attraversamento concreto e metaforico. In teatro il metaforico certo prevale, ma il concreto non scompare del tutto. Siamo sì sedutɜ in una sala teatrale, ma siamo immersɜ nel Sanatorio Internazionale Bergof a Davos-Dorf, Alpi svizzere. Tutto è “scena di senso” per il viaggio di formazione e trasformazione del giovane ingegnere navale di Amburgo Hans Castorp. Il palco, i palchi, la platea, insomma tutta l’Arena del Sole è teatro della sua salita sulla montagna. Un’ascesa iniziata per una visita di sole 3 settimane al cugino Joachim Ziemssen, militare di carriera ricoverato per tubercolosi, e finita 7 anni dopo con la ridiscesa di Castorp per arruolarsi e combattere nella Prima guerra mondiale.
Dunque, ora è La montagna incantata stessa che si muove, ci viene incontro, o ci passa di fianco, e lo fa attraverso una moltiplicazione di piani e prospettive, come già avveniva per i ruoli. Il montaggio delle tante e diverse scene è di stampo cinematografico. Ogni quadro ha in sé come una forza espansiva, riesce a evocare ciò che ne sta al di fuori, legando quanto è avvenuto prima con quanto sta per accadere dopo. È un ambiente allucinato, pochi e suggestivi elementi scenici medico-ospedalieri disegnano uno spazio di sogno e incubo, di realtà e irrealtà, ammantato dalla partitura musicale sinestetica di Patrizio Barontini e dalle luci livide di Camilla Mazza. E quando si arriva o si esce dal Bergof, le videoproiezioni curate dalla Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del film di famiglia allargano l’inquadratura a un universo popolato da fantasmi, nel bianco della neve che tutto ricopre, anche il tempo.

Foto di Franco Guardascione

Il giovane ingegnere, infatti, vivrà in una sospensione che lo porterà a sprofondare dentro di sé – e noi con lui. Comincia tra parole scritte nero su bianco, due colori tra cui si dibatte l’intero progetto di archiviozeta. Mentre ancora prendiamo posto in sala, si presenta come Amleto di William Shakespeare, anche lui con un libro in mano. Giacomo Tamburini ci introduce nell’attesa del suo arrivo in treno: la qualità della sua attenzione, avanti e indietro sulle pagine di Ocean Steamship (resoconto popolare sulla costruzione dei piroscafi), ci fa capire subito che la percezione di Hans Castorp sarà la nostra. Il tempo, la vita intera al Bergof, restituita da Diana Dardi, Antonia Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti e Francesco Canfailla al violoncello, oltre aglɜ stessɜ Guidotti e Sangiovanni, rallenterà o accelererà a seconda della sua propria sensazione. Facendo emergere, ogni capitolo di più, la malattia che ci portiamo dentro, “la malattia chiamata uomo”.
La prima parte dello spettacolo coincide con la prima parte del romanzo, fino alla Notte di Valpurga. È l’inizio della perdita dei sensi, come del sovvertimento delle stagioni: una tormenta lɜ coglie in pieno agosto. Castorp comincia a fare pensieri che non ha mai avuto, in un luogo infestato da bizzarre apparizioni, dove le malattie sono vissute come bislacche “forme d’arte”. Fanno sorridere i suoi tentativi di integrarsi – appartiene ancora un altro tempo, quello di laggiù, in pianura.
Del resto, è venuto solo in visita. È sano. Ma se è qui, deve pur essere malato. Quell’aria, infatti, ammala anche lui. Prende il raffreddore, si misura la temperatura: 37,6°. È febbre. Il dato è oggettivo, perché misurabile, e la misurazione è ripetibile. Non è grave, ma può diventarlo. Perciò, va internato. Ricordarsi che Guidotti e Sangiovanni sono tornati a Thomas Mann durante la pandemia di Covid-19 aggiunge a questa concatenazione di eventi non poca vertigine.

Foto di Franco Guardascione

La malattia del giovane ingegnere è sintomo tanto delle idee che il sereno umanista italiano Lodovico Settembrini (Gianluca Guidotti), liberale e assertore del progresso umano, gli mette in testa, quanto dell’amore che Clavdia Chauchat (Enrica Sangiovanni) gli mette nel cuore. È come se La montagna incantata, quindi, gli riconsegnasse la gioia tramite la sofferenza, gli restituisse, in definitiva, gli strumenti per vivere. Facendolo passare attraverso le sue paranoie, il suo rimosso, e il suo passato, che torna, comunque, a chiedergli il conto.
La seconda parte – fino a La grande irritazione – si apre su alcuni esercizi di cura di gruppo. Hans Castorp ora è perfettamente integrato, al punto che Tamburini fa un incredibile lapsus rivelatore. Dice che è al Bergof da «10 anni», presto corretti in «10 mesi». Un minuto qui vale un’ora, come un mese o un anno, ma è un tempo che serve a guarire o erudirsi? La domanda è legittima, poiché a Settembrini si è aggiunto un altro pedagogo: è Leo Naphta (Giuseppe Losacco), l’ascetico e violento gesuita di origine ebraica, comunista e dogmatico negatore dell’umanesimo progressista. Per Castorp guarigione ed erudizione – il corpo e la mente – devono poter andare insieme. In questo sta la libertà, sembra dirci Mann, e archiviozeta con lui.
È la stessa che pretende per sé Joachim Ziemssen (Pouria Jashn Tirgan), però giù dalla montagna. Non può aspettare la perfetta guarigione: è impossibile. Per questo, lascia la guerra della cura per la carriera di guerra in pianura. Si ammalerà, ritornerà, e al Bergof morirà. Il giovane ingegnere, invece, anche quando guarisce non intende risvegliarsi dal sogno-incubo che sta vivendo. O forse, non può, perché non vede altra possibilità al di fuori del luogo che ha dato vita alla sua ossessione insensata per Clavdia. È così totalizzante che è convinto che se resta, l’amore esiste, se parte, non esisterà più.

