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venerdì, Maggio 9, 2025
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La fast ironia “suicida” dei Sacchi di Sabbia

Sacchi di Sabbia Piccoli SuicidiMATTEO BRIGHENTI | La fantasia è una maschera di legno che canta. Si fa con le mani, il disegno, riscoprendo uno stare insieme arcaico, occhi aperti e testa sgombra. Nel Maggio drammatico l’Appennino tosco-emiliano celebra in ottava rima e in quartine di ottonari la primavera, cioè la sconfitta del gelo della morte. I Sacchi di Sabbia (www.sacchidisabbia.com) recuperano quella tradizione e la rileggono come somma esilarante delle differenze che ci rendono ugualmente sconfitti, oggi, dal gelo della vita. Piccoli suicidi in Ottava Rima – Volume I, presentato in anteprima nazionale al Teatro Studio di Scandicci (Firenze), frutto di una collaborazione tra Giovanni Guerrieri e Dario Marconcini, con la consulenza di Enrico Pelosini, Andrea Bacci ed Enrico Baschieri, è un musical a cappella, un match di recitazione vernacolare, un divertimento in quattro tempi veloce, pulito, leggero.

Un quadrato di luce rossa, la musica degli stornelli, cinque sedie. Lo spazio che accoglie la nuova indagine sulla parodia di Guerrieri insieme a Giulia Gallo, Gabriele Carli, Giulia Solano, Enzo Illiano è l’alba di un tramonto strascicato. Gli attrezzi  di scena e i semplici costumi sono in delle scatole ai piedi degli attori. Non c’è altra scenografia che il corpo e le sue voci. Seduti, poi in azione, su e giù, i Sacchi di Sabbia sono i pistoni del racconto di quattro “rievocazioni storiche” dell’immaginario cinematografico pop/olare: western, horror, commedia, fantascienza.

In Pat Garrett e Billy the Kid, dall’omonimo film di Sam Peckinpah, le ferite da arma da fuoco sono gocce di tintura su una camicia bianca. Billy non vuole morire, preferisce cantare mentre rovina a terra. Le pistole a salve dell’immaginazione sono cariche di pianto trattenuto. Le armi della finzione ti lasciano solo di fronte ai tuoi sogni realizzati. Il teatro non può rappresentare la morte, è finzione, serve unire le volontà di tutti per riuscirci. Fare comunità.

L’accettazione del gioco dei ruoli, della necessità di fare squadra, si fa avanti a passi rumorosi nell’episodio The Wolf, che stravolge il tema di Wolfman, pellicola di Joe Johnston. L’uomo, anche se trasformato in lupo, resta un poeta. Dedito alla bellezza. Uccide quando si riempie gli occhi di tre Cappuccetti rossi, la femminilità in un giro di spalle, un cestino di cartone e il sorriso idiota.

Questi Piccoli suicidi sono lenti di ingrandimento puntate sulle ovaie dell’impegno a non lasciarsi vivere. Che cos’è l’amore, da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, il Woody Allen del 1972, prende tre spermatozoi e li mette a godersi lo spettacolo del concepimento. Non c’è democrazia dentro l’utero, la Natura non è uguale per tutti, i forti vanno avanti, gli indecisi restano indietro, e lo spermatozoo riluttante fa la fine del cuscino sulla sedia. Schiacciato.

Il lavoro dei Sacchi di Sabbia è trasformazione, passaggio, confine, una maschera per incontrare gli altri dentro di sé e far divertire il pubblico. Nel quarto e ultimo suicidio, il più riuscito e divertente nella sua fulminea semplicità, L’invasione degli Ultracorpi, dall’omonimo film di Don Siegel, l’alieno che s’impossessa dell’umano è un sacco nero con gambe, braccia e testa. Sembra Grillo incappucciato che scappa alle domande dei giornalisti sulla spiaggia di fronte alla sua villa di Marina di Bibbona (Livorno). Non si capisce chi sia più alieno, se l’extraterrestre o il padrone di casa che lo accoglie in calzini e canottiera, anestetizzato da La gatta sul tetto che scotta su un minuscolo televisore, costruito con niente, come tutto lo spettacolo. Entrambi, comunque, spaesati, senza posto, fuori da questa realtà sorniona e incomprensibile.

Non possono farlo davvero così, con quella furbizia trasognata da start up in garage, eppure lo fanno, finché non ridi completamente, con tua bella sorpresa. Una ridda di impasse comiche che fanno di Piccoli suicidi in Ottava Rima – Volume I una canzone orecchiabile per sorrisi in cerca di respiro.

