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sabato, Maggio 10, 2025
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Chi ama brucia, intervista ad Alice Conti

Alice Conti_PACANDREA CIOMMIENTO | Abbiamo seguito l’ultima fase di studio di “Chi ama brucia – Discorsi al limite della frontiera”, il progetto di Alice Conti e il gruppo Ortika selezionato da Scenica Frammenti in occasione di “Anteprima”, la vetrina per giovani compagnie under 30 che offre ai vincitori l’ospitalità a Collinarea Festival. Lo spettacolo tratta il tema dei CIE – Centri di Identificazione ed Espulsione; in scena c’è Croce la giovane crocerossina in veste bianca che abita il suo ufficio d’accoglienza preparandosi all’arrivo degli Ospiti in un agire operativo e alienante.

Alice, lo studio sui CIE come nasce?
Nasce da un materiale che avevo raccolto due anni prima, in sostanza erano le interviste che andavano a comporre la mia tesi di antropologia ed erano materiale che sentivo la necessità e l’obbligo di rendere pubblici e riutilizzare. Era un materiale che sentivo feroce, era importante che qualcun altro ascoltasse.

Abbiamo visto l’ultimo studio ora in fase di chiusura…
Sì, alla fine comparirà anche un altro personaggio oltre la crocerossina: la garante dei diritti e delle libertà, di tutte quelle persone private dei loro diritti. È una sorta di personaggio majorette. È una signorina buonasera con un vestito bianco gigantesco che dopo la rivolta mette la polvere sotto il vestito suonando il can can così rimettendo tutto in discussione. Una sorta di personaggio con il massimo candore e simpatia della domenica che ci fa dimenticare tutto quanto e ci fa tornare alle nostre vite normali.

Cosa è stato Anteprima per voi?
Sono stati tre giorni in cui abbiamo vissuto una condizione di grazia nel senso che eravamo ospitati vicino al teatro con le altre compagnie che erano lì a presentare i loro lavori. Si è creata una sorta di miniresidenza. C’era davvero un clima produttivo, di reale scambio tra artisti. C’è un’aria qui che ci mette nella via della grazia, nella possibilità di uno scambio genuino.

Il canto di Ulisse, intervista scritta e video a Kirtan Romagnoli

Kirtan_CollinareaANDREA CIOMMIENTO | Il viaggio allarga la mente e ne dà forma, e il canto delle isole di Ulisse è la mappatura che Roberto Kirtan Romagnoli dona al pubblico nel suo spettacolo diretto da Loris Seghizzi (Scenica Frammenti) in debutto nazionale a Collinarea Festival in una sala strapiena che deborda di umanità.

Kirtan fa il suo viaggio e lo fa per noi, impara le lingue di tutti i popoli in un vero e proprio atto d’amore nei confronti della grecità da cui proveniamo e del teatro come arte dell’incontro. Ogni isola raccontata è l’occasione per “trasfigurarsi” gustosamente in tutti i personaggi dell’Odissea in un gioco scenico di maschere senza maschera. Un lavoro teatrale da preservare come piccolo scrigno che rivela il nostro antico legame con il mondo greco.

Come nasce il lavoro sull’Odissea?
Loris Seghizzi mi dice che è innamorato dell’Odissea da tempo. Quando gli porto a gennaio il lavoro c’è un canovaccio e una struttura. All’inizio delle prove lo spettacolo era molto più didattico. C’erano tante parti didascaliche, tutta la ricerca e la critica letteraria veniva fuori. Allora Loris mi dice: “sì, bello ma il viaggio dov’è?”.

La risposta che si è manifestata in te sembra essere il viaggio che Kirtan ha fatto dentro le pagine di Omero…
Esatto. La bellezza di questo spettacolo è che mi dà la possibilità come narratore di essere sempre vivo e di sentire e poter fare quello che sento. Vengo dalla commedia dell’arte, per me è veramente difficile. Non sono un attore di prosa. Non che io non abbia memoria, ne ho tanta da tenere insieme ma non sono un attore di prosa per cui mi trovo bene con i canoni della commedia dell’arte e lavorando così la commedia dell’arte è viva.

Ogni isola è l’esperienza della “possessione” da parte dei personaggi…
Hai ragione, questo spettacolo greco ha a che fare con Dioniso e la possessione. È il corpo ancora prima della mia mente. Io so la storia ma è come se il mio corpo la sapesse meglio di me. Per cui il fatto che io renda ogni isola e ogni personaggio in una maniera così personale penso sia dovuta alla possessione del corpo come in una sorta di catarsi. Mi sento come se fossi guidato. La guida dall’alto mi dice di fare così: guida vuol dire sentire, ascoltare la percezione del qui e ora, del Kairos, della cosa giusta al momento giusto.

Cosa porti come crescita personale?
Quando ho letto l’Odissea mi rendevo conto della profondità e della poesia. L’Odissea è lo specchio e la lente di ingrandimento della nostra società e della nostra maniera di essere. Siamo greci in tutto e per tutto. Gli insegnamenti di Apollo, Ermes e Atena sono il pensiero alto, noi siamo questa cosa qua. Se non avessimo questo non saremmo quel che siamo. Se sai da dove vieni sai chi sei e sai dove puoi andare perché conoscere vuol dire libertà.

I greci cosa avevano capito?
Avevano capito come stare in perfetta armonia con la natura. Ci siamo distanziati da questo modello. Quando Omero parla dei Proci parla di una società che sta dividendo gli antichi legami e la giusta relazione con la natura. Omero lo ha detto, noi sedevamo nei concili con gli Dei e ora non vediamo più il divino che è intorno a noi in una sorta di rifiuto a priori.

