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sabato, Maggio 10, 2025
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Ci vediamo all’uscita #3: andateci, per non dargli altre preoccupazioni!

Daria Deflorian_Ph Claudia Pajewski
Lo spettacolo al PIM OFF di MilanoRENZO FRANCABANDERA E MARIA PIA MONTEDURO: Il titolo kilometrico e un po’ inquietante è l’incipit del penultimo romanzo giallo dello scrittore greco Petros Markaris (L’Esattore – 2012) che analizza la situazione, a dir poco drammatica, economico-sociale in cui si dibatte la Grecia. Quattro pensionate si suicidano con dei sonniferi, in una sorta di macabro rituale collettivo, lasciando queste parole sul classico bigliettino di commiato: “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Decidono cioè di farla finita per non pesare più sullo Stato, sulla Previdenza, sulla Sanità, sulla collettività a cui ritengono di sottrarre risorse.

RF: Ciao Maria Pia, bello andare a teatro assieme. Anche se per uno spettacolo di non-teatro? O un non-spettacolo di teatro? Che mi dici?

MPM: Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, assieme a Monica Piseddu e Valentino Villa, effettivamente dovrebbero rappresentare questo dramma, dare spessore alla serena malinconia con cui queste donne lasciano la vita, far capire al pubblico la dignità con la quale le suicide scelgono di uscire di scena. Però no, non ce la fanno…

RF: O almeno fanno la parte di quelli che non ce la fanno.

MPM: Effettivamente raccontano al pubblico come sia frustrante a volte rappresentare qualcosa, svuotarsi delle proprie problematiche – che poi non sono molto diverse e distanti da quelle dei personaggi da interpretare. No, no hanno pronto proprio niente da portare in scena, pur avendo lavorato molto nelle prove, no, no, no. È questa negatività sistematica la parola che risuona all’inizio: la non possibilità, la non capacità, forse anche la non volontà di fingere, di accettare le convenzioni del teatro per la quale una persona – l’attore – veste i panni di un altro da sé e una comunità – il pubblico – accetta questa finzione, se ne interessa, se ne appassiona.
Ma naturalmente la Deflorian & C, per non volere più fingere, continua a fingere: si avverte, pur nella straordinaria recitazione volutamente dimessa e apparentemente non impostata ma spontanea, che è una recita nella recita, una sorta di metateatro al negativo, un linguaggio comunque teatrale che nega se stesso per affermarsi ancora di più.

RF: Ma questa cosa pare già vista? E’ cosa su cui il teatro si interroga da un secolo?

MPM: Beh effettivamente…È la problematica del rapporto attore/testo, attore/pubblico, attore/personaggi che Pirandello genialmente fissò, quasi novant’anni fa, nei Sei personaggi. Lì i personaggi, fuggiti alla fantasia dell’autore, urlavano la loro voglia di portare sulla scena il dramma di cui erano protagonisti, qui gli attori soffrono troppo nel raccontare il tracollo della Grecia, troppo presi da loro problematiche personali e professionali, in primis il non volersi adeguare ed adattare sempre e comunque. Questa volontà di non accettazione Daria e gli altri vorrebbero innanzi tutto esplicitarla nella propria vita di persone, prima ancora che nella professione di attore e poi nel ruolo da interpretare

RF: Bene e allora come mai questo teatro che Pirandello dava per morto, Beckett dava per morto, Kantor non sentiva proprio in salute, continua a vivere e a porsi per giunta le stesse cicliche domande che non pare risolvere in sè? Secondo me la risposta è che muoiono quelli che sostengono le varie tesi mortifere, mentre il teatro sopravvive loro; e così ogni nuova generazione ha poi bisogno di confrontarsi con questa cosa, che magari agli addetti ai lavori pare arci nota e stracotta. E su questo, infatti, più che su altro, si è scatenata una rissa fra critici, con Cordelli (sul Corriere) che dice che si sbaglia Palazzi (su Il Sole24Ore) a ritenere questa “la più radicale sperimentazione” vista da anni sul rapporto persona-personaggio, mentre Porcheddu se ne è venuto fuori con una trovata genial-paracula di grande effetto, la non-recensione del non-spettacolo, in cui però non mi ha spiegato bene se lo spettacolo gli è piaciuto o no. Insomma, il pubblico ha bisogno di giocare con il teatro-non teatro, gli addetti ai lavori parlano di deja vu, e cercano di capire se lo spettacolo aggiunga o meno qualcosa alle riflessioni già fatte. Quindi forse può essere utile dire quello che abbiamo vissuto noi, come esperienza di fruizione individuale. A te che è parso?

MPM: lo spettacolo, apparentemente lento, quasi uno spaccato su pensieri interiori, ha invece una verve e un ritmo assolutamente serrato; l’umorismo e l’autoironia condiscono molte battute, molti scontri verbali tra gli attori: umorismo però, non comicità da far ridere smodatamente molta parte del pubblico…

Daria Deflorian_Ph Claudia Pajewski
Daria Deflorian_Ph Claudia Pajewski

RF: cosa che invece succede, come se occorra da parte dello spettatore esternare un’adesione emotiva oltre quello che si vede, una sorta di overshooting reattivo sistemico di certo pubblico, un po’ ultras, un po’ Curly&Strong. E questo non aiuta lo spettacolo stesso poi a vedere i suoi limiti che pure esistono, anche sul recitato, che deve tenersi in un equilibrio assai difficile da standardizzare e cristallizzare, in quella condizione di falsa verosimiglianza, che onestamente solo la Deflorian indossa con vera disinvoltura. Il plot funziona, il pathos, il finale, ma l’operazione concettuale in sé, per  qualunque appassionato di questioni teatrali, poggia su questioni già analizzate. Questo, diciamolo senza problemi, è un fatto. C’e’ davvero bisogno di questo ricicciare il tutto, seppur con un’intelligenza e un approccio delicato e minimal? E dopo Reality e questo, nel futuro continuerà l’indagine sulla recitazione al bordo fra finzione, teatro, metateatro, alla quale bisognerebbe però meglio addestrare chi v’è meno avvezzo per formazione? Non è che rischiamo che, siccome la cosa piace, poi la technè diventa elemento di decisione determinante nell’approccio alla messa in scena? E lo dico convinto, come sono dell’assoluta buona fede di una donna limpida come Daria Deflorian, che davvero di divistico e paraculo non ha nulla nel suo vissuto artistico. Sono proprio quesiti che faccio qui come farei con lei/loro a tavola davanti ad un bicchiere, nel privilegio che ritengo di avere di poter parlare di arte con chi la fa. 