Foto di Franco Guardascione

Invero, la personalità di Pieter Peeperkorn, il nuovo compagno di Chauchat che soffre di una malattia tropicale, per un attimo fa uscire meravigliosamente fuor di senno il giovane ingegnere e tutta quanta La montagna incantata. Andrea Maffetti, che lo impersona e interpreta, mette in scena un impressionante deragliamento dionisiaco dai binari che portano e lasciano al Bergof. Quasi si carica sulle spalle l’intera compagnia, portandola in un sogno nel sogno, in cui la volontà di creare e distruggere è la doppia manifestazione della vitalità che esprime l’uomo padrone del proprio destino.
È un attimo, appunto, è una stella che si illumina cadendo. Ma una volta passata, niente è più come prima. I detriti incrinano quella «eterna, illimitata monotonia» che, una volta rotta del tutto, ci precipita nella terza parte, fino al capitolo finale, Il colpo di tuono, con la catastrofe della Prima guerra mondiale.
Si riparte da un altro libro, stavolta proprio La montagna incantata, in mano a Thomas Mann (ancora Maffetti) a 150 anni dalla nascita e 70 dalla morte. L’autore in persona riporta che, inizialmente, voleva scrivere un racconto breve che rispondesse, in chiave ironica, a La morte a Venezia, e che l’ispirazione viene da sua moglie, Katia Pringsheim, ricoverata a Davos per via di una malattia polmonare nell’anno in cui intraprende la stesura, il 1912. Dopo un breve riassunto delle due parti precedenti, il suo «possiamo cominciare» apre il sipario per l’ultima volta.

Foto di Franco Guardascione

Così, assistiamo a un balletto senza fine sull’abisso di annunci di guerra strillati sulle prime pagine di giornali. Tuttɜ leggono ostentatamente le stesse notizie, ma nessunǝ ne comprende appieno la portata. Al Bergof si concentrano, piuttosto, su problemi che non lo sono, si baloccano con il tè, perdono di vista la società, la Storia, richiudendosi nell’io, nell’intimità.
Il codice del grottesco, finora solamente accennato qua e là, esplode adesso con una gigantesca scazzottata per una misera questione di corna. È al rallentatore, per mostrare con la più estrema e puntuale chiarezza quanto chi abita sulla montagna sia disconnessǝ dal presente, e quanto tutta la situazione sia assurda, contro ogni logica e pure ogni buon senso. Perfino lo scontro di idee diventa una pantomima priva di qualsiasi solidità. La ritrova quando le parole non sono più possibili, con il colpo di pistola che Naphta si spara alla tempia nel “duello d’onore” con Settembrini.
È il precipizio, il vero punto di non ritorno. Quell’inaspettato scoppio ne presagisce un altro, ben più terribile: quello della Prima guerra mondiale. Hans Castorp, diventato ormai un tutt’uno con La montagna incantata, si risveglia. Quel tuono lo scuote e riconnette finalmente al tempo comune, collettivo, colmando di dura quotidianità i 5mila metri che lo staccano da terra.

Foto di Franco Guardascione

La Storia è più veloce di qualsiasi tua fuga. Ti raggiunge ovunque tu decida di scappare. Ti prende e ti tira giù insieme a lei, nel fango dell’umanità. Solo che ce ne dimentichiamo, e ogni volta pensiamo di poterne fare a meno. Per questo, abbiamo bisogno delle storie. È il «finis operis» che il Thomas Mann di archiviozeta pronuncia sul palco.
Dopo averne sentito la vera voce registrata alla BBC tra il 1940 e il 1945 per uno dei suoi brevi discorsi di denuncia e vergogna dell’ignominia nazista, termina con queste due parole La montagna incantata perseguita con rigore e inventiva da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni. Non è la fine, ma il fine dell’opera. Non è importante, dunque, sapere se Castorp sopravviva o no – Mann non lo dice. È importante aver consegnato al teatro un libro che da 100 anni non smette di accendere il lume della ragione umana contro le tenebre della sragione diabolica. È importante, adesso, riportarlo di nuovo in vita su un altro palcoscenico. E un altro. E poi, un altro ancora.

LA MONTAGNA INCANTATA
Una maratona teatrale dal romanzo di Thomas Mann

drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
partitura musicale Patrizio Barontini
con Diana Dardi, Antonia Guidotti, Gianluca Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti, Enrica Sangiovanni, Giacomo Tamburini
violoncello Francesco Canfailla
e con la partecipazione in voce di Omar Giorgio Makhloufi
scenografia, costumi, oggetti Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
sartoria e costumi carnevale “Notte di Valpurga” les libellules Studio e Elena Fregni
invenzioni e tecnica Andrea Sangiovanni
luci Camilla Mazza
assistenza canto corale Gloria e Giovanna Giovannini
assistenza coreografia Carolina Giudice
filmati d’archivio in collaborazione con Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia
produzione archiviozeta
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Prima Assoluta

Teatro Arena del Sole, Bologna | 22 marzo 2025

Il Gelo che ribolle nelle vene: Mimmo Borrelli per Eduardo

ILENA AMBROSIO | Partiamo dalla fine. «Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita!… È  stata tutta una vita di sacrifici e di gelo!… Così si fa il fa il teatro, così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni e l’ho pagato! Anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato».
Il 15 settembre del 1984 Eduardo De Filippo, nella sua ultima apparizione pubblica, a Taormina, pronunciò queste parole. Con il senno del poi, il poi della sua morte di poco dopo (il 31 ottobre), risuonano come un testamento spirituale e poetico, ma anche come una sorta di finale confessione, quasi una giustificazione del modo, rigido, integerrimo, intransigente, gelido, appunto, in cui per un’intera esistenza si era dedicato all’arte.