La tua narrazione si contraddistingue dalla presenza di mille voci interpretate in dialetti e altrettante sfumature meticce. Grazie al tuo sguardo Ulisse si fa attraversare dal canto di tutti i popoli…
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di falegnami dove si parlava in dialetto. Ritengo i dialetti una lingua perché sono veri, forti e sanguigni. Con i dialetti basta una parola per entrare in un mondo meraviglioso. I dialetti danno questa opportunità, il piacere di sentire le musiche e il piacere di capirne la forza. Questa è poesia e mi è venuto spontaneo per Ulisse, l’uomo dalle mille forme, colui che tutto lega e che non è imprigionabile e legabile, colui che può parlare mille lingue.

Estratto video dall’intervista a Roberto Kirtan Romagnoli (Scenica Frammenti):

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=GzhhIWjoYug&w=560&h=315]

Santo Genet a Volterra: un postribolo patibolare

Genet-compagnia-della-Fortezza-Stefano-Vaja13ELENA SCOLARI | E chi se l’aspettava? Che una criticona ancora si commovesse? Mi rincuoro nel trovarmi ancora sentimentale (almeno dietro le sbarre). Credete che non mi sia accorta dei trucchi di Punzo? Della sua sapiente agopuntura del cuore? Sentimentale sì, rimbambita no. Me ne sono accorta eccome, ma sapete una cosa? Me ne sono fregata. Perché era giusto lasciarsi andare, era giusto lasciarsi travolgere dal vortice. Un vortice in cattività, e per questo di potenza decuplicata.

Vedere “Santo Genet” dentro al carcere di Volterra è un’esperienza, e uso questa parola nel suo senso etimologico: conoscenza di cose particolari acquisita tramite l’osservazione e la partecipazione intensiva. Si esperiscono molte cose particolari: dalla perquisizione all’ingresso all’abbandono del cellulare (si sopravvive, si sopravvive), dalla lettura delle norme sui cibi da introdurre nella casa di reclusione (formaggi solo a pasta morbida e pani rigorosamente affettati) alla coda davanti all’alta cancellata, dal clangore del metallo all’occlusione visiva delle mura tutto intorno.

Entrati nel bel cortile (ci sono pure dei pruni, anche questo ci sorprende) sentiamo una musica lenta e diffusa, facciamo silenzio e una geisha maschio ci accoglie e ci fa strada verso la prima stazione dello spettacolo, alla quale accediamo passando attraverso un corridoio di detenuti marinaretti, due colonne di uomini su piedistalli, in maglietta a righe e pantaloni bianchi, occhi bistrati e pomelli rossi, labbra pitturate, muscoli e tatuaggi che più prevedibili non si può. Una visione a metà tra Dolce & Gabbana e Querelle de Brest. Attraversiamo piano questa galleria umana, e osserviamo, osserviamo molto, visi con un trucco pesante che rende più pesante la loro verità. Siamo ancora un po’ guardinghi ma l’impatto estetico con il grande rettangolo bianco, accecante, nel quale arriviamo continua l’opera di stordimento. Edicole e tempietti di polistirolo, colonne e scalette, ruderi stilizzati di un bianco abbacinante, ruderi di persone. Gli attori sono lì, immobili, in costumi sgargianti e tamarri che ricordano il Tano da morire di Roberta Torre. Qui Armando Punzo sorride sexy e materno, padrone di casa, in abito lungo, l’unico nero, elegante nella figura sottile, ornato di rose rosse, dispone il pubblico davanti a queste rovine, a questo scavo di sentimenti. E qui arriva anche Genet, i detenuti recitano alcuni monologhi, dei quali confessiamo di aver colto una percentuale parziale, lo stordimento sta crescendo e i sensi non permettono la concentrazione dell’ascolto. Ricordiamo però molto bene la dichiarazione d’intenti nella parte di Aniello Arena (la star della Compagnia della Fortezza): “Vi sedurremo dai piedi fino alla punta delle orecchie, stasera vi vogliamo far divertire”. Ed è esattamente quello che accade da questo punto in avanti, entriamo in una parte chiusa, in un budello di celle, tutte celate da specchi, stucchi, cornici barocche, drappi, ori e velluti, rose nauseanti che sanno di vaniglia, un postribolo dove gli spettatori sono clienti e assistono consenzienti alle esibizioni di figure e personaggi estremizzati, che si presentano raccontando la loro storia, il loro pezzo di vita letteraria, tra scaricatori di porto e maitresses, sospesi tra regno dei vivi e regno dei morti, tra scena e realtà perché “la scena è il luogo più prossimo alla morte, questo è il sepolcro dove vivremo per i prossimi duecento anni”.