MPM: Per me Daria Deflorian presenta una riflessione molto attuale sulla difficoltà di sostenere i ruoli, nella vita e sul palcoscenico, e l’inadeguatezza, sempre più diffusa, a reggere situazioni imposte dall’esterno e non sufficientemente interiorizzate e metabolizzate.  A me è parso un esercizio di teatro particolarmente interessante, perché stimola alla disamina della finzione e dell’ambiguità che sono da sempre, e forse per sempre, tra le componenti primarie del rito-teatro.

RF: Quindi dobbiamo rassegnarci ciclicamente a riflettere sulla morte del teatro fatta dal teatro stesso nel teatro stesso, l’autofunerale di cui pure lo spettacolo parla? Quindi è vero che è una questione di generazioni, e che se Pirandello fosse stato immortale magari non avremmo visto “Ce ne andiamo…?” Chissà. Poi, forse in quest’epoca di crisi, la cosa riguarda anche il lavoro dell’attore, che sta per svanire su un fondale nero come uno dei protagonisti di questa storia, schiacciato da  committenti non paganti, cachet trasparenti, sotterfugi e beghe che già loro, che sono in quattro, iniziano a costicchiare, per dirla col programmatore medio che ormai neanche più l’attore e la sedia vuole: a mala pena la sedia. Di sti tempi, chissà quanti teatri ci saranno l’anno prossimo a cui proporsi per replicare. Per questo, fra risse di critici, teatri che chiudono e  spettatori supporter, per farvi la vostra idea vi invitiamo, se capita, ad andarli a vedere i quattro. Verrebbe quasi da dire: Andateci, per non dargli altre preoccupazioni.

Irina Brook, figlia d’arte: «Il mio teatro come una famiglia»

IrinaVINCENZO SARDELLI | Figlia d’arte, Irina Brook. Ma è più corretto dire che nell’arte è immersa h24. Il padre Peter è uno dei principali registi della scena contemporanea; la madre Natasha Parry è una brava attrice cinematografica; il fratello Simon, un filmmaker in ascesa. E non parliamo poi della parentela larga…
Anche per lei la passione si chiama teatro. E prova a moltiplicarsi, più che a dividersi: tra famiglia “di sangue” (è madre di Prosper e Maia, di 14 e 10 anni) e famiglia artistica (i suoi attori); tra l’Inghilterra e la Francia, dove vive adesso. E dove dirige il Teatro di Nizza, città «porta sul Mediterraneo, proiettata verso l’Italia, ma anche vicina a Russia, Inghilterra e Armenia». Così dice, convinta.

Fatto sta che adesso Irina Brook si trova a Milano con la sua giovane compagnia multietnica Irina’s Dreamtheatre per la Trilogia delle Isole, in scena al Teatro dell’Arte tra il 21 novembre e l’8 dicembre: Tempête! L’île des Esclaves e Une Odyssée. Tre storie di vendetta, perdono, amore e libertà. Una trinità letteraria: Shakespeare, Marivaux e Omero.

Signora Brook, qual è il filo conduttore della trilogia?

È l’isola, metafora dello spirito. L’isola è un non-luogo fuori dal mondo. Attrae. Come nel teatro, anche su un’isola tutto è possibile. A livello scenografico c’è poi un’unità simbolica di luogo data da una distesa di sabbia bianca.

È più galvanizzata o preoccupata di arrivare a Milano dopo Bob Wilson, che ha aperto la stagione del Teatro dell’Arte, e dopo suo padre, che tanto successo ha avuto con le sue rappresentazioni?

È mio padre che mi ha trasmesso l’amore per il teatro. Soprattutto l’amore per l’attore-centro di tutto. Non sono spaventata dal confronto. Ci sono abituata. Come potrebbe essere diversamente? Lei ha citato i due maggiori registi del mondo. Io ho bisogno di lavorare per esprimere il mio stile. Voglio condividere la mia idea di teatro. Che è l’umanità, ciò che si distingue dalla vita ordinaria.

Come lavora con gli attori?

Conto non tanto sul lavoro tecnico, ma su come si cresce insieme. È l’evoluzione che importa, nel teatro come nella vita quotidiana. Vita reale e teatro coincidono. Il teatro non è un lavoro impiegatizio. È condivisione. Io e i miei attori siamo una comunità. Il contatto avviene sin dalla cucina, dal dividere il cibo e gli aspetti consueti della vita. Gli spettatori colgono subito che il nostro gruppo è compatto. Che siamo complici. Quello che chiedo a un attore è di mostrare la sua interiorità. Aprirsi senza nascondersi. Il pubblico questo lo vede. Sulla scena non c’è solo l’artista, ma la persona. E la sua personalità.

Qual è il suo segreto?

La delicatezza nei rapporti. La dolcezza nell’apertura alla relazione. Il rispetto totale della persona. Un dialogo vero, senza distacco. E senza trasmettere la paura di sbagliare, che inibisce l’espressività. La compagnia teatrale è una famiglia. È importante scegliere bene le persone con cui si lavora.

Sono importanti anche comicità e ironia?

Moltissimo. L’infanzia con mio padre è stata sempre all’insegna dell’umorismo. Lui è “serio senza prendersi sul serio”. Gli inglesi sono sempre ben disposti verso l’humour. I francesi, invece, sono seriosi. Ad esempio, non ammettono la risata in una messinscena di Shakespeare. Ma ridere, sorridere, non toglie profondità alle cose. Io amo l’ironia. È il cinismo che non mi piace.

Il Web incide sulla capacità dei giovani di accostarsi a uno spettacolo teatrale?