Sulla commossa e commovente voce di Eduardo si chiude Il Gelo di e con Mimmo Borrelli – una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini – un reading che intende essere certamente un omaggio a De Filippo ma, al contempo, anche un’accorata e intensissima meditazione. Anzi, un’incarnazione del gelo che deve aver pervaso l’artista nei momenti più sublimi – se il sublime contiene bellezza e terrore insieme – della sua creatività. Quelli della poesia.
La poesia per Eduardo è stata ristoro dalle fatiche della drammaturgia, ma anche messa a punto di situazioni e personaggi che hanno poi condotto ad alcune delle sue commedie. Ancora pagine bianche da affrontare, ancora parole venute fuori da una penna intinta nella solitudine e nella strenua dedizione. Tra queste parole Mimmo Borrelli ha incontrato e deciso, si diceva, di incarnare quelle che raccontano tre figure particolarissime dell’immaginario eduardiano: Padre Cicogna, Vincenzo De Pretore, Baccalà. 

Ph. Flavia Tartaglia

Il primo è protagonista del poemetto omonimo del 1969: un sacerdote che ha deciso di abbandonare l’abito talare per sposasi e che, onde evitare la maledizione divina, decide di offrire in rappresentazione natalizia i propri figli nelle vesti dei Re Magi. Una rappresentazione che non avrà mai luogo: la morte coglierà sempre uno degli infanti.
Poi, la poesia del 1948, Vincenzo De Pretore, nucleo della successiva commedia del ‘57: la morte e l’ascesa di un povero “mariunciello” dei bassifondi napoletani devoto a San Giuseppe. È un viaggio in un paradiso popolato da dèi più che da santi, figure di estrema umanità, con pregi e difetti simili a quelli degli uomini. Un paradiso che, alla fine, accoglie l’emarginato ladruncolo che il mondo aveva condannato senza pietà, e che lo vede morire drammaticamente.
Termina la triade a ritroso nel tempo il melanconico poemetto del 1949, Baccalà. A pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il racconto  dell’esistenza di Gennarino, «un personaggio tipico di una Napoli eterna, fermato e disegnato in versi». Lavoratore così così, che si arrabatta come può, Gennarino gode dell’amicizia e degli affetti di coloro che gli stanno intorno, ma che ritrova spenti e inariditi al rientro dalla guerra, tanto da indurlo, solo e misero, al suicidio per impiccagione.
Tre vite purgatoriali che hanno a che fare con la morte e con la miseria, e che la penna di Eduardo deve aver fatto scaturire con somma sofferenza.

Ph. Flavia Tartaglia

Borrelli dichiara di aver immaginato Eduardo “solo di fronte al lenzuolo bianco della morte in pagina, solo e infreddolito dalle idee mancanti di gesso, gelide di marmo, solo poiché la creatività non esiste. Va preparata dalle sofferenze, nutrita dalle mancanze, concimata dalle responsabilità”. Ancora, l’ha immaginato “tra le quattro mura del suo camerino, intento a fissare su carta i suoi tormenti e a ripeterli e provarli magari a bassa voce come è solito fare chi scrive”.
E così, allora, ritroviamo il corpo dell’attore in scena: stagliato su un gelido fondale argenteo, solo, seduto a uno scrittoio, di fronte alle pagine (essenziale, ma molto bella la scena di Palladino). Allo scrittoio e alla sedia che gli sta dietro, così piccoli rispetto alla sua stazza imponente, Borrelli rimane inchiodato da una forza di gravità che non agisce dall’esterno, bensì pare scorrergli nelle vene: è il gelo della dedizione alla scrittura, sì, ma un gelo che ribolle, che nel momento della messa in corpo della parola genera quella energia vigorosa, caleidoscopica, anche sinistra, che solo questo artista sa portare in scena. 

E allora si materializzano, incandescenti, le figure che popolano i versi di Eduardo, si materializzano le voci e le cadenze popolari, i visi distorti, i corpi con le loro particolari posture ed eccessive movenze. Borrelli resta incatenato alla sedia, ma ogni sua azione è una ribellione alle catene, uno scatto vitale che rende i racconti di Eduardo, la sua parola scritta, qualcosa di organicamente visibile, palpabile, affatto aleatorio.

Ph. Flavia Tartaglia

E dunque cos’è questo Gelo? Una lettura certo, format forse stanco, talvolta “di comodo” che, in tutta onestà, non ci si sarebbe aspettati dalla fervida e appassionata creatività di Mimmo Borrelli. Ma il peso specifico di un artista sta spesso nel come, non tanto nel cosa: nell’arco di un’ora circa Borrelli regala – in quel modo tutto suo che è quasi, anche, una violenza dei sensi –  tante cose. Sopra tutte offre in voto al Nume eduardiano non solo un omaggio alla sua arte, ma lo stesso sacrificio della scena che l’aveva raggelato pur facendogli tremare il cuore, reiterandolo, ancora e ancora.
In questo sacrifico offre, poi, conoscenza profonda, e perciò dolorosa, di cosa possa voler dire «fare teatro sul serio», fare cioè quello autentico, che pretende tutto. Borrelli fa questo teatro dandogli tutto e, nel farlo, il dono finale è a chi lo guarda, a un “umano, troppo umano” spettatore che può sperimentare, nel breve spazio di un’ora, con lo stesso tremore del cuore, la gioia e lo sgomento del sublime.

 

IL GELO

da Eduardo De Filippo
con Mimmo Borrelli
musiche a cura di Antonio della Ragione
luci e spazio scenico di Salvatore Palladino
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

21 marzo 2025 | Teatro Bellini, Napoli

Tutto troppo, il teatro danzato di Monica Ciarcelluti contro la violenza di genere

ph Antonio Tucci

CRISTINA SQUARTECCHIA l Non è mai troppo quando il teatro riscatta una vittima, donandole una seconda opportunità. E non è mai troppo tardi farlo, anche se di decenni ne sono passati diversi, da quando Paolina Giorgi venne assassinata per mano di un suo corteggiatore nel 1911, semplicemente per averlo respinto. Con Tutto troppo Monica Ciarcelluti firma con la produzione di Arterie Teatro la regia di uno spettacolo di azione e immagini per un teatro performativo che va dritto al cuore. Vincitore del Bando regionale per la sensibilizzazione contro la violenza di genere e le mafie a cura dell’Osservatorio Regionale della Legalità, è stato presentato al Florian Metateatro di Pescara come restituzione di un progetto di residenza a cura di Oikos residenze teatrali il passato dicembre, per debuttare in prima assoluta a Femminile plurale – l’arte delle donne lo scorso weekend nella rassegna a cura di Giulia Basel del Florian Espace,  volto a dare spazio alla creatività femminile.