In questo spazio dell’incubo, in quest’aria afosa e costretta, Punzo e le sue marionette, l’assassino Genet tra altri assassini (perché qui il più buono ha ucciso la madre, bisogna ricordarlo, non è gente che ha rubato le mele al mercato), ha corso il turbamento vero, l’emozione più perturbante: una componente erotica innegabile spinge alla curiosità verso uomini che si sanno colpevoli di delitti ingiustificabili, ci si domanda di quale crimine si saranno macchiati mentre costoro interpretano falsi colpevoli, un corto circuito etico che costringe a riflettere, con difficoltà. Un papa nero, spose tutt’altro che bianche, regine di boudoir ti girano intorno affermando di essere “soltanto una dignità rappresentata dal mio costume”. E all’improvviso, interrompendo il carosello criminale, parte un walzer, galeotti travolgono dame innocenti in una danza attorcigliata mentre Punzo si dichiara tenutaria del bordello e declama al microfono una nenia funebre assai vitale, la fortuna di morire magnificando la fine col dolore.
La colonna sonora di Querelle de Brest “…each man kills the thing he loves…” ci guida finalmente tutti fuori, nel bianco, nell’aria libera, nella luce del giorno che rimette i ruoli in ordine, una fantastica parata di statue di cartapesta, modelli dei galeotti stessi, vengono alzate in corsa dagli attori, aprono la strada al saluto finale con assolutorio lancio di fiori. Siamo tutti detenuti? Questo è il pericolo della furbizia di Punzo, che fa operazione artistica nel sociale, che confonde bene e male, vestendo il crimine di uno scintillio poetico, gli specchi che raddoppiano non ingannino: se alla fine dell’ubriacatura noi possiamo uscire un motivo c’è.

Pinocchio è stato schiacciato, intervista scritta e video ai Babilonia Teatri

Enrico_BabiloniaANDREA CIOMMIENTO | I Babilonia Teatri aprono ufficialmente la nuova edizione del festival Collinarea di Lari (PI) con Pinocchio allestito insieme agli Amici di Luca, compagnia composta da persone che hanno vissuto l’esperienza del coma. Abbiamo incontrato Enrico Castellani per farci raccontare il processo di creazione che ha portato alla realizzazione di questo laboratorio/spettacolo a vocazione sociale.

Enrico, come nasce la collaborazione con gli Amici di Luca?
Ci ha messo in contatto tra noi Cristina Valenti che conosceva sia il nostro lavoro che l’esperienza della compagnia degli Amici di Luca. Loro avevano fatto già tutta una serie di spettacoli per la regia di Antonio Viganò e Enzo Toma, e di Stefano Masotti che ha condotto il laboratorio per molti anni lì. Cercavano una realtà nuova con cui condividere un’esperienza e noi siamo stati contattati. Siamo andati lì senza sapere dove ci recavamo.

Cosa avete trovato?
Siamo entrati all’interno di un luogo che di fatto era un ospedale, per quanto speciale. Alla Casa dei Risvegli di Bologna ci sono dieci appartamenti in cui le persone uscite dal coma possono vivere insieme ai famigliari, a diretto contatto con una grande umanità, con i voci e i profumi. Questo per loro è fondamentale. È un tema che ci è molto caro ovvero il fatto di trovare un’umanità in quei luoghi.

Cosa vi ha colpito?
Il loro desiderio di fare teatro nel senso che quando li abbiamo incontrati abbiamo chiesto loro come mai facessero teatro e loro ci hanno risposto che dopo aver vissuto il trauma del coma la società li ha messi da una parte e fare teatro è forse l’unica possibilità che hanno per rimettere un piede dentro la società.

Com’è nato il lavoro su Pinocchio?
Dopo The end, il nostro spettacolo precedente che parlava di morte e del fatto che sia un tabù ancora oggi, volevamo continuare a raccontare la vita e le sue età. Volevamo partire dall’infanzia e da una dedica sull’infanzia come Pinocchio ma era un involucro ancora vuoto. Quando abbiamo conosciuto loro questo involucro si è riempito mano a mano. Non è stato subito chiaro come, per molto tempo ci siamo chiesti quanto la favola di Pinocchio dovesse essere raccontata.

Poi cosa è successo?
I loro vissuti sono stati così forti e importanti che Pinocchio è stato schiacciato e messo da parte. È stata la spalla che ha permesso allo spettacolo di andare avanti permettendo di parlare di loro spostandoci su piani altri.

Qual era il vostro desiderio?
Utilizzare una storia nota davvero a tutti per cui fosse possibile anche soltanto citare personaggi e luoghi di quella storia senza la necessità di entrare approfonditamente nella storia.

Sei con loro in scena?
Più o meno. Lo spettacolo lo facciamo insieme. È una condivisione dell’incontro tra di noi. Portiamo sul palcoscenico questo incontro che c’è stato e che ci andava di condividere. In realtà non sono sulla scena, ci sono loro soli. Questa è stata una sfida da percorrere: portare loro sulla scena diversamente dal solito. Generalmente gli operatori teatrali lavorano sul palco. Noi eravamo determinati nel fatto che stessero da soli sul palco.

Quale soluzione è stata presa?
È nata questa forma di dialogo a distanza in cui io sono una voce fuori campo che lavora live insieme a loro attraverso un canovaccio che ha dei punti di arrivo e dei contenuti che vogliamo consegnare ma non un copione dato.

Prima del vostro Made in Italy avete vissuto esperienze laboratoriali nel carcere di Verona. Cosa significa partire da progetti teatrali di inclusione sociale e ritornarci a distanza di anni?
Qualcuno dice che i Babilonia hanno provato a fare qualcosa di diverso. In realtà è significato tornare da dove siamo partiti come accenni tu. Nel senso che il lavoro con il non-attore è qualcosa che ci è interessato fin dall’inizio e che quando siamo partiti ci ha permesso di scardinare e di porci le domande rispetto a una forma da trovare per stare noi sul palco. Nel prossimo spettacolo torneremo noi sul palco. Sono filoni che procedono paralleli. Ci interessa un’autenticità da portare sul palcoscenico. Per noi questo lavoro ha significato molto perché il tipo di autenticità che loro riescono a portare sul palcoscenico e il tipo di risposta che suscitano nel pubblico aprono a domande rispetto a cosa serve fare a teatro. Domande molto grandi rispetto alle quali non abbiamo delle risposte.