Il teatro è l’antidoto a Internet. È cura del dettaglio e della relazione. Facilita una comunicazione reale. Internet invece isola. Disumanizza. Ma per avvicinare i giovani al teatro occorre offrire loro spettacoli di qualità.

Che cosa Le piace del teatro italiano?

(smorfia sul viso) Devo confessare qualcosa di terribile. Avendo due famiglie, la mia personale e quella teatrale, non ho avuto proprio il tempo di vedere spettacoli negli ultimi anni. Ne ho visto pochissimi anche di francesi. Prometto di recuperare. Rispondo l’anno prossimo.

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Essere uomo e donna attraversando 300 anni di storia: l’ “Orlando” di G. Cassiers

CASSIERS_Orlando3LAURA NOVELLI | Bionda, minuta, diafana, misteriosa: Katelijne Damen appare in palcoscenico prima che  il pubblico si sia sistemato e che le luci si siano abbassate. Basta qualche minuto per capire che da questa attrice vestita di bianco (giubbino in pelle di foggia maschile e ampia gonna dall’aria antica) dipende tutto il fascino, la forza, l’energia, la mutevolezza di “Orlando”, monologo ispirato all’omonimo romanzo di Virginia Woolf (“Orlando. A biography”) e diretto dal regista fiammingo Guy Cassiers. E’ lei (anche autrice dell’adattamento) a catalizzare l’attenzione degli spettatori con i suoi gesti piccoli, a tratti impercettibili; è lei a raccontare la straordinaria avventura umana e storica del protagonista con un’espressività fuggevole e minuziosa, che accompagna delicatamente ogni piega di questo stravagante viaggio nell’ambiguità sessuale e nella ricerca di sé.

La sua recitazione sottoesposta, ma ricca di energia, ci ha ricordato qualcosa dello stile di Giulia Lazzarini (scevro però da declinazioni melodrammatiche), qualcosa di Mariangela Melato (senza le virate espressioniste che le erano proprie) e qualcosa delle interpreti allenate alla scuola di Nekrosius (non per la loro perizia acrobatica quanto per un certo modo di trattare le emozioni anche meno evidenti). Ci ha colpito soprattutto la capacità che Damen ha di anticipare situazioni e sentimenti a livello fisico, accennando un movimento che poi si amplifica o si ripete o assume un significato più chiaro via via che la drammaturgia evolve.

Ad aiutarla in questo c’è l’originale impianto scenico ideato dallo stesso Cassiers: un’avvolgente scatola di immagini proiettate, a terra e sulla parete di sfondo, all’interno delle quali soggetti naturali si alternano a prese in diretta di ciò che succede in scena, soffermandosi spesso su particolari del corpo o del viso dell’interprete e cambiando spesso atmosfera grazie ad efficaci giochi di luce. Un tutt’uno, insomma, con il corpo/voce dell’attrice. Tanto che viene il sospetto che sia la “caverna della mente” la vera materia di indagine di questo raffinato lavoro visto al teatro Vascello in seno al Romaeuropa Festival.

CASSIERS_Orlando6

Ma di quale caverna della mente si tratta? Senz’altro quella dell’autrice inglese, che come è noto dedicò il romanzo alla poetessa Vita Sackville-West da lei stessa amata e ricordata anche per i suoi bizzarri travestimenti maschili. Ma pure quella dell’eroe/eroina descritto/a nel libro, personaggio monster che attraversa trecento anni di storia inglese trasformandosi da protetto della regina Elisabetta I ad ambasciatore nell’Asia Orientale; da ragazzo innamorato della russa Sasha a donna prima girovaga e nomade poi rientrata a Londra per dedicarsi alla poesia e alla letteratura e adattarsi alle tante novità dell’era moderna (siamo appunto nel 1928, anno di pubblicazione del romanzo). C’è però un’altra – più emblematica – caverna della mente messa in gioco in questo spettacolo, ed è quella della Damen: artefice di una riscrittura in vita dell’opera che, assemblando in sé narrazione e azione in prima persona, ci regala un assolo da teatro da camera (e dunque senza dubbio lento e a tratti ripetitivo), ammirabile appunto nei dettagli, nelle sfumature, nei legami tra momento e momento più che tra le cesure e gli scarti.

Quello che è certo è che questo “Orlando” secondo Cassiers/Damen rifugge da ogni tentazione didascalica o illustrativa (come era successo, a nostro avviso, in un lavoro italiano del 2012, “La commedia di Orlando”, interpretato da Isabella Ragonese), così come da ogni reinterpretazione sperimentale del romanzo (ci ha provato di recente Macelleria Ettore con il suo “Stanze di Orlando”) e si attesta tra i grandi – perché onesti e originali – allestimenti “letterari” dell’attuale scena europea.

Il video focus dal Festival di Avignone:

Essere uomo e donna attraversando 300 anni di storia: l' "Orlando" di G. Cassiers

CASSIERS_Orlando3LAURA NOVELLI | Bionda, minuta, diafana, misteriosa: Katelijne Damen appare in palcoscenico prima che  il pubblico si sia sistemato e che le luci si siano abbassate. Basta qualche minuto per capire che da questa attrice vestita di bianco (giubbino in pelle di foggia maschile e ampia gonna dall’aria antica) dipende tutto il fascino, la forza, l’energia, la mutevolezza di “Orlando”, monologo ispirato all’omonimo romanzo di Virginia Woolf (“Orlando. A biography”) e diretto dal regista fiammingo Guy Cassiers. E’ lei (anche autrice dell’adattamento) a catalizzare l’attenzione degli spettatori con i suoi gesti piccoli, a tratti impercettibili; è lei a raccontare la straordinaria avventura umana e storica del protagonista con un’espressività fuggevole e minuziosa, che accompagna delicatamente ogni piega di questo stravagante viaggio nell’ambiguità sessuale e nella ricerca di sé.