E di creatività Paolina Giorgi – nome d’arte di Francesca Chiodi – ne aveva da vendere, pur essendo di umili origini. Nata a L’Aquila nel 1883, faceva la stiratrice per campare, ma nel suo cuore premeva una sensibilità diversa, che la spinse a trasferirsi a Roma. Nel giro di pochi anni si affermò nella Capitale tra le attrici più acclamate dei café chantant.
Divenne tutto troppo in poco tempo. A soli 28 anni aveva già avuto un bambino, morto prematuramente. Ricchissima e corteggiata, visse con lungimiranza, saggezza e coraggio, a dispetto del bigottismo aristocratico di allora. Raggiunta la tanto agognata popolarità come attrice, si diede all’imprenditoria aprendo una profumeria e una ditta di trasporti, quando tornò nella sua L’Aquila. Il suo è uno casi di femminicidio di cui si è parlato meno: solo adesso la Storia ce lo restituisce con questo spettacolo di Monica Ciarcelluti.
Tutto troppo ripercorre la scalata della protagonista con una regia provocatoria e ironica insieme, per un teatro teso all’azione e alla potenza evocativa del gesto che si fa danza, che combina in un doppio registro immagine e azione, al fine di restituire dignità a una donna che ha sfidato i tempi e sé stessa.
Non c’è nessuna intenzione narrativa, “ma il desiderio di lavorare con il gioco e l’improvvisazione per parlare di libertà”, come ha spiegato la regista Monica Ciarcelluti nell’incontro con il pubblico. Assistiamo, infatti, a un fluire di situazioni, quadri entro i quali la parola centellinata funge da servizio a un’azione corporea che emoziona e apre spazi di riflessione con la forza tellurica di una presa di coscienza attuale.

ph Mazen Jannoun

In scena Mariangela Celi, Olga Merlini e Anna Pieramico, sono tre Grazie, tre presenze, tre voci straordinariamente perfette, che riportano in vita Paolina e il suo tempo. Con il pretesto del gioco e dell’ampia possibilità di sperimentare dall’improvvisazione, le attrici passano da acrobate a pettegole, sciantose e vanitose, che si divertono a giocare sul palco con oggetti sferici come la palla e i cerchi, usati per aprire a una pluralità di significati che richiama i temi del materno e delle gare olimpiche.
Difatti, con una corsa inizia lo spettacolo. Le tre donne indossano calzoni bianchi d’epoca, come a ricordare l’abbigliamento delle prime maratonete che parteciparono alle Olimpiadi, mentre in audio si sente l’intervista alla mezzofondista Nadia Battocletti dopo aver concluso una gara.
In questi primi minuti l’affanno, il fiato ansimante, la fatica, ma anche l’entusiasmo di avercela fatta, dettano il ritmo incalzante della pièce, come a voler dimostrare le acrobazie e le conquiste di cui sono state capaci le donne nel corso del Novecento. Sfiancate, ma soddisfatte, in fila davanti al pubblico, Celi, Merlini e Pieramico sorridono vittoriose. Un’espressione quasi di sfida che è il “biglietto da visita” di Tutto troppo.

Adesso le tre donne eseguono una sinuosa danza con la palla, girata e rotolata tra le mani, quasi fossero atlete dell’anima, per poi fare in un breve frammento una partita a calcio. Si deridono a vicenda, bendano Anna Pieramico, hanno una relazione di complicità e sorellanza che siglano tra sguardi e sorrisi: è un’alleanza tra corpi tale da riempire il bianco spazio scenico, e moltiplicare quasi le loro figure.
Un brano elettronico di Alva Noto lega la scena alla ripetizione ossessiva di una partitura di gesti che alludono all’universo femminile e ai suoi stereotipi, dai camerini dei café chantant ai salotti aristocratici. Le attrici – ora in bianco e nero, con camicia, gorgiera e gonna da suffragette si sfiorano – assumono pose morbide, accompagnate da esclamazioni di piacere da femme fatale, quando sono lente, ma più da pettegole malelingue, quando eseguite in velocità. Il gioco ben calibrato dalle performer ricostruisce così gli ambienti e i contesti in cui Paolina si muoveva.

ph Mazen Jannoun

Sfilano, si atteggiano mentre sbattono le ciglia, sorridono in pose plastiche, accarezzandosi le braccia e il collo, oppure maneggiando un cerchio giocandoci a fare l’hula hoop, con quel fare da soubrette d’antan in cerca di approvazione e compiacimento da parte di direttori di teatro e registi dell’epoca. Lo allude con elegante  freschezza, la stessa che forse possedeva Paolina, Anna Pieramico con le sue ripetute domande «va bene così?» a rimarcare l’umiliante posizione che le ragazze, pur di emanciparsi, spesso accettavano. La scena cede poi il passo a un brano polifonico di voci femminili che pronunciano ossessivamente la parola vite, per dare la misura di un tempo che è scorso troppo velocemente per la protagonista Paolina.
Tutto troppo scorre così in equilibrio tra il sensuale e il grottesco, scivolando nel triviale quanto basta per denunciare la cultura maschilista di un Paese che ha soffocato la sensibilità di Paolina e delle tante donne vittime di violenza. Avvertiamo, infatti, un senso di disgusto e divertimento insieme, quando l’attrice Mariangela Celi – dotata di superba espressività – mastica a denti larghi una BigBabol. Sorride con divertita sfacciataggine, fa palloncini che poi scoppia con provocazione verso il pubblico. Intende deridere l’inettitudine delle malelingue e la mentalità maschilista, mentre ammicca durante la colorita descrizione di un cronista della Festa di Sant’Agnese e delle Malelingue nei pressi di L’Aquila.