Il tentativo di coesistenza fra bellezza e crudezza: la fatica di Kronoteatro

Un disegno di Renzo Francabandera
Un disegno di Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | Cinquanta persone siedono in silenzio attorno ad un rettangolo di dodici metri per cinque riempito di terra. Buio. Qualche goccia d’acqua all’inizio fa arrivare l’odore della terra nelle narici. Luci fioche e di intensità calda illuminano a mala pena. Come invisibili candele. Arrivano prima delle bestioline in apparenza inermi, poi il loro padrone.
Dopo una breve predica le aizza le une contro le altre. Il motivo è futile, potrebbe essere uno qualsiasi. La fame, la sete, il pensiero sui destini del mondo. Le bestie, dopo l’addestramento, saranno disposte a tutto, fino a sbranarsi l’un l’altra.
E’ così che può capitare di trovarsi a bordo ring, come in Amores perros, a guardare gli animali nell’atto finale dell’attacco per sfuggire alla propria morte.
Come in Salò di Pasolini; o in Orfani_la nostra casa, testo di Fiammetta Carena, atto scenico pensato da Kronoteatro. Gli orfani, uomini indifesi pronti ad imbestialirsi, sono Alessandro Bacher, Tommaso Bianco, Alberto Costa, Vittorio Gerosa, Alex Nesti, il loro gran sacerdote, in abito da sera e scarpe lucide, è Maurizio Sguotti (anche regia).
E’ davvero la lotta di uomo contro cani. E di cani fra loro.
Chiamare spettacolo questo interessante lavoro teatrale è inadeguato, come pure l’applauso finale che pure vorrebbe esserci, è duro da regalare. E non perché non meritato. Ma perché il lavoro di Kronoteatro è un atto d’accusa capace (magari non per tutti, o con alcuni distinguo e distanze) di arrivare al cuore di certe questioni sui rapporti di forza nella società, nel nostro tempo, di sempre.
Il fatto che la miseria, le valigie, gli elementi di scena, ricordino una povertà antecedente ad un qualsiasi boom economico contemporaneo, non fa passar di mente come quello di cui si parla possa essere un tempo eterno, di uomo lupo, potere, dominio.
Il cuore di una storia spesso non è la storia di per se stessa, ma come la si racconta.
E qui tutto converge, compresi gli studiatissimi movimenti pensati da Davide Frangioni, verso un’idea forte, coerente, efficace di uso del teatro, dove l’esperienza e la figura più adulta di Sguotti trovano un equilibrio interessantissimo con un gruppo di giovani attori dalle ricchezze e sfumature diverse, con qualche ridondanza, un retrogusto barocco che comunque amplifica l’estasi della crudezza, della carne selvaggia, dell’uomo belva all’uomo.
I ragazzi, all’inizio inermi e indifesi, ma diversi l’un dall’altro, subiranno un processo di alienazione dalla propria identità originaria, per trasformarsi in adepti di una setta, il cui valore, fra vaneggiamenti pseudo religiosi e di vuoto contenuto etico, sarà semplicemente l’espropriazione della personalità con l’unico fine di ridurre ad uno stato di cieca obbedienza, indistinguibile e indistinta.
Mi ha dato alla bocca dello stomaco, e per me, per il mio modo di intendere l’arte, la necessità di un suo profondo essere viscerale, totale, studiata e consapevole, ma sempre improvvisa, questo è un valore.
Ricordo, della visione fruita al Teatro dell’Elfo di Milano, anche l’efficacia delle scene e dei costumi di Francesca Marsella e le luci e i suoni di Enzo Monteverde, capaci di mettersi al servizio di un’atmosfera claustrofobica, difficile da scrollarsi di dosso, o meglio di dentro.

L’Orfeo e la Mite: César Brie tra Eros e Thanatos

brieVINCENZO SARDELLI | Non si smentisce, César Brie. Che presenta, attraverso la metafora del teatro, aspetti drammatici della vita in termini sfumati. Brie sospende il giudizio. Non impone un punto di vista. Piuttosto interroga lo spettatore, in uno scandaglio psicologico e spirituale.

È l’oggettività dei sentimenti. È un teatro dove si rimarca il potere dell’emozione sull’ideologia. Attori e spettatori partecipano a un rito. Esaminano se stessi, alla ricerca di una verità che riconosca le ragioni altrui, senza dogmatismo.

Sarà per questo che Brie tende ad affidarsi ad attori giovani, quelli della compagnia Teatro Presente, con cui ha proposto in successione, al Campo Teatrale di Milano, Orfeo ed Euridice e La Mite. Come se cercasse un codice comunicativo primordiale, oltre ogni sovrastruttura.

In entrambe le opere il tema è la morte, correlata a libertà e amore.

Orfeo ed Euridice intreccia mito e attualità, con riferimento all’eutanasia. Sono passati cinque anni dalla scomparsa di Eluana Englaro, e in Italia manca ancora una legge sul testamento biologico. Anche il cinema si è occupato della questione, prima con Bella addormentata di Bellocchio, poi con Miele di Valeria Golino.

Come Orfeo con la forza del canto prova a liberare Euridice dal Regno dei Morti, così in questa storia Giacomo (Giacomo Ferraù) prova a proteggere Giulia (Giulia Viana) dall’inferno di un incidente stradale che la inchioda a una vita senza nerbo.

Lo stile cinematografico della pièce introdotta da un Caronte siciliano, con la scena tagliata da un fascio di luce, si dispiega attraverso un flashback iniziale. Ecco l’incontro tra un ragazzo e una ragazza, il corteggiamento, le paure. Sogni, flashforward, il riconoscersi. L’amore, cresciuto al ralenti. Le promesse. I dialoghi al buio, delicati e dosati. La naturalezza dei piccoli gesti. Gli abbracci, i respiri. La luce, che blocca a più riprese il racconto in un fermo fotografico surreale, a immortalare una gioia effimera di fronte alla tragedia che incombe, di cui non perdiamo mai il senso. Fantasie e incubi, fino all’incrocio con la morte.