La sua recitazione sottoesposta, ma ricca di energia, ci ha ricordato qualcosa dello stile di Giulia Lazzarini (scevro però da declinazioni melodrammatiche), qualcosa di Mariangela Melato (senza le virate espressioniste che le erano proprie) e qualcosa delle interpreti allenate alla scuola di Nekrosius (non per la loro perizia acrobatica quanto per un certo modo di trattare le emozioni anche meno evidenti). Ci ha colpito soprattutto la capacità che Damen ha di anticipare situazioni e sentimenti a livello fisico, accennando un movimento che poi si amplifica o si ripete o assume un significato più chiaro via via che la drammaturgia evolve.

Ad aiutarla in questo c’è l’originale impianto scenico ideato dallo stesso Cassiers: un’avvolgente scatola di immagini proiettate, a terra e sulla parete di sfondo, all’interno delle quali soggetti naturali si alternano a prese in diretta di ciò che succede in scena, soffermandosi spesso su particolari del corpo o del viso dell’interprete e cambiando spesso atmosfera grazie ad efficaci giochi di luce. Un tutt’uno, insomma, con il corpo/voce dell’attrice. Tanto che viene il sospetto che sia la “caverna della mente” la vera materia di indagine di questo raffinato lavoro visto al teatro Vascello in seno al Romaeuropa Festival.

CASSIERS_Orlando6

Ma di quale caverna della mente si tratta? Senz’altro quella dell’autrice inglese, che come è noto dedicò il romanzo alla poetessa Vita Sackville-West da lei stessa amata e ricordata anche per i suoi bizzarri travestimenti maschili. Ma pure quella dell’eroe/eroina descritto/a nel libro, personaggio monster che attraversa trecento anni di storia inglese trasformandosi da protetto della regina Elisabetta I ad ambasciatore nell’Asia Orientale; da ragazzo innamorato della russa Sasha a donna prima girovaga e nomade poi rientrata a Londra per dedicarsi alla poesia e alla letteratura e adattarsi alle tante novità dell’era moderna (siamo appunto nel 1928, anno di pubblicazione del romanzo). C’è però un’altra – più emblematica – caverna della mente messa in gioco in questo spettacolo, ed è quella della Damen: artefice di una riscrittura in vita dell’opera che, assemblando in sé narrazione e azione in prima persona, ci regala un assolo da teatro da camera (e dunque senza dubbio lento e a tratti ripetitivo), ammirabile appunto nei dettagli, nelle sfumature, nei legami tra momento e momento più che tra le cesure e gli scarti.

Quello che è certo è che questo “Orlando” secondo Cassiers/Damen rifugge da ogni tentazione didascalica o illustrativa (come era successo, a nostro avviso, in un lavoro italiano del 2012, “La commedia di Orlando”, interpretato da Isabella Ragonese), così come da ogni reinterpretazione sperimentale del romanzo (ci ha provato di recente Macelleria Ettore con il suo “Stanze di Orlando”) e si attesta tra i grandi – perché onesti e originali – allestimenti “letterari” dell’attuale scena europea.

Il video focus dal Festival di Avignone:

Preghiera – un atto osceno: la malattia letta attraverso la parola

preghiera_ortolani_bartuccaRENZO FRANCABANDERA | Preghiera – un atto osceno, è un lavoro teatrale nato da uno scritto di Margherita Ortolani e che Phoebe Zeitgeist, compagnia milanese, ha deciso di portare in scena affidandone l’interpretazione alla stessa Ortolani e a Vito Bartucca, alter ego, ora complice ora nemico e belva feroce, pronto ad incarnare la stolida violenza dell’universo medicale di cui la drammaturgia parla.

Una donna malata racconta come il traslarsi del suo corpo fra sanità e malattia, corrisponda progressivamente ad un imbestialirsi del rapporto con il lessico e il potere della parola tecnico-scientifica, in un percorso fra umano-troppo umano e disumano che coinvolge sia la forma testuale, ambiziosa tra rimandi ballardiani e post-punk ed epos femminile tragico, sia il il concetto filosofico dell’invocazione laica, concetto primordiale di preghiera, anteriore a quello che la tradizione religiosa ci ha poi tramandato.
La condizione del malato, fra speranze di ritorno ad una vita di spensieratezze e la gabbia della costrizione della malattia, trovano nell’allestimento metafore e rimandi continui, fra sogni e realtà di una ricomposizione all’unità che di fatto appare impossibile nella visione che viene proposta.
La regia, come sempre nei lavori della compagnia, è di Giuseppe Isgrò, con suo fratello Giovanni al suono, e la dramaturg Francesca Marianna Consonni a corroborare il sostrato di pensiero dell’allestimento, con una presenza quasi ideologica assai decisa.

Il gruppo di lavoro ha alle spalle diversi spettacoli e collaborazioni, e ricordo personalmente con emozione il Loretta Strong interpretato da Margherita Ortolani visto in un sottoscala di Viale Monza a Milano, fra le prime ricerche del collettivo. Quel Copi parve davvero audace, la Ortolani un talento naturale, e la regia degna di essere seguita oltre. Le sequenza di parole, le frasi di Loretta, erano intervallate da piccoli suoni, interruzioni, menzioni enfatiche di questo o quell’elemento verbale, in un susseguirsi di parossistiche difficoltà di fruire la lingua senza affogare in una perdita di senso e di sensi evocativa delle più profonde intenzioni di Copi.
Nel seguito, l’approccio di questa poetica all’universo letterario post punk è valso a Phoebe Zeitgeist una serie di ricerche sui codici multimediali, musicali, poetici e letterari che hanno creato una sorta di sintassi del loro teatro, composta di frazionamenti frequenti e costanti e di esplosioni di senso che si concentrano sulla singola parola,  sulla capacità della stessa di diventare conflitto, elemento di crisi con il potere, con la società, con il senso comune, e con il banale.
Nel seguirsi delle proposte, questa sintassi è divenuta via via più stringente e quasi crudele, nel suo declinarsi, trovando sempre in Copi l’autore di elezione fino ai due progetti del 2013: un allestimento dei blues di Tennessee Williams, interpretato fra gli altri dalla stessa Ortolani ed Elena Russo Arman, e ora Preghiera, in collaborazione con il Garibaldi di Palermo. Il primo è in remake, dopo un debutto al Tertulliano nella stagione scorsa, ed approderà all’Elfo, mentre Preghiera, dopo aver debuttato al Garibaldi, è arrivato a Milano in questi giorni all’interno di una rassegna che porta in scena alcune compagnie palermitane, sempre sul palcoscenico dello Spazio Tertulliano.