ph Mazen Jannoun

Olga Merlini, invece, procede verso il tragico epilogo che serra la protagonista in un ritmo lento e ondoso, dentro e fuori il cerchio, con una musica elettronica che funge da preambolo al finale. Un cappio bandito da Mariangela Celi chiude il cerchio di una vita vissuta al massimo, dove tutto è stato troppo, quel troppo che finirà di soffocare Paolina dentro l’atto criminoso del suo corteggiatore.
Tutto troppo non è solo uno spettacolo di denuncia sociale e di riscatto, è un inno alla libertà, a quella bellezza autentica, strappata alla vita, ma che indomitamente riesce a trovare strade e modi per venire fuori. La sentiamo così da fuori campo, racchiusa in un megafono la voce di Paolina, come provenire da un remoto aldilà, un fugace e illusorio ritorno in vita a chiarire le sue scelte e idee, quelle di una donna impavida, un’eroina senza tempo, che ha difeso la sua integrità intellettuale e quella delle generazioni che furono, sino a oggi.

ph Mazen Jannoun

TUTTO TROPPO
drammaturgia e regia Monica Ciarcelluti
con Mariangela Celi, Olga Merlini, Annette Pieramico
produzione Arterie Theater
con il patrocinio di Osservatorio Regionale della Legalità
residenza creativa Florian-Oikos Residenze per Artistə nei Territori
progetto vincitore del Bando regionale a sostegno della legalità e per la sensibilizzazione contro la violenza di genere e le mafie

Florian Espace, Pescara | 22 marzo 2025

Alice nelle fogne delle meraviglie: un cunto contemporaneo firmato Severino/Fanina

CHIARA AMATO / PAC LAB* | Il Teatro Serra di Napoli sembra un antro: un arco che separa lo sfondo della grotta nera dal pubblico crea un effetto magico, anche senza una vera e propria scenografia. Qui è andato in scena Alice nelle fogne delle meraviglie, di e con Angela Dionisia Severino, regia di Lauraluna Fanina. Due giovani artiste che hanno affrontato una sfida di autoproduzione, tra l’italiano e il dialetto, utilizzando maestranze locali.
Il monologo è una fiaba contemporanea e, come tale, si confronta con problematiche attuali, come l’esclusione, la gentrificazione, le politiche cittadine, il turismo di massa. Lo spunto viene sia da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, come il titolo stesso presagisce, che dal cunto. Le citazioni e i riferimenti all’opera di Carroll sono limitati, e per un occhio attento; dal cunto si prende ispirazione per la forma narrativa. Il cunto ha origini antiche nella tradizione napoletana, si ispira al repertorio fiabesco e ai racconto orali: il suo fiore all’occhiello è il volume seicentesco Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. «Noi ci ricordiamo dei cuntastorie, ma non delle cuntisse, che invece restavano in casa e cuntavano nella forma domestica, come cura», spiega Severino, rivendicando per la sua protagonista la volontà di uscire fuori dal quel focolare e raccontare la sua storia ad alta voce.
Il testo, vincitore della Menzione Speciale del Premio Serra 2023 e del premio Premio Eco-scena 2024, ci parla di una Alice che vive ai margini della città di Napoli. Frequenta una scuola serale. Durante una delle corse per arrivare a scuola cade in un tombino e finisce nella fogna, in mezzo ai topi. Questi, proprio come lei, non sono altro che una metafora: sono stati confinati dagli uomini in un luogo non visibile, sono stati fatti sparire nel sottosuolo urbano. Aspettavano da tempo un Salvatore che li risollevasse dalla loro situazione di subalternità. Così, nominano Alice loro regina.