Estratto video dell’intervista a Enrico Castellani (Babilonia Teatri) da Collinarea:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=62Qf6xnEv4o&w=560&h=315]

In anteprima, intervista a Loris Seghizzi

AdobePhotoshopExpress_2014_07_27_14:34:14ANDREA CIOMMIENTO | Venerdì 25 e sabato 26 luglio Collinarea apre in anteprima la sua nuova edizione con il concerto di Bobo Rondelli insieme all’Ottavo padiglione in un gustoso accorpamento di festeggiamenti, dai vent’anni dalla nascita della band all’inizio del festival di Lari.

Loris, cosa significa aprire con Bobo Rondelli?
Aprire con Bobo significa aprire con un amico. L’anteprima del festival vede il concerto di Rondelli a Crespina e Bustric con lo spettacolo “Illusioni” a Ponsacco. Il ventennale dell’Ottavo padiglione con Rondelli è quindi un momento importante di ritrovo per loro e di apertura per noi. Da lunedì si partirà ufficialmente con tutta la programmazione del teatro insieme ai Babilonia Teatri.

Il programma si compone di artisti che non replicano solamente il loro spettacolo ma abitano le vie di Lari per diversi giorni…
Quest’anno è stata fatta una scelta precisa: non ospitare l’artista solo nelle sue singole repliche. Ci piace stare più tempo insieme agli altri e proprio per questo abbiamo aperto anche nuove sezioni.

Quali?
Ci siamo divertiti a dare i nomi: “Dinamica” sarà la sezione dei sette laboratori, cinque dei quali confluiranno nella serata conclusiva in un grande spettacolo chiamato “In volo” con decine di persone capitanate da Carrozzeria Orfeo, Teatro dei Venti, Masella, Perinelli, le Vie dei Fool, Civilleri/Lo Sicco e gli altri.

Ci saranno occasioni d’incontro pubblico con gli artisti?
Tra le nuove sezioni abbiamo programmato anche “Empatica”, curata da Andrea Cramarossa, che consisterà nell’incontro degli artisti a tavola. È un tentativo per mettere a nudo l’artista e la persona che c’è dietro alla figura dell’artista. Si parla di artisti che hanno sempre sostenuto e aiutato il progetto Collinarea e altri nuovi che si sono aggiunti portando i loro lavori in scena da noi.

Dove si svolgeranno?
Gli incontri saranno nella zona “Collinarea Restaurant” durante la cena dopo le rappresentazioni che poi è un’altra novità del festival. Ci metteremo tutti intorno a un tavolo per cenare e in modo confidenziale parleremo.

Di cosa si parlerà?
Partiremo dagli spettacoli ma magari non solo dello spettacolo appena visto, cercheremo di parlare della persona comprendendo quale è stata la scelta di vita che ha portato a fare questo mestiere. Chiederemo: “come fai a vivere di teatro oggi?”. Una domanda importante in questo momento storico.

 

Il programma di lunedì 28 luglio 2014:

ore 19.15, Lari, Castello – prima regionale
Babilonia Teatri
PINOCCHIO
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, Luca Scotton
Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca

ore 20.30, Lari, Castello
Scenica Frammenti
NOI E LORO
Esito del progetto teatrale realizzato con la Scuola Elementare di Lari
Condotto da Loris Seghizzi, Dimitri Galli Rohl e Camilla Del Freo

ore 21.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Roberto Kirtan Romagnoli
ULISSE
Indagine su un uomo al di sopra di ogni sospetto
di e con Roberto Kirtan Romagnoli
regia Loris Seghizzi
produzione Scenica Frammenti

ore 22.15, Lari, Piazza del Teatro – prima regionale
Savino Paparella
AL FORESTÉR
vita accidentale di un anarchico
di Matteo Bacchini
regia e interpretazione Savino Paparella

Mittelfest 2014, la “Dannata patria” della nuova scena balcanica

segnaliANDREA CIOMMIENTO | La nuova drammaturgia balcanica chiama a giudizio i responsabili diretti e i complici della questione serbo-croata. È la prerogativa dello spettacolo di Oliver Frjic intitolato “Dannato sia il traditore della patria sua” in cui lo spazio scenico è scarno componendosi soltanto di attori/musicisti predicatori di violenza. Il coro di voci si porta appresso storie di stupri e abusi subiti, fosse titine, vittime infoibate, risate colme d’odio e pianti da schernire nell’interpretazione.

Il lavoro prodotto dalla Slovensko Mladinsko Gledališce non è una creazione composita ma un ciclo di confessioni parcellizzate e inquietanti in cui tutto nasce e si annienta ogni quarto d’ora: il tema da raccontare si presenta inizialmente innocuo e risolutivo, in pochi minuti il linguaggio si corrompe e l’unica soluzione è la caduta dei corpi a causa degli spari per mano dall’attore più giovane. Qui il lutto non è pretesto di cambiamento ma una semplice pausa tra un massacro e l’altro oltre a essere il segnale di un ritorno imminente di sangue. Ogni quadro scenico viene fatto a pezzi e vivisezionato richiamando a una presa di coscienza collettiva sull’indifferenza di questi ultimi vent’anni.

La finzione del teatro, uno dei temi che affronta Frjic in questo lavoro collettivo nato da improvvisazioni, diventa il pretesto per pianificare l’attacco e prendere di mira gli spettatori con l’obiettivo di far vivere il meccanismo del massacro e l’ingranaggio che porta allo scontro ovvero l’esperienza di un conflitto degenerante. Si esplorano le violenze della storia come rappresentazioni finzionali di atti furiosi che generano nuovi modelli di brutalità sociale e riportano al centro i segni che la violenza è capace di perpetuare.