La chiave dei lavori del biennio 2012-13 di Phoebe Zeitgeist ha due direttrici di analisi a nostro parere rilevanti: la prima è l’indagine quasi ideologica sulla parola. La seconda è quella su segni e simboli della scena. L’evoluzione di queste due componenti sta portando il gruppo a fronteggiare complessità che in scena trovano soluzioni dense, dove l’accumulazione di segni, frazionamenti, continui stop&go, enfatiche declamazioni e declinazioni del “parola per parola”, hanno senz’altro un’efficacia evocativa, ma rischiano di far perdere il sapore unitario del lavoro. E questo rischio a noi pare piuttosto tangibile nella produzione recente, dove l’armamentario “ideologico” sta probabilmente chiamando più spazio rispetto alla leggerezza artistica che il teatro comunque deve conservare, per preservare l’intensità del dialogo dal vivo con lo spettatore, salvo non lo si voglia porre in una condizione non propriamente dialogica ma di ricezione di una modalità netta, tagliente, e in alcuni casi, al limite, anche meno accessibile, con una scelta dal sapore deciso ma che inevitabilmente alla lunga rischia di apparire ripetitiva e poco fluida.

Forse PZ è uno dei pochi gruppi che svolge un’indagine sull’arte contemporanea e su un codice linguistico e letterario-filosofico così strutturata, e questo ci ha fatto da subito sentire grande vicinanza al progetto. Non nascondo la personalissima difficoltà di leggere gli ultimi esiti, questo compreso, e la convinzione che la forma spettacolare, approcciata come una battaglia parola per parola, una guerra casa per casa, possa anche portare a qualche conquista sul concetto e sul ruolo del teatro per il gruppo, ma rischia anche di lasciare alle spalle un panorama simbolico e semantico troppo trafitto, cui lo spettatore guardi poi con algida distanza.
Ovviamente ci saranno casi contrari, di spettatori in lacrime, soggiogati dalle vicende umane della protagonista di Preghiera (bene gli interpreti, anche l’inaspettato Bartucca), ma dovendo dire come l’ho vissuta, nell’onestà profonda del pensiero e del sentimento soggettivo appassionato, ecco, io l’ho vissuta così: concentrandomi parola per parola, sforzandomi di seguire tutto, ma non riuscendo poi a ricordarmi le battute di pochi istanti prima. Un peccato che la parola non possa fermarsi in giusto tempo nella mente di chi la ascolta, e decantare, come la polvere del caffè turco che rilasci lentamente il suo sapore, senza continue rimescolate di cucchiaino, a sconvolgere tutto ad intervalli frequentissimi di pochi minuti.

Balletto Civile: se corpo e anima fanno crash lungo il Brennero

1382106607591brenneroNICOLA ARRIGONI | Balletto civile di Michela Lucenti osa, ricerca, ovvero non si stanca di mettere in tensione il linguaggio coreutico e la semantica teatrale, in modo che queste possano fungere da mezzi espressivi ma anche da strumenti esegetici rispetto al nostro stare al mondo. Dopotutto l’aggettivo ‘civile’ fa riferimento non solo all’impegno ma a uno sguardo che è intensamente legato alla ‘civitas’, alla comunità di viventi – e di morenti, nel caso di Brennero Crash – di cui gli artisti di Balletto Civile sono parte tanto quanto la comunità degli spettatori che accetta le visioni danzate della compagnia. Le origini stesse di Balletto Civile nella compagnia L’impasto – creata a metà anni Novanta da Alessandro Berti e Michela Lucenti – adicono di una volontà di innestare l’azione artistica, il sentire dell’estetica coreutico/teatrale nel cuore della comunità. Accadeva con L’impasto negli spettacoli/laboratori civili come Il quartiere o Antigone ovvero L’Agenda di Seattle, accade oggi per Balletto Civile quando fa esplodere la possibilità della messinscena coinvolgendo gli ospiti delle case di riposo; accade nell’idea di residenza attiva di Balletto Civile all’interno del TeatroDue, laddove la compagnia può lavorare a stretto contatto con le produzioni dello stabile parmense, apportando la propria sensibilità e accrescendo le occasioni di confronto.

Questo contesto si crede necessario per leggere Brennero Crash in una prospettiva non meramente performativa, ma di un percorso coerente, sempre in cerca di un altro possibile, un altro indefinito, che è abbozzo, tentativo di pensiero, immagine e corpo, gesto nello spazio, emozione congelata. Brennero Crash – coproduzione internazionale nata su commissione della Neuköllner Oper – si avvale della drammaturgia di Alessandro Berti, un testo evocativo, un testo che in più punti sembra risentire del fascino dei Giaganti della Montagna di Pirandello nella parte degli abitanti della villa di Cotrone, quegli Scalognati che sono anime in cerca, rifugiati della non vita. E dopotutto cosa sono i personaggi di Brennero Crash se non dei corpi maciullati, delle anime non morte che vagano nel silenzio irreale e illuminati dalle luci delle fotoelettriche e delle sirene di ambulanze e pompieri dopo un incidente lungo l’autostrada del Brennero. In Brennero Crash si respira l’atmosfera di sospensione fra la vita e la morte e non perché la morte non abbia compiuto il suo lavoro, ma forse perché chi è morto non sa ancora di esserlo e cerca brandelli di vita in una stazione di servizio in cui ci sono un benzinaio che affonda i suoi solitari pensieri nell’alcool, la sorella con visioni mistiche che aspetta la Madonna all’incrocio dell’incidente che ha segnato la sua vita e un vecchio transessuale… In quella stazione approdano gli incidentati, una coppia gay e un trio di ragazzi musicisti con un autostoppista a bordo…