Il montaggio in parallelo enuclea varie situazioni. Confonde passato, presente e futuro. Contamina ricordi e speranze, timori, rimpianti e angosce. L’accudimento, la casa dei risvegli. L’attenzione a piccoli segni di ripresa, un alluce che si muove, un occhio che si apre. Il parere del medico, la routine del fisioterapista, la sentenza del giudice. Le crisi di coscienza, tra miraggi e delusioni. La meraviglia. La stanchezza. E il dubbio. Se porre fine a un’esistenza dimezzata. Se restare inerti di fronte a una vita-non vita che illanguidisce, illanguidendo a propria volta.

Qui la malattia è dramma, non bandiera. Su tutto c’è l’amore: oltre le illusioni e i crolli, i capelli che imbiancano, le decisioni laceranti. Regia essenziale, recitazione leggera e toccante. Nessun eccesso: basta la drammaturgia degli sguardi a inumidire gli occhi del pubblico.

Meno evocativa La Mite, tratta da Dostoevskij. Qui, a scanso di equivoci, la morte ci è sbattuta davanti, attraverso una bambola-mummia (di Tiziano Fario) che aleggia tra i due protagonisti. La Mite (in scena, intensissimi, Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni) è la vicenda di un usuraio quarantenne che cerca di spiegarsi il suicidio della giovane moglie.

Anche qui, in flashback, un legame sentimentale che si sfilaccia inesorabile. L’originale di Dostoevskij marcava la freddezza e grettezza di lui, la fragilità e i tormenti di lei. Qui tutto è rarefatto, meno plateale.

Il racconto del protagonista, tra senso di colpa e desiderio di assolversi, diventa dialogo interiore a due voci. Lui cerca di razionalizzare. Anche qui c’è il rewind di un amore mancato. Ma non c’è nostalgia di momenti piacevoli in lui, solo l’angosciante discernimento della propria inadeguatezza, che ha scatenato la tragedia. Lei, timida e introversa, aiuta lui a riorganizzare pensieri e memorie. Ogni tanto rettifica. Quando tace, quel silenzio incrudelisce sulle ferite di lui.

Uno spettacolo più fisico: contrasti, teste che si strofinano, braccia che si serrano, s’aggrappano, si lasciano cadere. Come in Indolore o Viva l’Italia (stesse musiche soffuse – di Pietro Traldi – capaci di contrappunto drammaturgico, stesse luci venate) pochi oggetti scenici (di Roberto Spinacci, costumi di Elisa Alberghi) creano gli spazi dell’azione. Un tavolo è mensa, ma in verticale diventa porta, davanzale. Capovolto, diventa casa.

Nella Mite c’è il rimpianto di un uomo per un paradiso che era nell’anima. C’è l’amarezza di una donna per l’incapacità di superare il disprezzo, di dissipare l’inverno esistenziale.

Uno spettacolo in bilico tra male e bene, colpa e pietà, con l’insostenibile incapacità d’amare. E però qui la scelta di non schierarsi lascia allo spettatore un vuoto irrisolto, uno smarrimento troppo forte per soluzioni persuasive.

Non resta che naufragare nei pensieri. E, nel dubbio, sospendere il giudizio su quest’opera. Anche noi, alla maniera di Brie.

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Ranuncoli#7 Pillole di filosofia, un pesce di nome Wanda e Immanuel Can

6COSIMA PAGANINI| Mioddio è successo! Ho visto uno spettacolo e mi è piaciuto.

La pace perpetua di Juan Mayorga, e di Immanuel Kant, ma anche di Jacopo Gassmann e di Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino e Danilo Nigrelli, ha operato un piccolo smottamento nel mio cuore di pietra.  

Ci sono tre cani in una gabbia trasparente. Devono superare tre prove (come Tamino del Flauto magico rievocato dalla musica che ogni tanto irrompe e disturba il terzetto). C’è anche, fuori dalla gabbia, un cane vecchio: mentore e giudice nello stesso tempo. Non conserverà per molto il comando nella squadra antiterrorismo. Insieme all’Uomo dovrà decidere chi dei tre  sarà ammesso a far parte della squadra. L’uomo non ha un nome e tace per tre quarti dello spettacolo. I cani hanno un nome che, seppur imposto, li definisce. Il giudice si chiama Cassius e i concorrenti Odìn, John-John e Immanuel (come Kant).

La pace perpetua è uno spettacolo semplice semplice, senza trucchi, senza citazioni criptiche. Uno spettacolo classico, antico e luminoso. Scorre per 80 minuti tra momenti comici (John-John, il cane più giovane, alle prese con Pascal e l’esistenza di dio è esilarante e ricorda il personaggio di Kevin Kline in “Un pesce di nome Wanda”) e l’incombente “sapere aude” kantiano. Il regista sceglie di  restare un po’ nascosto e di mettersi al servizio del testo e dei bravi attori. I temi sono potenti e possono scivolare via se non li si possiede. Il meglio è nemico del bene. Sono queste parole di Shakespeare che risuonano nella mia mente mentre assisto alle ultime scene dello spettacolo. Ognuno dei protagonisti de La pace perpetua ha una diversa idea di Bene. Il bene è il proprio benessere (Odìn), il bene è il dovere (John-John) e il Bene è scegliere di restare umano seguendo la ragione guidata dal cuore (Immanuel). Quale bene sta scegliendo ognuno di noi?

Infine, al momento degli applausi penso: nessuna bellezza salverà il mondo. Neanche la scelta dettata solo dal cuore, tanto auspicata dall’Uomo. Forse il mondo non si salverà. E se ci fosse una minima possibilità sarà data dalle molte scelte individuali di quelli che non verranno a compromessi con la propria umanità. Non si combatte il male con i suoi stessi mezzi. L’unica flebile possibilità di salvezza, anche se tragica, è data dalla non opposizione al male con il male.