Il processo d’accusa portato in scena pone l’Europa e l’Italia tra i principali colpevoli dei silenzi complici e dell’aumento di corruzione e mafiosità del presente, accuse che a dire il vero risultano un po’ troppo generiche e vicine allo stereotipo politico “Fascismo-Mafia-Berlusconi”. La bellezza inquieta presagisce in questo allestimento un futuro di turbolenze originate da visioni nazionalistiche e reazionarie che portano con sé un passato pronto a risvegliarsi.

Il Mittelfest 2014 (“Segnali. Cartografia della bellezza inquieta”) proseguirà fino a domenica 27 luglio. Tra i nomi teatrali Jan Fabre, Luca Ronconi, Ivica Buljan, Gabriele Vacis e le realtà del CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia, CTA Centro regionale Teatro d’Animazione e di figura di Gorizia e la Civica Accademia “Nico Pepe” di Udine. Per tutti i dettagli: www.mittelfest.org

Fiabe e avventure. Stralci tra Moresco e Mari

moresco_fazioCARIBALDI | Saranno felici i lettori da volume breve, quella tipologia di persone che rifuggono per principio i libri lunghi, e ai quali affibbiano spesso epiteti eterogenei, quali ad esempio “mattone”, e come tali li lasciano nel muro delle librerie.

Non nego che il ragionamento, all’apparenza semplicistico, possegga un suo fascino. Con tale scelta si legge ugualmente e magari con meno fatica, senza ansia che manchi il tempo di finire quelle poche pagine e che, una volta giunti alla fine, sia passato talmente tanto tempo che ci siamo dimenticati l’inizio e gran parte della trama. Ma così facendo addio Recherche, Guerra e pace, La montagna incantata, La marcia di Radetzky, Enrico il verde o Anna Karenina tanto per citare a memoria.

Tuttavia, scegliere per compattezza può regalare anche sorprese e permette di apprezzare volumi di rara intensità. Mi ricordo ancora, quando un mio conoscente, appartenente alla schiera dei lettori da volume breve – qualità di cui si faceva un gran vanto – mi consigliò il meraviglioso Il fucile da caccia di Inoue Yasushi.

Questo lungo preambolo per sottolineare l’uscita, negli ultimi mesi, di due brevi romanzi, o sarebbe forse meglio dire due fiabe, di un autore che negli ultimi anni sta attirando sempre più attenzione e i cui titoli più conosciuti non sono certo caratterizzati dalla brevità, oltre ad essere assai compositi per materia (stratificata), lingua e complessità di pensiero. Mi riferisco ad Antonio Moresco, milanese d’adozione, nato a Mantova nel 1947 e ai due volumi Mondadori, collana libellule: La lucina e Fiaba d’amore. Due testi brevi, caratteri grandi in pagine piccole, 167 per l’esattezza il primo e 155 il secondo. Per di più, il genere aiuta la lettura e permette di avvicinarsi a un autore “difficoltoso”, questo detto non come critica. Provate a confrontarvi col maestoso Canti del caos o con un volume come Gli esordi, se già non lo avete fatto, e capirete cosa intendo

Quindi vedrete in quanti adesso vi parleranno di Moresco, lo “scopriranno”, ve lo consiglieranno e ne diverranno cultori. Poi, dopo l’ospitata di aprile da Fazio, come non conoscerlo? Meglio però sorvolare sul salotto liturgico di rai 3 dove, come in tutte le messe che si rispettano don Fabio ci insegna come comportarci bene. Meglio pensare che la presenza di Moresco sia stata casuale…

Moresco è un autore che merita attenzione, anche se, tutto quel parlare di lui come autore di culto, per pochi, quell’alone quasi mistico-mitologico, lo rendono antipatico e distante. Ma non fateci caso, non è colpa sua, accade suo malgrado. Basta ascoltarlo od incontrarlo per accorgersene. In un panorama letterario come il nostro (come sarebbe bello poter dire il vostro…) pochi sono gli scrittori che meritino di essere affrontati, soprattutto tra i viventi, ora che addirittura Aldo Nove scrive un romanzo su san Francesco e affronta tour di presentazione con Emidio Clementi, Alessio Bertallot, Jovanotti e chissà quali altri, oppure che Bompiani pubblica un libro di Candida Morvillo, quella per niente candida per intendersi, che stavolta ci dice che “le stelle non sono lontane”. Ma non ricadiamo in sterili polemiche.

Oltre a Moresco, che tra l’altro è anche un grande autore di teatro (questa giocatevela in una discussione pseudo letteraria tra amici, farete una grande figura: citate la raccolta di drammi Merda e luce e vedrete che farete colpo sul vostro interlocutore) mi preme segnalare un altro autore, sempre italiano, sempre interessante, soprattutto dal punto di vista linguistico, ovvero per la volontà dichiarata di muoversi all’interno di quel magno perimetro segnato da nomi nobili del nostro patrimonio quali Gadda, Fenoglio, Landolfi, Primo Levi ed altri. Mi riferisco al milanese Michele Mari, del quale è da poco in libreria per i tipi Einaudi Roderick Duddle, godibilissimo e felice romanzo d’avventure, che ci riavvicina al gusto del leggere in quanto tale, con un occhio dichiarato a due grandi autori quali Stevenson e Dickens, pietre miliari nel percorso letterario dell’autore ambrosiano.