Dettagli narrativi questi che se rimangono abbozzi di vita, nell’allestimento curato da Michela Lucenti trovano una loro drammatica bellezza e intensità nella presenza attiva, sofferta e ispirata di un corposo gruppo di danz-attori che non si risparmia, mosso e guidato dall’altera femminilità di Michela Lucenti che a tratti conosce la straziante sacralità della Sgricia nella visione dell’Angelo Centuno. In Brennero Crash l’idea del tempo sospeso di quelle vittime è ciò che lo spettatore si porta via, con immagini dai colori ben denotati, con una ironia e una comicità amara che è gettata lì, che è offerta in pasto grezza allo sguardo dello spettatore. C’è una perdita di direzione, che è una difficoltà a chiudere il cerchio – come spesso accade nei lavori di Michela Lucenti – ma alla fine Brennero Crash rimane impresso e il sentore di un girare a vuoto può somigliare – forse – al girare disorientato di quei corpi maciullati che non sanno cosa sia accaduto e come sia potuto accadere quell’incidente sul Brennero che li ha portati nella villa degli Scalognati: un benzinaio, la sorella mistica e un transessuale…

carbone_brennero-crash2In Brennero Crash si ritrova il percorso ultimo di Balletto Civile, documentato anche nel volume Le parole del corpo curato da Claudia Provvedini in cui passando dal bellissimo Col sole in fronte, liberamente ispirato all’omicidio di Pietro Maso e all’insensatezza di un Nord Est un tempo opulente e benestante – al bellissimo ed energico Sacro della Primavera ferma su carta un lavoro costante di una compagnia che ha fatto delle parole del corpo, in cui danza e teatro si coniugano e si scontrano, si sostengono l’un l’altra per costruire situazioni spesso al limite, in cui testi come L’amore di Ofelia di Berkoff o il Woyzeck di Buchner divengono pretesti affacciati su un abisso in cui essere e presenza sono un tutt’uno in corpi che danzano, cadono, si fanno scrittura dello spazio e dello spirito. Così nel Sacro della primavera succede che i ragazzi di Balletto Civile danzino loro stessi, danzino le solitudini di uomini e donne che sono come frasche mosse dal vento, che sono in balia di tutto e di tutti, che nel giocoso sfidarsi nascondono l’impossibilità di essere adulti, che nella comicità del loro porsi anestetizzano l’angoscia. In questi esiti di felice coralità – raccontati nel volume di Claudia Provvedini – il Balletto Civile vive la propria vocazione al rischio e rende comunque interessante ogni suo azzardo teatrale o coreografico.

Il video realizzato dalla Fondazione Teatro Due di Parma:
http://youtu.be/LrSQxXXGZww

«Le tre sorelle»: il Cechov evergreen di Comteatro

sorelline

VINCENZO SARDELLI | Nessuna etichetta identifica Cechov. Sobrio, modellato sul tragico dell’esistenza umana, lo stile del drammaturgo russo fa pensare a una struttura sinfonica. Senza però che la potenzialità emotiva dei vari temi sia mai interamente sviscerata.

Per questo Cechov dialoga con il presente. E sa creare, ogni volta, nuove rivelazioni.

Paradossale la scelta di Comteatro. Che a nove anni dal Giardino dei ciliegi, canto del cigno del drammaturgo russo, si accosta al suo penultimo lavoro,  Le tre sorelle, di scena al Leonardo di Milano.

La compagnia di Corsico in questo flashback artistico fa propria la complessità dell’autore. Ne preserva il testo integrale, per raccontare il dramma con i colori della commedia.

Le tre sorelle è la vicenda di Andrej e delle sue tre sorelle, Olga, Maṧa e Irina, sullo sfondo della provincia russa. Flirt e innamoramenti sono l’instabile alternativa alla noia. Svanite per tutti le speranze giovanili, matura l’epilogo che fissa un destino grigio.

Sono tredici gli attori affiatatissimi al centro della scena minimalista creata da Anna Bertolotti. La compongono archi da cui cascano veli lambiti da luci sfumate e sottili, notturne o diurne primaverili, che generano colori macchiaioli. I veli diventano porte, gazebo, tende, scenari da casa dismessa.

Girotondi e danze, marce ritmate e movimenti convulsi, evocano un teatro di figura. Dei movimenti tuttavia sfugge lo scopo: sembrano fini piuttosto che mezzi, forse da ricondurre alla volontà di prevenire la stanchezza del pubblico, se si considera il testo articolato in due atti per un totale di due ore e mezza. Dunque, spazio al canto corale, alla chitarra live (la direzione musicale è di Gipo Gurrado), mentre Maṧa-Carola Boschetti è sempre introdotta da malinconici cenni d’armonica leziosi. A fugare gli sbadigli e a rendere piacevole lo spettacolo sono anche le belle coreografie a gruppi in cui i personaggi, in costumi di fine Ottocento (di Alice Di Nuzzo), ammiccano, si attraggono, si respingono. Poi, fiaccole e lumini, mantelli che svolazzano. E la trovata metateatrale di un faro (guidato da Fausto Bonvini) che scolpisce un’umanità ipocrita e oziosa, limitata suo malgrado all’appagamento delle funzioni primarie.

È forte la ricerca di equilibrio in una messinscena dove il regista Claudio Orlandini tempera le derive grottesche e spazia su registi classici dal buffo al solenne alla pantomima.

Nella recitazione misurata ed efficace, con qualche bozzetto, si distinguono Chantal Masserey, Cinzia Brogliato, Carola Boschetti e un Marzio Paioni dall’umorismo gentile. Con loro Paola Casella, Michele Clementelli, Luca Chieregato, Davide del Grosso, Federico Gobbi, Leo Mignemi, Laura Rostiti, Carlo Zerulo e lo stesso Orlandini.

Il viso degli attori, truccato da Beatrice Cammarata, scava nella poetica di Cechov. Narra l’impossibilità del futuro e il vuoto esistenziale. La vita illanguidisce, le parole creano spazio, e si aggrappano all’esistenza per lasciare un graffio.