Pillole di filosofia, un compendio della filosofia morale da Pascal, attraverso Hobbes fino a Kant: ha detto qualcuno seduto dietro di me.  Forse è così ma questo genere di pillola va giù anche senza zucchero. 

Cauteruccio e la prigionia trentennale di un grande artista

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LAURA NOVELLI | Una delle eredità maggiori che si porta dietro chi come me abbia frequentato il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo de “La Sapienza” parecchi anni fa, è l’insegnamento di grandi storici del teatro come Fabrizio Cruciani e Ferdinando Taviani sui cui saggi critici abbiamo trascorso appassionate ore di studio. La questione centrale era e resta quella della deperibilità del fatto  spettacolare (deperibilità delle opere così come delle operazioni) e, di conseguenza, della ricerca di percorsi storico-critici che ne garantiscano una ricostruzione per lo meno affidabile. Le parole di quelli che considero i miei due maestri mi hanno spesso illuminato a riguardo e mi hanno radicata nella convinzione che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è, e non può essere mai lo stesso visto che non sono mai gli stessi né  l’oggetto né il soggetto del racconto.

L’ho presa un po’ alla lontana per parlare di un libro edito di recente dalla Titivillus (www.titivillus.it) che, dedicato ad un grande maestro della nostra scena contemporanea quale Giancarlo Cauteruccio, indica una strada percorribile, un modo giusto per osservare il passato senza perdere di vista i suoi legami con il tempo presente. Si intitola “Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine” e l’autore è Simone Nebbia, (tra le firme di punta della rivista www.teatroecritica.net) che, attraverso una serie di conversazioni/interviste con lo stesso Cauteruccio, sa trasformare la curiosità in pensiero, parola avvolgente, riflessione allargata e trasversale. Un incontro generazionale dunque. Una conversazione tra ieri e oggi. Un outsider del nostro teatro confida e affida la sua solitudine, la sua posizione proficuamente periferica allo sguardo “accuratamente ingenuo” di uno studioso che non c’era, che non ha visto molti dei lavori di cui parla, e che proprio per questo sa interpretarli a posteriori, partendo dalla contemporaneità.

Architetto di formazione, calabrese di nascita, toscano di adozione (a Scandicci ha fondato e dirige uno spazio multiforme  e poliedrico quale il Teatro Studio), intriso di cultura artistica, filosofica e rinascimentale, sperimentatore indefesso e audace, Cauteruccio ha attraversato, con i suoi spettacoli (cito almeno “Eneide”, “L’ultimo nastro di Krapp”, “Finale di partita”, “Roccu u Stortu”, “Ubu c’è”, “Picchì mi guardi si tu si masculu”), generi, linguaggi, epoche, immaginari, autori, scritture diverse. E il libro di Nebbia accondiscende questi attraversamenti evitando la mera cronologia per prediligere, piuttosto, un taglio tematico che nel corpo centrale del saggio (intitolato “Visioni”) articola la trattazione in tre emblematiche sezioni: “Trittico troiano. Un’opera modulare” (dedicata al lavoro “Crash Tröades” e alle sue varianti), “Un Beckett di Calabria, o della solitudine” (che racconta il felice incontro tra Krypton e la drammaturgia beckettiana intesa soprattutto come impossibilità della rappresentazione) e “Il teatro e la città” (dove si ricostruisce il rapporto stretto tra spazio e corpo, tra visione architettonica e architettura delle parole, tra luogo teatrale e teatro urbano).

Due conversazioni con lo stesso Cauteruccio aprono e chiudono questa ampia indagine critica: la prima dedicata a “La parola politica”, la seconda a “La parola poetica”. Laddove – forse – l’una sembra imprescindibile dall’altra. Ne risulta un omaggio sincero, puro, profondo, che lascia intuire quella esemplare coerenza con se stesso e il proprio percorso artistico che è sempre stata una caratteristica della ricerca di Cauteruccio. La predilezione per l’arte visiva non ha mai, infatti, lasciato nel retrobottega del suo laboratorio creativo il lavoro sui testi, sui temi, sulla lingua madre, sulle grandi questioni umane ed etiche suggerite dai classici cosi come dalla realtà e dalla storia coeva (e anzi, il più delle volte i classici sono assunti a modelli archetipici dove risuona la contemporaneità). L’innovazione tecnologica iniziata negli anni ’80 (basti pensare all’uso del laser in scena), pur nei suoi accenti sfacciati e provocatori, non è mai sganciata dalla riflessione sull’antico, sull’estetica barocca, in particolare sulla luce e sulla luce come verbo.

Il volume, arricchito da disegni dello stesso Cauteruccio e da una prefazione di Franco Cordelli – lui sì spettatore/testimone di tanta storia spettacolare della compagnia – è stato presentato a Roma qualche giorno fa alla Casa dei Teatri (proprio in concomitanza con la mostra/omaggio a Beckett “Prigionie (in)visibili”) e l’incontro – cui hanno partecipato Dario Evola, Giuliano Compagno, Ilaria Fabbri, Paolo Ruffini, oltre ovviamente all’artista e all’autore – ha offerto l’occasione per un confronto tra studiosi, amici, intellettuali, operatori che hanno intercettato nel loro percorso umano e/o professionale la cultura e la sensibilità di teatrante unico nel suo genere. Dal luogo appartato della sua “prigionia”, Cauteruccio ha saputo dialogare con il passato e con il presente. Li ha sovrapposti. Li ha forzati verso linee di fuga coincidenti. Li ha aperti al futuro. Questo libro ripercorre il suo viaggio e dimostra che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è.