Ma se siete poco attratti dal genere o dal perimetro letterario summenzionato, forse potrà stimolarvi la lettura di un suo precedente volume, Rosso Floyd (2010) che, come si evince facilmente dal titolo, è un romanzo sulla parabola artistica dei Pink Floyd. Vedete che dove non corre in aiuto la brevità, come dicevamo sopra, ecco forse arrivare la curiosità per una tematica insolita. Pensate che un mio amico è riuscito a farlo leggere alla tardo-adolescente (?) sorella vegana e tutta piercing che così ha toccato in vita sua quota tre romanzi letti. Cito questo esempio poiché immagino essere altri gli autori che potrebbero interessare la suddetta, non certamente Mari.

Strano accostare due autori lontani come Moresco e Mari, due scrittori distanti, dai percorsi molto diversi – Mari tra l’altro è figlio di Enzo Mari e insegna all’università, quasi opposto invece il percorso biografico di Moresco – ma vicini tuttavia se si considerano due semplici fattori: quello qualitativo, del quale sembra che ogni giorno si perdano sempre più le tracce, e quello sostanziale, innestato su di un confronto diretto e vero con la pagina scritta, che li caratterizza entrambi.

Per dirla in breve, sono due che si rimboccano le maniche e inzuppano le mani nell’inchiostro e mestano e rimestano. Non lo versano da un contenitore in flute trasparenti, in attesa che evapori per vedere cosa resta.

Programma Collinarea Festival (25 luglio – 2 agosto 2014)

Locandina 70x100_webCOLLINAREA 2014
Lari, 25 luglio – 2 agosto 2014

PROGRAMMA 

SPETTACOLI

Venerdì 25 luglio ore 21.15, Crespina, Torre a Cenaia – apertura festival
BOBO RONDELLI & L’ OTTAVO PADIGLIONE XX° Anniversario
Concerto

Domenica 26 luglio ore 21.15, Ponsacco, Teatro Odeon
BUSTRIC
ILLUSIONISMI

Lunedì 28 luglio
ore 19.15, Lari, Castello – prima regionale
Babilonia Teatri
PINOCCHIO
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, Luca Scotton
Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca

ore 20.30, Lari, Teatro
Scenica Frammenti
NOI E LORO
Esito del progetto teatrale realizzato con la Scuola Elementare di Lari
Condotto da Loris Seghizzi, Dimitri Galli Rohl e Camilla Del Freo

ore 21.15, Lari, Castelloprima nazionale
Scenica Frammenti
ULISSE
Indagine su un uomo al di sopra di ogni sospetto
Tratto dall’omonima opera
di e con Roberto Kirtan Romagnoli
regia Loris Seghizzi

ore 22.15, Lari, Piazza del Teatro – prima regionale
Teatro del Tempo
AL FORESTÉR
vita accidentale di un anarchico
di Matteo Bacchini
regia e interpretazione Savino Paparella

Martedì 29 luglio

ore 19.15, Lari, Castello
Ortika Produzioni
CHI AMA BRUCIA
Discorsi al limite della Frontiera
ideazione e regia Alice Conti
drammaturgia Alice Conti e Chiara Zingariello
con Alice Conti
Vincitore di Anteprima 2014

ore 20.30, Lari, Piazza del Teatro – primo studio
Fabrizio Saccomanno/Francesco Niccolini
GRAMSCI
Antonio detto Nino
di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno

ore 21.15, Lari, Teatro
LeVieDelFool
LUNA PARK
Do You Want a Cracker?
di e con Simone Perinelli

ore 22.15, Lari, Castello
Compagnia Laboratorio Scenica Frammenti
MOSCHE
Esito del laboratorio teatrale condotto da Francesco Oliviero e Loris Seghizzi
collaborazione artistica Mohared Barone

Mercoledì 30 luglio
ore 19.15, Lari, Salone del Castello
Jorge Romero
DIVINO PASTOR GÒNGORA
dal testo di Jaime Chabaud
drammaturgia, regia, composizione musicale e interpretazione Jorge Romero
spettacolo in spagnolo

ore 20.30, Lari, Piazza del Teatro – anteprima nazionale
Teatro Agricolo
LA LUCINA
dal romanzo di Antonio Moresco
narratore Giovanni Balzaretti
musiche dal vivo Andrea Pellegrini

ore 21.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera e Teatro Minimo
RICCARDO III
di e con Michele Sinisi
collaborazione scrittura scenica Michele Santeramo

ore 22.15, Lari, Castello
Orto degli Ananassi/Achab
TESTA DI RAME
di Gabriele Benucci e Andrea Gambuzza
regia Omar Elerian
con Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza

Giovedì 31 luglio

Ore 19.15, Lari, Teatro -prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro e Teatro Minimo
RICCARDO III
di e con Michele Sinisi
collaborazione scrittura scenica Michele Santeramo

ore 20.30, Lari, CollinArea Restaurant
Le Canaglie
NONTAZZARDARE
illustrazioni e animazioni di Ambè2 – Federico Bassi e Giacomo Trivellini
musiche di  Massimiliano Setti
maschere di Annamaria Giacomelli

ore 21.15, Lari, Piazza del Teatro
La Ballata dei Lenna
CANTARE ALL’AMORE
di e con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno
produzione La Ballata dei Lenna
con il sostegno di Fondazione Campania dei Festival – E45 Napoli Fringe Festival
Presidenza Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù – Regione Piemonte – Provincia di Alessandria – Regione Puglia – Fondazione Live Piemonte dal Vivo – circuito regionale dello spettacolo
in collaborazione con Teatro Minimo – Teatro Bottega degli Apocrifi
Vincitore E45 Napoli Fringe Festival – Selezionato In-Box 2014

ore 22.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro
PERCHE’ NON BALLATE?
liberamente ispirato a racconti e poesie di Raymond Carver
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Anna Stigsgaard
con Michele Altamura, Roberto Capaldo, Catia Caramia, Silvia Tufano