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“Ti ha fatto ridere?” La risata non arrivata, fra avvertimento e sentimento

Familie FlözRENZO FRANCABANDERA | La frase “Non mi ha fatto ridere” è fra quelle che secondo me devono dare sempre da pensare a chi la riceve, e anche a chi la dice e ne dovrebbe far sempre venire in mente un’altra, fondamentale per l’interpretazione del letterario: “Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”.

La maggiore o minore accessibilità dell’elemento scatenante una dinamica umoristica non è determinante della qualità della medesima. Eppure una delle questioni su cui più facilmente la distinzione in una società complessa si fa evidente è quella su cosa fa ridere. E del prevalere del codice comico sull’umoristico, della superficiale preferenza dell’avvertimento sul sentimento.

Non è una caso che alcuni programmi cult e che sono stati veri spartiacque della cultura massmediatica social-nazionale avessero in sé come centrale la questione della risata comica. Mi vengono in mente programmi come il Drive in degli anni Ottanta, o il Bagaglino degli anni Novanta. Ho persino memoria di uno show televisivo di inizio anni Ottanta, condotto da Franco e Ciccio, con estenuanti gag cui partecipava la non filiforme Luciana Turina, che finivano tutte con lei in braccio a uno dei due, e l’uno che rivolgendosi all’altro diceva: “Lasciamo cadere la cosa?” e l’altro che annuendo diceva “Lasciamo cadere la cosa!”. E la cosa era lei. La signora di Pirandello, esattamente quella, schiacciata sulla prima delle due declinazioni dell’esempio di inizio pezzo.

E anche il Drive In funzionava in fondo così, e trent’anni dopo Zelig o Colorado, con tormentoni e piccole trovate, il cui calibro poetico, ammesso se ne possa misurare l’intensità senza incorrere in ridicole ricerche di coordinate sull’asse delle ascisse e delle ordinate tipo L’attimo fuggente, il cui calibro poetico, dicevamo, era per generale consapevolezza modestissimo. Se non nullo. Quest’ultima circostanza sanciva in genere il grande successo del programma.

L’avventurarsi in questo tipo di dissertazione introduttiva vale la raffica di pensieri all’uscita dallo spettacolo Hotel Paradiso di Familie Flöz, al Massimo di Cagliari. La compagnia è una storica compagine di attori che recitano in maschera dal 1996, e che hanno l’intendimento di narrare, attraverso vicende di una pluralità di personaggi, le questioni della nostra società senza didascalicamente menzionarle ma per indiretta metafora e astratto sentimento. Ma quando uno spettacolo si porta al bordo fra il poetico e la situazione comica, il terreno diventa tipicamente scivoloso e il rischio di finire nello scontato maggiore.

L’avventurarsi vale il tentativo di darsi ragione del perché durante lo spettacolo la spettatrice dietro di me ha riso a scatafascio e io neanche una volta. E che anzi, alla lunga il codice comico (e non umoristico/satirico) che lo spettacolo cercava, in me non incontrava alcuna corda risonante.
Il primo Verdone, giusto per calibrare le convergenze della mia risata, mi faceva ridere. L’ultimo no. Mai.
Preferisco Woody Allen a Mr. Bean.
La commedia all’italiana mi faceva (e fa, pur dopo mille e mille visioni) ridere. I b-movies no (anche se sto rivalutando la scorreggia e non sono contrario alla riabilitazione di Banfi).
Monty Python (almeno nei primi loro film) mi facevano ridere. Benny Hill molto meno.

Mi sono chiesto anche se fossi un infelice perché durante Hotel Paradiso non ridevo della vecchia proprietaria che bacchettava a ritmo, col suo bastone, gli impiegati dell’immaginario hotel per le loro sciocchezze infantili, o delle piccole trovate, situazioni, che scatenavano la risata comica. O se invece fossi un felice perché questo tipo di cose mi erano totalmente indifferenti, tanto che la loro sommatoria si è approssimata per me all’asintoto funzionale della noia. E che a poco valevano episodici tentativi di levità poetiche che tuttavia mai erano in grado di riscattare l’andamento complessivo del lavoro.

Turina Franco e CiccioNé varrebbe dire quali sono le determinanti di questo limite, che consta forse di noiosissime sovrastrutture, armamentari ideologici, ma anche di immaginazioni e immagini fresche. E queste ultime poco, in onestà,ricorrevano durante lo spettacolo. Che era fatto di sequenze abbondantemente viste e riviste in sit-com, film e altro genere di comicità di maglia più larga, da cui in genere mi tengo volutamente lontano.

Proprio per questo lo spettacolo ha lasciato un senso di fastidio inspiegabile. Perché ero andato con l’ardente desiderio di ridere, sorridere, immaginare secondo il mio codice, quello che più familiare, mentre mi sono trovato in una sequenze di gag e situazioni da commedia degli equivoci, da vaudeville moderno, e da cabaret senza slanci.
Poi tornato a casa Pirandello ci ha tranquillizzato.
Per questo l’avventurarsi in questo tipo di dissertazione, in fondo non ha molto senso, perché dovremmo spiegare il perché di una risata e dire di quella differenza, e del perchè si ride dell’umoristico e non del comico. Una questione solo in apparenza facile. Avremmo dovuto confrontarci, col vicino di poltrona, con un vissuto che sempre mi lascia con il desiderio di non dover ridere per l’avvertimento del contrario, ma attivare lo schema della riflessione, per passare dall’avvertimento al sentimento.
Sono sicuro che a una larga parte di lettori il confuso dissertare delle righe sopra dica qualcosa. A molti altri no. Ai primi, elitariamente o meno, pirandellianamente o meno, si rivolge il mio invito, potendo scegliere loro fra la sala e una passeggiata, a preferire, nel caso di Hotel Paradiso, e in caso di identità di vedute/risate, i due passi. Non perche’ un brutto spettacolo in assoluto. Non e’ nemmeno questo in discussione, vista la cura dei particolari, le luci, le scene. Ma semplicemente perche’ per me questo spettacolo non faceva ridere. Né sorridere. Né ghignare. Né sghignazzare. Niente. Perchè ha solo provato ad avvertirmi.