ph Maria Rosaria di Tota
Alice indossa una tuta pantalone (di Dario Biancullo) sulle tonalità del grigio, con giacca abbinata, sulla cui stoffa emergono le parole saettella (in dialetto tombino) e sorellanza: parole forti, che si ripetono ossessivamente sull’abito. Questa donna è essa stessa una “fogna delle meraviglie”, dove per fogna intendiamo riferirci agli ultimi, gli scartati dalla società e dalle politiche dominanti, che spingono sempre più nel dimenticatoio alcuni strati sociali. La scena è composta da una sedia con dei laccetti dorati, uno pneumatico di motorino e un apparente manto di stracci.
Lo spettacolo parte con una registrazione di Fanina stessa: la sua voce fuori campo introduce la vicenda – è un elemento che tornerà in vari momenti dello spettacolo. I movimenti di Severino chiariscono subito che la nostra Alice non è una “brava bimba bionda”: salta sulla sedia, declama episodi e rende carica di spessore ogni parola, anche quella comica.
Così, il palco si popola di figure del mondo dei ratti, interpretati dall’attrice stessa (tra cui, don suricillo il prete; il topo comandante): Alice, regina con tanto di spazzolone da wc come scettro e un meraviglioso mantello di stracci, di fronte ai loro sfoghi, inizia a sentire empatia per loro.
Intanto, la città comincia a collassare: si aprono delle voragini nel manto stradale. Questa Napoli futuristica diventa un groviera, di cui le politiche cittadine e statali non si occupano. Anzi, le buche vengono trasformate nell’ultima attrazione per i turisti: un ennesimo modo per lucrare sulla gentrificazione. Il tema è molto caldo nella città del Vesuvio, come in altri luoghi che attraggono il turismo di massa, e viene toccato con un sarcasmo che cela rabbia e rivendicazione. Seguiamo quindi Alice in una breve parentesi su questa mercificazione delle tragedie locali e sulla ridicolizzazione dei problemi della cittadinanza.
ph Maria Rosaria di Tota
Riprende poi il racconto negli abissi delle fognature, fino a un improvviso risveglio: la donna torna alla normalità portandosi dietro delle domande. Ha solo sognato quanto accaduto? Sono fatti che ha vissuto? Comunque, la protagonista non è poi così certa che il mondo socialmente accettato sia meglio di quello che è stato messo in panchina o, peggio, escluso dai giochi.
Lo spettacolo presenta un perfetto equilibrio tra il recitativo, il sonoro (Teresa Di Monaco e Paolo Montella) e il gioco di luci (idea di Sebastiano Cautiero). Proprio queste ultime illuminano la parte bassa del palco, sulle tinte del blu e del giallo soffuso, quando la Severino si muove nella realtà parallela sotto il tombino; mentre la centrano in pieno dall’alto nei momenti più dichiaratamente narrativi e di denuncia, come a porla sotto i riflettori.
Quello che tiene le fila di tutto il lavoro è la padronanza dello spazio e del corpo di Angela Dionisia Severino, che palpita del suo stesso testo, è istrionica nel tenere l’attenzione del pubblico e si percepisce che è una sua creazione per come dice le parole del testo. La sua interpretazione è densa e la regia, prima volta per Fanina, riesce a esaltare le qualità dell’attrice: la giovane regista accelera il ritmo quando la parte satirica domina e, invece, dosa con parsimonia l’irruenza comica della performer per dare spazio a un’intimità con il pubblico. Il messaggio è politico e l’obiettivo è centrato in pieno e con grazia.
Questa collaborazione artistica tutta al femminile (assistente alla regia Simona Batticore e organizzazione Valentina Castronuovo) fan ben sperare per un futuro pieno di scoperte interessanti e cariche di un’energia magica.
ALICE NELLE FOGNE DELLE MERAVIGLIE
con Angela Dionisia Severino
testo di Angela Dionisia Severino
regia Lauraluna Fanina
assistente alla regia Simona Batticore
organizzazione Valentina Castronuovo
drammaturgia musicale Teresa Di Monaco
costumi Dario Biancullo
disegno luci Sebastiano Cautiero
consulente sound design Paolo Montella
voci registrate Lauraluna Fanina
video Fabio Calvetti
Spettacolo Vincitore Premio Eco-scena 2024
Spettacolo Vincitore Menzione Speciale del Premio Serra 2023

Teatro Serra, Napoli | 22 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Se fosse il linguaggio a salvare il nostro mondo? Intervista a Jacopo Gassmann su Il Golem di Mayorga

Il Golem. Foto di Laura Farneti

LAURA NOVELLI | Dal buio assorto della scena affiora la sagoma di una donna seduta a un tavolino. Ci appare ritagliata dentro la cornice traslucida di un pannello geometrico che, attraversato da luci fredde e fioche, la fanno sembrare quasi una figura di Edward Hopper. E proprio come una figura di Hopper, è l’immagine di una solitudine senza conforto ciò che ci comunica dapprincipio.
Scopriremo solo poi che
Felicia – questo il suo nome – si trova nella sala d’attesa dell’ospedale dove è ricoverato suo marito Ismael, affetto da una grave patologia. Scopriremo che in quel posto, rifugio a un mondo esterno in via di distruzione, un’altra donna, Salinas, opererà in lei una progressiva trasformazione identitaria, coinvolgendola in un esperimento di cui le “parole” costituiscono il centro propulsore e il viatico verso la salvezza del marito. Ma forse le cose non stanno esattamente così. E tutto, persino il luogo stesso, persino i corpi stessi, persino il linguaggio stesso, potrebbero essere altro, alludere ad altro.

Il Golem. Foto di Laura Farneti

Una misteriosa ambiguità avvolge, infatti, la complessa vicenda descritta da Juan Mayorga ne Il Golem, ennesima grande prova drammaturgica del prolifico e pluripremiato autore spagnolo (qui tradotto da Pino Tierno) che Jacopo Gassmann ha messo in scena al Teatro India di Roma nelle sere scorse con un cast di ottimi interpreti, composto da Elena Bucci (Salinas), Monica Piseddu (Felicia) e Woody Neri (Ismael).
Il regista romano – studi a New York e alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra – non è nuovo al teatro di Mayorga, del quale in passato ha già diretto
Nocturnal (2012), La pace perpetua (2013) e Il ragazzo dell’ultimo banco (2019), e ha affrontato questa nuova regia partendo innazitutto dall’urgenza di raccontare i nostri tempi cupi, l’epoca pericolosa in cui viviamo. Per chiedersi – e chiederci – quali luci intercettare nel buio e quale ruolo l’arte e il teatro possano avere per (tentare di) salvarci.
La nostra intervista parte da qui.

La prima domanda è d’obbligo: come è nata l’idea di questo progetto?

Direi in modo fisiologico, visto il rapporto personale che ho con l’autore. Sono al quarto lavoro di regia su opere di Mayorga e ormai lo considero un vero amico. Inoltre, Il Golem è un testo molto complesso, che ha avuto una lunga genesi. Juan lo ha iniziato prima del Covid e poi ci ha rimesso mano tante volte. Ha fatto un vero e proprio labor limae e, negli anni, me ne ha mandate diverse stesure; negli ultimi tempi, quasi mensilmente. La parte finale, ad esempio, è stata particolarmente difficile da elaborare. Lui stesso ci si è soffermato a lungo, per capire esattamente cosa andare a dire.
Quando ho letto il testo la prima volta, eravamo in piena pandemia, stavamo chiusi in casa, e mi è parso un incubo dello stesso Mayorga, ipotesi che lui stesso mi ha poi confermato. Nel leggerlo, avevo l’impressione di trovarmi di fronte a un enorme rebus onirico con il quale, però, ho avvertito sin da subito un forte legame con i tempi che stavamo vivendo.
Il testo inizia, infatti, parla di sanità pubblica, di un mondo al collasso, e credo che l’inquietudine di cui è pervaso sia un’inquietudine sociale, storica, che ancora oggi, a distanza di qualche anno dal Covid, avvertiamo nettamente. Siamo in uno di quei momenti della Storia umana in cui ci si sente sull’orlo di un abisso: guerre, solitudine, violenza, rabbia. In questo sentimento del tempo penso risieda uno degli aspetti più forti di quest’opera, capace di viaggiare dentro
generi diversi come il noir, il gotico, il thriller, l’utopia futuristica, senza essere, in realtà, nulla di tutto ciò, quanto, semmai, uno spazio letterario e teatrale a sé, che ci parla fondamentalmente di politica, del nostro oggi.