Il teatro, la Storia, e l’imboscata del bigino

e-bello-vivere-liberiELENA SCOLARI | Vivere liberi è bello. Eccome. Vivere sicuri di sapere chi sono i buoni e i cattivi è invidiabile. Vivere cercando di essere obiettivi è più difficile. Secondo me.

Ad una certa età il disincanto è frequentazione più assidua che in tempo di gioventù. Disincanto è seduto al nostro fianco al Teatro Verdi di Milano, chissà se ha avuto un omaggio stampa, o forse si è imbucato per vedere lo spettacolo di Marta Cuscunà “È bello vivere liberi”, il titolo che l’ha fatta conoscere e le è valso il Premio Scenario Ustica. L’inizio del lavoro ci piace, Cuscunà è brava, racconta con passione la storia di Ondina Peteani, staffetta partigiana a 18 anni in Venezia Giulia, e tratteggia bene il disegno della nascita di una scuola di comunismo in un piccolo paese del Friuli. L’attrice passa agilmente tra tanti personaggi: donne coraggiose, mamme lungimiranti, soldati burberi e un po’ tonti. La scena è composta solo da un pannello scuro e da un carro merci grigio metallo, ciò darà un bel risalto cromatico ai particolari rossi che la protagonista indosserà.

Man mano che lo spettacolo procede, sbirciamo di sottecchi Disincanto che ci sembra accennare un sorrisetto. Mah, sarà un’impressione. Però cominciamo ad avvertire un po’ di prurito.

Intanto Ondina, ragazza sveglia, ottiene incarichi di responsabilità, anche pericolosi, dai compagni comunisti irrimediabilmente buoni, coraggiosi, altruisti, onesti e leali al contrario dei fascisti (o anche solo dei loro simpatizzanti) che sono invece piattamente cattivi perché meschini, opportunisti, falsi e violenti. Sospettiamo la causa del prurito.

La staffetta partigiana ha una bella storia da narrarci, avventurosa, corre in bici e si addestra ad essere veloce (ma perché con la colonna sonora di James Bond? Sigh…). Arriviamo ad un punto cruciale: la consegna per Ondina e il suo compagno è uccidere un ex partigiano traditore che sta facendo arrestare parecchi elementi della cellula. La scena, francamente non capiamo perché, è realizzata con i burattini, e si risolve in uno sketch da guarattella, l’omicidio si consuma a suon di allegre legnate come nel migliore Pulcinella. Ora, noi saremo ormai all’antica, però ridurre in questo modo la cronaca dell’assassinio di una spia ci è sembrato fuori luogo. Scateniamo dissenso? E scateniamolo.

Marta Cuscunà ci appare attrice e autrice che non ha bisogno di adagiarsi nella troppa semplicità, e diciamo questo a ragion veduta, crediamo, perché la seconda scena con i burattini, la partigiana prigioniera nel lager di Auschwitz, è invece molto bella. Molto. Sa commuovere con una delicatezza che qui sì, è profonda: il carro merci si apre e diventa la cella del campo, la magrissima Ondina Peteani-pupazzo è mossa dalle mani dell’attrice, in guanti di gomma nera che cigolano sinistri, un suono sgradevole e di grande effetto così come la terribile lentezza dei suoi movimenti, deboli perché il corpo è fiaccato dalle privazioni.

Siamo convinti dell’utilità di parlare a teatro della Storia, dei partigiani, della guerra, delle azioni eroiche, del meraviglioso coraggio di ragazzi e ragazze poco più che adolescenti che si sono opposti al regime, e di parlarne anche ai giovani, certo! Come non esserlo? Ma troppo schematismo è rischioso, l’assenza di approfondimento è un’ingenuità che – parlando di Resistenza – è spiacevole. Siamo dell’avviso che la freschezza di Cuscunà e del suo spettacolo non soccomberebbe con un po’ di didascalia in meno e un pizzico di sfumature in più. E Disincanto è d’accordo con noi, ce lo conferma mentre usciamo a braccetto.

Oliva al Litta: menzogna e verità, tra Pirandello e Shoah

sigariVINCENZO SARDELLI | Doppia regia di Alberto Oliva al Litta di Milano, con Il venditore di sigari di Amos Kamil e l’Enrico IV di Pirandello. Due facce della stessa medaglia, l’essere e l’apparire. E il nascondersi. Dietro la lucidità, sferzante e insinuante. Oppure nella riservatezza. Dietro un banco, l’anonimato. Oppure nella follia.

Comunica riflessioni sempre nuove Il venditore di sigari, bel testo dell’israeliano Kamil. Anzitutto il bisogno di indietreggiare di fronte alla Storia, di sospendere il giudizio su vittime e carnefici. O su quelli che, mentre l’Uomo affondava, s’aggrapparono al primo legno per galleggiare.

1947, la guerra è finita, Berlino si prepara alla lacerazione del muro. Ma le divisioni sono prima di tutto nell’anima, in chi prova a ritrovare solidarietà e dignità.

In una tabaccheria dell’ex capitale del Reich s’incontrano tutte le mattine, alle 6.30 in punto, due uomini dal passato intrigante. Gruber, ex soldato tedesco, ne è il gestore; Reiter, ebreo, ex docente universitario, è l’avventore.