Venerdì 1 agosto
ore 19.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro
PERCHE’ NON BALLATE?
liberamente ispirato a racconti e poesie di Raymond Carver
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Anna Stigsgaard
con Michele Altamura, Roberto Capaldo, Catia Caramia, Silvia Tufano

ore 20.30, Lari, CollinArea Restaurant
Le Canaglie
NONTAZZARDARE
illustrazioni e animazioni di Ambè2 – Federico Bassi e Giacomo Trivellini
musiche di  Massimiliano Setti
maschere di Annamaria Giacomelli

ore 21.15, Lari, Teatro – studio integrale
OFFROME e Bottega Rosenguild
THREE WISHES TRE DESIDERI
di Ben Moor
regia Mauro Parrinello supervisione Ben Moor
con Mauro Parrinello, Elisa Benedetta Marinoni

ore 22.15, Lari, Teatro
Centro Teatrale Umbro
L’ARCHIVIO DELLE ANIME. AMLETO
da William Shakespeare
di Naira Gonzales e Massimiliano Donato
con Massimiliano Donato

Sabato 2 agosto ore 21.30 , Lari, Borgo
InArea – Il Volo
Evento teatrale con le Compagnie Civilleri/Lo Sicco, Teatro Dei Venti, Carrozzeria Orfeo, LeVieDelFool, Ammonia Danza Corrosiva, Compagnia dell’Ordinesparso, Neapolis, Uthopia/Ciro Masella, Scenica Frammenti, i partecipanti ai laboratori e gli abitanti di Lari.

Ispirato alla poetica di Hayao Miyazaki da un’idea di Sabino Civilleri e Emanuela Lo Sicco,

LABORATORI

25 -29 luglio
Francesco Niccolini/ Fabrizio Saccomanno
DA GRAMSCI E LE SUE LETTERE A UN RACCONTO TEATRALE
Laboratorio di narrazione 

28 luglio – 1 agosto
Augusto Timperanza
Il SAMKHYA

28 luglio – 2 agosto
Teatro Dei Venti (Stefano Tè)
TEMPO PERSO

28 luglio – 2 agosto
Carrozzeria Orfeo
IL SOGNO 

29 luglio – 2 agosto
Uthopia (Ciro Masella)
VOLO INVERSO

30 luglio – 2 agosto
Compagnia dell’OrdineSparso (Giovanni Berretta)
LA PREGHIERA

31 luglio – 2 agosto
Ammonia Danza Corrosiva (Valentina Gallo)
URBAN CONTAMINATION DANCE

25 luglio – 2 agosto – CollinArea Restaurant
dalle 19.30 al CollinArea Restaurant di Via Dante sarà possibile cenare
dalle 23.30 Empatica: incontri con artisti condotti da Andrea Cramarossa del Teatro delle Bambole

Info: www.collinarea.it – info@collinarea.it – Tel. 0587.350668

Ufficio Stampa leStaffette lestaffette@gmail.com

Raffaella Ilari, mob. +39.333.4301603

Marialuisa Giordano, mob. +39.338.3500177

 

Ufficio Stampa Fondazione Pontedera Teatro ufficiostampa@pontederateatro.it

Micle Contorno, mob. +39.349.6759575

 

 

D’Elia, l’amore per il teatro e quel genio di Strehler

konradVINCENZO SARDELLI | Un monologo capace di testimoniare l’amore per il teatro, arte che è strumento totale per conoscere la realtà e la vita, per sondare l’animo umano, rivelandone emozioni e sentimenti.

Non chiamatemi maestro è il tributo a Giorgio Strehler con cui Corrado d’Elia ha chiuso la stagione del Teatro Libero di Milano.

«Racconterei anche muto. Racconterei anche immobile,ad occhi chiusi, voltato di spalle, dietro una tenda, chiuso in un ripostiglio o in fondo al mare. In qualsiasi modo io racconterei, perché l’importante per me è raccontare … raccontare le storie di altri, ad altri … ad altri che ascoltano». Strehler esprimeva la propria urgenza di un contatto con il pubblico. Anche nel teatro, il cuore conta più delle parole.

Scalzo, camicia e jeans, D’Elia ricostruisce la poetica di Strehler staccandosi dall’impersonalità. Non mostra vita e arte: ne propone l’essenza. «Io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico. Me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico».

Poco so, ma quel poco lo dico. Deve aver pensato la stessa cosa di Strehler Corrado d’Elia quando ha messo mano agli scritti e all’opera del fondatore del Piccolo Teatro per evocare un uomo, un’anima, un’epoca.

Un format collaudato in altri monologhi, come Beethoven o Notti bianche. Uno sgabello. La propria presenza scenica. Le luci intime, dosate da Alessandro Tinelli.

Gli album di d’Elia sono racconti di passione. Sono percorsi poetici, eventi quasi privati. Lo spettatore percepisce aspetti frammentati della realtà: la memoria che ognuno ha della propria vita è parziale, tronca. Come quando si guarda un album fotografico, i ricordi affiorano in modo aleatorio, con salti temporali. Le sequenze riproducono l’intreccio irruente dei pensieri.