Foto di Laura Farneti

In effetti, la trama appare semplice, ma, in realtà, intercetta tanti risvolti filosofici, tante declinazioni diverse. Anzi, è proprio dentro questa apparente semplicità che si insinua la riflessione di Mayorga sull’ambiguità del linguaggio e del reale. Da regista e profondo conoscitore del testo, come riassumeresti il plot de Il Golem?

In sostanza c’è una coppia sposata: una donna e un uomo affetto da una grave patologia. Sono arrivati in un ospedale considerato la loro ultima spiaggia e si capisce presto che si tratta di due stranieri, dunque di due persone lontane dal linguaggio del posto. Elemento questo molto emblematico. La vicenda innesca poi un patto faustiano o potremmo dire kafkiano: lo Stato sta decidendo di chiudere molti luoghi di cura e di tagliare le spese per la sanità, ma Ismael, che ha una malattia legata proprio alla sfera del linguaggio, deve essere salvato e la moglie Felicia si presta per amore a un esperimento del tutto particolare, pur di tentare un’ultima strada.
Salinas è la donna che propone il patto. Sembra un medico, ma in realtà è una traduttrice, una bibliotecaria, una studiosa che conosce tutte le lingue del mondo; dunque, le parole sono la sua sostanza e costituiscono la sostanza del patto stesso. Felicia deve imparare tre nuove parole al giorno. La donna accetta di sottoporsi all’esperimento anche perché non le sembra ‘pericoloso’ (è la stessa Salinas a controbattere: “Trattandosi di parole, può essere molto pericoloso”) e da qui inizia una metamorfosi – questa sì realmente kafkiana – che la trasforma in qualcun altro.
Parliamo ovviamente di una metamorfosi interiore, onirica. Felicia inizia a sognare i sogni di qualcun altro; attraversa uno stato di dualità, di sdoppiamento; a poco a poco assume l’intelligenza di Pablo, un rivoluzionario vissuto anni prima e – forse – ospite anch’egli di quel luogo sotterraneo che, per ossimoro, si chiama Paradiso. Ma siamo sicuri che questo Pablo sia realmente esistito? E se fosse stato sempre dentro di lei? E se quel posto fosse, in realtà, un ospedale psichiatrico e Felicia ne fosse una paziente?
Alla fine, infatti, Ismael se ne andrà e non riconoscerà più la moglie. Ciò che li ha tenuti uniti per gran parte della loro relazione, cioè il ricordo del passato, svanisce. Tutto cambia nell’epilogo. E si genera una catena di dubbi cui la drammaturgia risponde con un possibile sentiero. Ma sottolineo ‘possibile’.

L’ambiguità pluriprospettica che si sprigiona dalla vicenda non viene volutamente sciolta – o almeno completamente sciolta – da Mayorga, anche per lasciare gli spettatori liberi di cogliere aspetti e angolature diverse. Dunque, come reagisce il pubblico alla fine dello spettacolo?

Mayorga afferma: “Il teatro accade nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore”. Motivo per cui le sue opere lasciano sempre un margine di libertà interpretativa al pubblico. È un obiettivo chiaro della sua scrittura. Bisogna permettere al singolo spettatore di costruirsi la sua ipotesi, di sentire ciò che vuole sentire, leggere sulla scena ciò che più gli risuona dentro.
Dopo le repliche de
Il Golem, le persone mi hanno spesso riferito impressioni molto lontane tra loro, eppure tutte valide, tutte vere. Non c’è chi ha torto e chi ha ragione. Va poi detto che qui la riflessione dell’autore viaggia su livelli che vanno ben oltre la trama; è una riflessione ancora più toccante, più profonda, perché riguarda il linguaggio, la forza manipolatoria che un uso distorto delle parole può esercitare a livello sociale. Un aspetto che si lega in modo incontrovertibile ai tempi che stiamo attraversando.

Foto di Laura Farneti

Non a caso il Golem del titolo – di cui Ismael stesso racconta la storia a Felicia – coincide proprio con la straordinaria attenzione al linguaggio che innerva il testo e la sua tessitura filosofica. Possiamo dire che tale attenzione riguardi da vicino anche il teatro?

Certamente, è così. Ma conviene ragionare per gradi. Il Golem qui rappresenta senza dubbio la parola e ci sono tante storie legate a questo essere fatto della stessa materia di Adamo. È una leggenda che attraversa molte religioni, molte culture. Poi, per facilità si fa riferimento alla storia più nota, quella della città di Praga dove, nel XVI secolo, venne creato un gigante di argilla per difendere il ghetto. Il rabbino Loew, principale ideatore di quella grande creatura, gli impresse sulla fronte la parola “emet”, che significa verità. Di notte il rabbino stesso cancellava la “e” iniziale della parola, facendola diventare “met”, cioè morte. La leggenda, come è noto, finisce male, con il gigante che distrugge il ghetto stesso. In fondo, si tratta di una metafora di ciò che è l’uomo, creatore di illusioni progettate a fini benefici, che poi gli si ritorcono contro.
Oggi il Golem potrebbe essere rappresentato da un robot o dall’intelligenza artificiale. Mayorga, però, usa questo simbolo per dirci che bastano le parole per trasformarci. Le parole che Felicia impara in seguito al patto con Salinas sono le parole che Pablo presumibilmente aveva scritto anni prima e non aveva avuto la forza di pronunciare. La lingua è come un bosco: alla fine c’è una radura, ma arrivare a parlare implica molta sofferenza. Ed ecco che, nel monologo finale, il testo ci invita a ragionare su ciò che il teatro dovrebbe essere, tanto più oggi: un rituale politico dal vivo che nasce dalla penna di un autore, attraversa gli artisti che lo mettono in scena per poi avvenire nella mente dello spettatore, nel suo pensiero critico.
Il testo rimane nell’ambiguità in cui si muove quello splendido dialogo platonico che è il
Cratilo: la lingua, se dà il nome alle cose, può essere speranza, forza, amore; se, viceversa, è mero artificio, allora si risolve in manipolazione e può diventare pericolosa.