Ogni giorno un nuovo round. Reiter attacca, velenoso, tagliente, compiaciuto di scuotere il tabaccaio. Gruber, schivo e introverso, sta in guardia. Oggi però contrattacca, con un crescendo sorprendente.

Il filtro del bancone separa i due. Con le vetrine (di Francesca Pedrotti) per scrutarsi di sottecchi in trasparenza o farsi da specchio. Un’inimicizia corpo a corpo basata sul sospetto. Colpi di vita. Un concentrato di filosofia, teologia e buon senso, alla ricerca di verità autorevoli. Nel tentativo (vano) di fissare torto e ragione, colpa e innocenza.

Una regia sobria. Le luci di Fulvio Melli tratteggiano notte che sfuma e giorno che avanza, voglia di dimenticare e bisogno di ricordare.

Spazio alla parola, gesti essenziali. I protagonisti, Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza, trovano finalmente la propria dimensione attoriale autentica. Incontrano due personaggi che sembrano coincidere con la loro sfera umana e psicologica.

Reiter e Gruber c’inchiodano alle nostre mezze verità. Quando siamo in bilico. E il passato è zavorra che frena il futuro.

A proposito di passato. Proprio a Milano, al Manzoni, fu rappresentato la prima volta, nel 1922, l’Enrico IV con Ruggero Ruggeri. Un testo ancora attuale. Anche se il filone della follia è stato sviscerato nel frattempo in una miriade di sfumature, partendo da Ionesco e Beckett.

Dell’originale pirandelliano Oliva mantiene la struttura classica del genere tragico. Ne riprende il nodo (all’origine c’è una passione amorosa divoratrice), la peripezia (il capovolgimento della situazione iniziale: è proprio il pazzo Enrico a “giocare” i visitatori), il riconoscimento (della follia del protagonista).

Forse per insistere sulla connotazione gratuita e universale della follia, Oliva lascia sullo sfondo la catastrofe, cioè l’uccisione in scena da parte del protagonista del rivale Tito Belcredi (nell’originale Enrico dovrà continuare la parte del pazzo fino alla morte, per eludere le conseguenze di quel reato).

Non c’è catarsi: tutto si svolge sotto un cielo di carta, senza giustizia né destino. Come nel Venditore di sigari, la scena di pannelli girevoli (di Alessandro Chiti, con il contributo di Valentina Bianchi) traccia il confine tra desiderio di stabilità e peso della finzione. Le maschere le troviamo in scena. A nascondere il viso dei cosiddetti “normali”(i costumi sono di Marco Ferrara).

Enrico il pazzo è l’unico a non mascherarsi. Eppure le tracce della follia affiorano sottopelle. Sono un marchio indelebile anche per lui.

Enrico rivela la follia altrui senza liberarsi della propria. Anche questa regia è sobria. Oliva asciuga l’originale riducendone la durata. Focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane ipocrite, sull’incapacità di riconoscersi. Ecco il ricorso a vetrate opache.

Un grigiore diffuso domina la scena. Le luci di Melli rischiarano rari barlumi di verità. Infieriscono con il buio sui meandri della mente, sull’angoscia, sui mostri generati dalla ragione che dorme.

Le musiche e i suoni di Bruno Coli creano belle ma effimere coreografie, con giochi d’ombre, movimenti divertiti o schizofrenici, danze che riproducono cavalcate, cenni di burattini inerti. Il tutto poteva essere potenziato. Ma Oliva non ha osato, per il momento, e va bene così. Incombeva il rischio opposto, di strafare, di eccedere in didascalie. Più spesso le musiche sfumano in sibili, che rendono insensatezza e devianza.

Generosa la prova degli attori (Davide Lorenzo Palla, Giancarlo Latina, Daniele Nuotolo, Sonia Burgarello). Efficace Mino Manni nel ruolo di Enrico.

Per Emma Dante i morti sono vivi tra i vivi

Foto Clarissa Cappellani
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Foto Clarissa Cappellani

LAURA NOVELLI | Ancora una volta Emma Dante ci tira dentro uno struggente quadro di umanità provata dal destino. Ancora una volta la sua Sicilia prorompe in scena con una ritualità ancestrale e violenta. Ancora una volta il sogno diventa incubo, il reale trasborda nel metafisico, la carnalità della lingua insegue un dire/raccontare/urlare sospeso senza tregua tra tragedia e commedia. Ancora una volta il corpo emana una sua verità assoluta e sacra che lo rende espressivo ben più e ben prima delle parole. Con “Le sorelle Macaluso”, ultimo lavoro della drammaturga e regista palermitana proposto al teatro Palladium di Roma nei giorni scorsi (prima di affrontare una lunga tournée ed approdare al prossimo Festival di Avignone), sembra di tornare indietro nel tempo, alla forza di spettacoli come “mPalermu”, “Carnezzeria”, e soprattutto a quell’intenso grumo di poeticità e dolore raccontato in “Vita mia”. Anche qui il tema – se così si può dire – è quello della morte; o meglio, della morte che si mescola alla vita confondendo le carte in gioco, quasi che i veri morti in fondo siano i vivi e quasi che sia impossibile tenere lontano i defunti, i cari estinti, dal quotidiano, dall’esistenza di chi ancora resiste.