Nei suoi assolo d’Elia normalmente si trova sul palco vuoto, con un oggetto simbolo prescelto ribadito all’ennesima potenza: lampadine in Notti bianche; pannelli come spartiti in Beethoven. Qui lo sguardo si allarga. Non oggetti ma persone. La solitudine diventa spazio per un incontro che è condivisione. Ecco la scelta di far sedere un po’ di spettatori sul palco. In fondo il vero protagonista dello spettacolo è proprio il teatro. Il pubblico vive l’emozione di essere centrale, di sentir vibrare voce e respiro, di farsi lambire dalle luci. Di scrutare quello che percepisce della sala, il silenzio, il buio, gli umori.

È un clima raccolto. In scena c’è anche un microfono, un leggio, metafore di uno spazio ideale, infinito. Per raggiungere tutti. Per aggiungere quel tanto di enigmaticità.

Il sonoro non è intermezzo ma partitura narrativa. Musiche scelte come gli ingredienti per cucinare quando si aspetta un ospite. Una selezione curata che crea un tempo sospeso: opere di Mozart di cui Strehler ha curato la regia, Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Così fan tutte; Ma mi, scritta per Ornella Vanoni. E poi, ancora, Concertino-Allegro dei Madredeus, Les choristes di Bruno Coulais, e il valzer finale Cries and whispers del coreano Cho Young-Wuk.

Corrado d’Elia evoca Strehler e il suo mondo di passioni e solitudini, sogni e tenacia. La Milano antica dei lampioni, della nebbia e del dialetto. Il sogno del Piccolo Teatro realizzato con Paolo Grassi, strana coppia di un triestino e un pugliese. Donne significative della sua vita privata e artistica, la madre, Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, Andrea Jonasson. E frecciate, attualissime, su una politica che in Italia considera superflue le spese per la Cultura.

D’Elia, una sedia, un leggio, un microfono. Forse un maestro, e una storia da raccontare. Perché a teatro, quando le luci si spengono, per emozionare basta un bravo attore. E parole con un’anima.

Harvest, grottesca denuncia del traffico d’organi

harvestVINCENZO SARDELLI | Quali sono le dinamiche che assoggettano il Sud al Nord del mondo? Sono i giochi politici o è l’economia a definire gli assetti del pianeta? E sul piano personale, che cosa saremmo disposti a cedere pur di assicurarci un benessere effimero?

È un format interessante Harvest, spettacolo di Teatro MA & Compagnia Delle Furie che era stato già presentato in forma di studio al Piccolo Teatro nel Festival Internazionale Tramedautore 2013. In forma rifinita la pièce, drammaturgia e regia di Matteo Salimbeni e Fulvio Vanacore (con Cecilia Campani, Giacomo Marettelli Priorelli, Michele Mariniello, Beppe Salmetti e Carla Stara) ha debuttato nei giorni scorsi allo spazio Tertulliano di Milano.

Harvest – Quanto costa un uomo al chilo? di Manjula Padmanabhan, traduzione di Alice Spisa, è la storia di Om Prakash. Om è un indiano che vive in un appartamento fatiscente con la moglie, la madre e il fratello. La sua casa è in un condominio-ghetto. I servizi sono putride latrine in comune. Poco cibo, molta miseria. Om non lavora. Il fratello si prostituisce. Un giorno il benessere arriva imprevisto. L’InterPlanta Services, fantasmagorica struttura professionale di raccordo fra primo e terzo mondo, ha selezionato Om per un trattamento. Il castrante ménage familiare viene ribaltato. La miseria lascia il posto a bagno interno e TV satellitare, comodi divani e cibi multivitaminici. A Om viene chiesto solo di mantenersi in forma fisica e preservare il buonumore.

Uno spettacolo futurista sulla compravendita d’organi. Il conformismo global ha gli aspetti autoritari e oppressivi di un Grande Fratello orwelliano. Attraverso uno schermo, infatti, l’InterPlanta Services controlla ogni movimento in casa Prakash.

Harvest denuncia un Nord del mondo luccicante e ipocrita, ammiccante e cinico. Ma condanna altresì lo strapotere del dio denaro, che trasforma i rapporti anche tra i poveri. I comfort inquinano i sentimenti tra consanguinei, partendo dall’anziana madre (interpretata da un istrionico Beppe Salmetti) disposta a barattare il cuore di mamma con mamma TV.

In questa messinscena che mescola teatro d’attore e audiodramma, con casse, amplificatori e consolle a vista sul palco, emergono le qualità di un copione ritmato e vivace. Solo l’ultima parte ha delle angolosità da levigare: alcuni passaggi drammaturgici sono dati per scontati, montati in modo sbrigativo. Giocata sul registro burlesco, la regia fa uso di iperboli e ribaltamenti comici che smorzano i contenuti cruenti. Alla riuscita narrativa concorrono gli effetti sonori fuoricampo, atmosfere da night ed escursioni noir. E un linguaggio paradossale, allusivo, che scivola sarcasticamente nell’inflessione lombardo-veneta.

Gli attori sono bravi ad animare le perversioni di questa singolare umanità disperata, alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche: individualisti che speculano sulle disgrazie altrui; una vecchia in cerca di un’identità che la aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi lei; sprovveduti che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere materiale fittizio. È un mondo caotico, dove aleggiano macchiette sgraziate dall’incedere nevrotico.

Una performance scanzonata, dissacrante. Il pensiero soffoca, muore. La libertà entra in un vicolo cieco. La vita stessa non ha più vie per esprimersi.