Il teatro, in definitiva, come tribuna politica e, auspicabilmente, come esperienza salvifica. Nel testo si avverte ogni tanto persino un più o meno esplicito registro metateatrale. Felicia stessa chiede a un certo punto: “Un’attrice, è questo quello che sono?”. Venendo proprio alle due interpreti in scena, Elena Bucci e Monica Piseddu, cosa ti ha guidato verso questa duplice scelta?

Sono interpreti molto diverse tra loro, ma entrambe bravissime e perfette nei loro ruoli. Il personaggio di Salinas, secondo me, non necessita di concretezza. Il nero è il colore che lo domina e anche la sua gestualità rimane ridotta. È una donna che consiste tutta nella parola. Fa l’archivista, è una custode delle lingue. Forse, è persino un personaggio postumo, che racconta di un altro che non c’è. A volte compare da luoghi che non ti aspetti, altre volte parla quasi fuori scena. Dunque, Elena mi è parsa l’interprete giusta per dare fisicità e vocalità a questa essenza.
Su Monica, che dire? È un’attrice estremamente sensibile e ciò che più colpisce in lei è il fatto che, pur essendo così esile, piccola, fragile, possegga, invece, una forza straordinaria, un’energia enorme. Il suo personaggio all’inizio è sull’orlo di un abisso, non ha altra chance che accettare il patto; poi cambia e percorre un arco di trasformazione incredibile in quanto, via via che l’esperimento prosegue, acquista un vigore che la modifica nel profondo. Monica è stata in grado di restituire perfettamente tutti questi passaggi emotivi di Felicia.
Sono davvero felice e grato a entrambe per il lavoro fatto insieme, così come sono grato a Woody Neri.

Foto di Laura Farneti

Molto suggestivo risulta anche il dispositivo scenico dello spettacolo, progettato da Gregorio Zurla. Come si è sviluppata l’idea di questo luogo antirealistico, dominato da specchi e diverse prospettive di visione?

Per prima cosa, siamo in uno spazio che nasce dal buio e che si trasforma in quello che, presumibilmente, dovrebbe essere l’ospedale/biblioteca/Paradiso descritto da Mayorga. Siamo perciò partiti da una domanda semplice: cosa vogliamo raccontare? Abbiamo poi pensato al buio e a dei piccoli appigli: la scena è, infatti, una grande X di pannelli di policarbonato adatti a fungere da specchi, ma anche da pareti trasparenti e da materia capace di assorbire le videoproiezioni curate da Lorenzo Letizia.
Diciamo che nel complesso questo dispositivo, i cui unici arredi concreti sono dei tavoli ellittici e delle sedie, lascia gli spettatori liberi di vedere ciò che sentono e credono più confacente. La scelta del pubbico è fondamentale anche dal punto di vista spaziale. Ciò non esclude, tuttavia, che alcuni passaggi della pièce possano rimandare un’idea se vogliamo più realistica del luogo.
Certo è però che, via via che l’azione procede, andiamo progressivamente a decostruire, a smontare lo spazio in ambienti diversi. Anche il luogo, cioè, come tutto il resto de
Il Golem, perde la sua oggettività, la sua geografia, i suoi lineamenti superficiali.

Foto di Laura Farneti

E forse, in definitiva, è proprio in questa sensata perdita di ogni orizzonte netto che si annida la possibilità concreta per il teatro, e per le sue parole, di farsi tribuna di pensiero rivolta a un’agorà di menti – appunto – pensanti. Qui avviene la vera rivoluzione di Felicia/Pablo: dentro il perimetro affascinante di una scena che, come in altri importanti lavori di Mayorga (basti pensare, oltre ai titoli già citati, a opere quali Hamelin, Himmelweg, La tartaruga di Darwin), attinge al patrimonio letterario, filosofico, culturale dell’umanità, per sollevare dubbi, agitare gli animi, spalancare lo sguardo sul nostro povero mondo.
Lo spettacolo, dopo le repliche capitoline, prosegue la sua vita: in primavera sarà in programma in alcune piazze del centro Italia, per poi riprendere una corposa tournée in autunno, con repliche per lo più al nord. E in cantiere c’è anche il progetto di una trasferta in Spagna, complice un coinvolgimento diretto dell’autore. “Ci siamo confrontati molto durante la preparazione dello spettacolo – conclude Jacopo Gassmann – e Juan ha visto anche alcuni video degli esiti scenici. Ma ci teniamo entrambi a questa tournèe spagnola e sono molto fiducioso a riguardo”.

IL GOLEM
di Juan Mayorga
traduzione Pino Tierno
regia
 Jacopo Gassmann
con Elena Bucci, Monica Piseddu e Woody Neri
luci Gianni Staropoli
scene e costumi
Gregorio Zurla
video Lorenzo Letizia
aiuto regia Giulia Bartolini
direttore di scena Nanni Ragusa
fonica Giorgia Mascia
tecnico luci Yann Arthus Hamelin
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria

Teatro India – Roma, 11-23 marzo 2025