Palcoscenico vuoto avvolto in una scatola di quinte nere che, nella loro semplicità, paiono come catafalchi funebri da cui affiorano ombre, drammi, morti premature, soprusi domestici, diversità fragili, legami di sangue compromessi eppure fortissimi. Una società matriarcale (d’altronde sempre al femminile era imbastita la lotta per la sopravvivenza fotografata nel film “Via Castellana Bandiera”) che sceglie per elezione di non separare i ricordi dal presente, i vuoti dai pieni. Sul proscenio: una fila di croci, una fila di scudi e spade rubate al teatrino dei pupi nascondono tombe, fotografie. L’ultimo lutto che ha toccato la famiglia è la scomparsa di Maria, la maggiore, ed è lei che, camicia e pantaloni neri, apre lo spettacolo ballando come una danzatrice classica. Dal fondo poi marcia il gruppo delle sorelle, dei parenti. Tutti neri come corvi minacciosi. Un crocifisso indica prepotentemente il senso di quel marciare, di quel cadere, di quel pianto trattenuto. Le suggestioni si susseguono contrastanti e la storia delle sette sorelle (superbamente interpretate da Serena Barone, Elena Borgogni, Italia Carroccio, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso e Leonarda Saffi), cui si aggiungono un padre redivivo e penoso, un nipote giovane stroncato da un colpo di cuore durante una partita di calcio e una madre eterea ed angelica scomparsa troppo presto (altrettanto bravissimi Sandro Maria Campagna, Davide Celona e Stephanie Taillandier), non può che procedere anch’essa per accostamenti contrastanti, brandelli di memorie in cui spesso le risa – talvolta sguaiate ed ossessive – trascolorano in lacrime di pietra.

La frenesia di una gita al mare con la corriera e il melone abbandonato per strada ecco mutarsi in morte: il gioco perverso sottacqua spalanca i sensi di colpa, trascina quel Fato maledetto (sembrano echi quasi verghiani) dentro le relazioni tra sorelle, le travolge, le fa confliggere. E la morte – declinata in scena anni fa pure in un intenso lavoro di Babilonia Teatri, “The End” – resta immortalata nel suo momento di epifania, diventa danza, gesto ripetuto, sussulto del corpo, tremore impaurito (tanto che l’annegata Antonella continuerà a vivere l’annegamento sino al termine della pièce/cerimonia). Così come nella scena della scomparsa del piccolo nipote malato di cuore: un Maradona tutto muscoli e piroette che cade a terra seguendo la partitura di un pupo senza più fili. Ebbene sì: siamo in un teatrino di pupari che muovono fantocci dalla sorte già segnata. Ma siamo anche in uno specchio impietoso delle nostre paure più ancestrali e profonde: intono a quella tomba filiale di “Vita mia” esorcizzata fino alla negazione; dentro quel thrénos dai richiami classici che trova ragione nel suo essere femminile e materno; dentro lo struggimento di quel tutù soffice che alla fine corona l’amarezza di un sogno mai realizzato. Di nuovo sola in scena, l’ultima defunta della famiglia lo indossa per la sua ultima danza. Che è già al di là della terra. Ma caparbiamente ancora qui.

Uno spettro s’aggira…etica, politica ed estetica del Servitore di Latella

Arlecchino LatellaNICOLA ARRIGONI | Uno spettro si aggira per i teatri italiani: l’Arlecchino bianco, larvale e demoniaco di Roberto Latini e Antonio Latella. Servitore di due padroni, ma a nessuno asservito, se i due padroni sono pubblico e direttori di teatri. Il servitore di due padroni da Carlo Goldoni attraverso la riscrittura di Ken Ponzio e soprattutto la regia di Latella è diventato un caso e la sua analisi, al di là della valutazione estetica, chiama in causa anche l’etica della creatività e la politica del teatro. La possibilità di offrire e in cartelloni di teatri di tradizione il testo goldoniano, consacrato dallo storico allestimento di Strehler, ha fatto breccia nelle sale italiane. 

Come dare torto ad Ert: operazione di vendita più che riuscita.
Ma questo Servitore non s’è fatto più di tanto asservire dalle esigenze degli abbonati e dei direttori artistici che procedono in coppia: i primi tetragoni nelle loro certezze sceniche, i secondi disposti ad assecondare, soprattutto in un periodo in cui avere chi paga in anticipo la propria presenza in teatro rischia di essere una rarità. Il debutto al paludato Goldoni a Venezia e poi a Padova e a Cesena ha suscitato scandalo e timori. Il pubblico venziano non è stato al gioco, non si è riconosciuto nell’Arlecchino di bianco vestito, ha urlato allo scandalo, ha abbandonato la sala.

Alla sollevazione dell’abbonato ha fatto seguito la corsa di delegazioni dei vari teatri per vedere in anticipo lo spettacolo e mettere a punto strategie e approfondimenti al fine di preparare gli spettatori. E’ accaduto al Municipale di Piacenza dove Diego Maj – direttore artistico della stagione – con la collaborazione di Pietro Valenti di ERT ha pensato bene di inviare a tutti gli abbonati un libretto di sala con lettera di accompagnamento, intervista a Latella e spiegazione dello spettacolo. C’è da dire anche che il Servitore di due padroni sta trovando il suo assetto grazie non solo agli interventi di Antonio Latella sulla drammaturgia, ma anche ad una presa in carico dello spettacolo da parte di un gruppo di attori che condividono la volontà di Latella di intendere il teatro come una comunità aperta.

L’orizzonte è rifondare il teatro sulla base della verità/finzione – Una hall d’hotel invece che la piazza – ma cos’altro è una hall se non una piazza? –: questa la scena contemporanea di Annelisa Zaccheria che fin dall’aprirsi del sipario dice una cosa chiara, ossia che le attese dello spettatore sono disattese. Le porte che danno sull’hall ricordano L’albergo del libero scambio, ma sono anche il segno di quella soglia oltre la quale si nascondono le ipocrisie e le debolezze della famiglia borghese del dramma otto-novecentesco.

Il servitore di Goldoni è una commedia che vira al grottesco, se non al dramma, è la storia di un omicidio, quello di Federigo Rasponi, di un camuffamento, quello di Beatrice, di una fuga, quella di Florindo, forse l’omicida di Federigo, di un possibile travestimento/resurrezione dello stesso Federigo nei panni di Arlecchino, che essendo maschera è fantasma, spirito, larva. Non a caso il bellissimo Arlecchino di Roberto Latini è bianco, è somma di tutti i colori e nessun colore.

La riscrittura di Ponzio non lucidissima, a tratti ampollosa nel suo procedere e difficile da dire per gli attori è lo scoglio che attende non solo gli interpreti, ma anche gli spettatori. Latella e i suoi meravigliosi attori fanno il miracolo e riescono a distillarne il portato. Così il Brighella in veste di albergatore del bravissimo Massimo Speziani è una sorta di regista/narratore interno, scardina la struttura e non solo perché legge le didascalie del testo, ma perché è l’officiante di una sfida: cercare la verità fra quinte e riflettori. Come accadde per l’Arlecchino di Strehler, così anche per questo Servitore la prospettiva è tutta sulla semantica teatrale. C’è l’urgenza di rileggere la tenuta del linguaggio scenico nella nostra contemporaneità, è l’esigenza di andare in fondo all’inganno/menzogna del teatro e cercarne la verità recondita. Insomma lo spettatore va a teatro per Il Servitore di due padroni e si ritrova a dover fare i conti con l’ultimo mezzo secolo di teatro. La memoria registica, fra Strehler e Castri, è codice che poi salta e salta nella seconda, bellissima parte, in cui la finzione del teatro si mostra in tutta la sua fragilità, in cui cantinelle e sillabe, sudore e chiodi sono un tutt’uno.

I personaggi sono franti, lo sono nelle loro identità sessuali, lo sono nella impudicizia di una fisicità etero e omo che si traduce in gioco del travestimento che è anche un po’ il travestitismo del nostro tempo. Florindo di Marco Cacciola è un elemento da Grande Fratello con le mani sempre a brandire i genitali, la Beatrice di Federica Fracassi è uno spasso lesbico e ninfomane, con quei baffetti da finto uomo che fanno sorridere, Clarice di Elisabetta Valgoi è un’adorabile isterica in cerca di marito, Silvio di Rosario Tedesco è nel suo costume settecentesco il segno della tradizione, è la memoria di un teatro in costume e descrittivo, Pantalone de’ Bisognosi di Giovanni Franzosi è emblema del padre borghese di tante comèdie bien faite e vaudeville, così come il dottor Lombardi di Annibale Pavone è un manager un po’ improbabile. Alla terrigna e procace Smeraldina di Lucia Perara Riso spetta una tirata moralistica che apre la parte più poetica ed emozionante dello spettacolo.

Così a coro gli attori incoraggiano Arlecchino a fare il famoso lazzo… E Brighella cerca la complicità del pubblico, ma non sono in tanti a pensare al lazzo della mosca di Moretti/Soleri; debole e volatile memoria del teatro! E’ qui che Roberto Latini intesse una lezione agita su Arlecchino, sull’etimologia del nome, sulla sua natura larvale che porta dritto dritto alla mosca e alla descrizione della partitura fisica di quel gioco, di quella variazione di attore inventata da Moretti, ripresa da Soleri e che Latini nella sua ricostruzione ‘a tavolino’ trasforma in danza, in corpo vibrante. L’impressione è che il teatro sia lì, nel corpo dell’attore, in quell’Arlecchino di bianco vestito che si inchina al pubblico servo, ma non asservito.

Pirrotta alle origini: il videoracconto della sua “prima volta”

vincenzo pirrottaVINCENZA DI VITA | Il video che segue è realizzato dagli studenti del Dipartimento di Scienze Cognitive e degli Studi Culturali dell’Università degli Studi di Messina con i quali si è avviato un laboratorio di critica teatrale: Mirko D’Urso, Daniela Milici, Antonella Serra, Luisa Tabbì. L’intervista realizzata con il generoso contributo dell’artista Vincenzo Pirrotta che si è esibito con ‘N gnanzoù, opera prima dell’artista, regista, autore e attore.

A partire da una sintesi dell’incontro tenutosi il 17 novembre 2013 nel corso di “Prima della Prima” iniziativa che ha permesso a studenti, giornalisti, artisti e curiosi di intervenire in un dibattito e confronto con Pirrotta e Mario Spolidoro, musicista, con lui sulla scena; sono nate le riflessioni e le questioni che i giovani critici pongono in essere. Tale intervento è stato mediato dagli organizzatori della rassegna teatrale La Prima Volta, Gigi Spedale, Dario Tomasello, Vincenzo Tripodo, partner del laboratorio, con il contributo di ERSU Messina, in seno agli otto spettacoli svoltisi alla Sala Laudamo di Messina dall’8 novembre al 28 dicembre 2013.

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