"Ti ha fatto ridere?" La risata non arrivata, fra avvertimento e sentimento

Familie FlözRENZO FRANCABANDERA | La frase “Non mi ha fatto ridere” è fra quelle che secondo me devono dare sempre da pensare a chi la riceve, e anche a chi la dice e ne dovrebbe far sempre venire in mente un’altra, fondamentale per l’interpretazione del letterario: “Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”.

La maggiore o minore accessibilità dell’elemento scatenante una dinamica umoristica non è determinante della qualità della medesima. Eppure una delle questioni su cui più facilmente la distinzione in una società complessa si fa evidente è quella su cosa fa ridere. E del prevalere del codice comico sull’umoristico, della superficiale preferenza dell’avvertimento sul sentimento.

Non è una caso che alcuni programmi cult e che sono stati veri spartiacque della cultura massmediatica social-nazionale avessero in sé come centrale la questione della risata comica. Mi vengono in mente programmi come il Drive in degli anni Ottanta, o il Bagaglino degli anni Novanta. Ho persino memoria di uno show televisivo di inizio anni Ottanta, condotto da Franco e Ciccio, con estenuanti gag cui partecipava la non filiforme Luciana Turina, che finivano tutte con lei in braccio a uno dei due, e l’uno che rivolgendosi all’altro diceva: “Lasciamo cadere la cosa?” e l’altro che annuendo diceva “Lasciamo cadere la cosa!”. E la cosa era lei. La signora di Pirandello, esattamente quella, schiacciata sulla prima delle due declinazioni dell’esempio di inizio pezzo.

E anche il Drive In funzionava in fondo così, e trent’anni dopo Zelig o Colorado, con tormentoni e piccole trovate, il cui calibro poetico, ammesso se ne possa misurare l’intensità senza incorrere in ridicole ricerche di coordinate sull’asse delle ascisse e delle ordinate tipo L’attimo fuggente, il cui calibro poetico, dicevamo, era per generale consapevolezza modestissimo. Se non nullo. Quest’ultima circostanza sanciva in genere il grande successo del programma.

L’avventurarsi in questo tipo di dissertazione introduttiva vale la raffica di pensieri all’uscita dallo spettacolo Hotel Paradiso di Familie Flöz, al Massimo di Cagliari. La compagnia è una storica compagine di attori che recitano in maschera dal 1996, e che hanno l’intendimento di narrare, attraverso vicende di una pluralità di personaggi, le questioni della nostra società senza didascalicamente menzionarle ma per indiretta metafora e astratto sentimento. Ma quando uno spettacolo si porta al bordo fra il poetico e la situazione comica, il terreno diventa tipicamente scivoloso e il rischio di finire nello scontato maggiore.

L’avventurarsi vale il tentativo di darsi ragione del perché durante lo spettacolo la spettatrice dietro di me ha riso a scatafascio e io neanche una volta. E che anzi, alla lunga il codice comico (e non umoristico/satirico) che lo spettacolo cercava, in me non incontrava alcuna corda risonante.
Il primo Verdone, giusto per calibrare le convergenze della mia risata, mi faceva ridere. L’ultimo no. Mai.
Preferisco Woody Allen a Mr. Bean.
La commedia all’italiana mi faceva (e fa, pur dopo mille e mille visioni) ridere. I b-movies no (anche se sto rivalutando la scorreggia e non sono contrario alla riabilitazione di Banfi).
Monty Python (almeno nei primi loro film) mi facevano ridere. Benny Hill molto meno.

Mi sono chiesto anche se fossi un infelice perché durante Hotel Paradiso non ridevo della vecchia proprietaria che bacchettava a ritmo, col suo bastone, gli impiegati dell’immaginario hotel per le loro sciocchezze infantili, o delle piccole trovate, situazioni, che scatenavano la risata comica. O se invece fossi un felice perché questo tipo di cose mi erano totalmente indifferenti, tanto che la loro sommatoria si è approssimata per me all’asintoto funzionale della noia. E che a poco valevano episodici tentativi di levità poetiche che tuttavia mai erano in grado di riscattare l’andamento complessivo del lavoro.

Turina Franco e CiccioNé varrebbe dire quali sono le determinanti di questo limite, che consta forse di noiosissime sovrastrutture, armamentari ideologici, ma anche di immaginazioni e immagini fresche. E queste ultime poco, in onestà,ricorrevano durante lo spettacolo. Che era fatto di sequenze abbondantemente viste e riviste in sit-com, film e altro genere di comicità di maglia più larga, da cui in genere mi tengo volutamente lontano.

Proprio per questo lo spettacolo ha lasciato un senso di fastidio inspiegabile. Perché ero andato con l’ardente desiderio di ridere, sorridere, immaginare secondo il mio codice, quello che più familiare, mentre mi sono trovato in una sequenze di gag e situazioni da commedia degli equivoci, da vaudeville moderno, e da cabaret senza slanci.
Poi tornato a casa Pirandello ci ha tranquillizzato.
Per questo l’avventurarsi in questo tipo di dissertazione, in fondo non ha molto senso, perché dovremmo spiegare il perché di una risata e dire di quella differenza, e del perchè si ride dell’umoristico e non del comico. Una questione solo in apparenza facile. Avremmo dovuto confrontarci, col vicino di poltrona, con un vissuto che sempre mi lascia con il desiderio di non dover ridere per l’avvertimento del contrario, ma attivare lo schema della riflessione, per passare dall’avvertimento al sentimento.
Sono sicuro che a una larga parte di lettori il confuso dissertare delle righe sopra dica qualcosa. A molti altri no. Ai primi, elitariamente o meno, pirandellianamente o meno, si rivolge il mio invito, potendo scegliere loro fra la sala e una passeggiata, a preferire, nel caso di Hotel Paradiso, e in caso di identità di vedute/risate, i due passi. Non perche’ un brutto spettacolo in assoluto. Non e’ nemmeno questo in discussione, vista la cura dei particolari, le luci, le scene. Ma semplicemente perche’ per me questo spettacolo non faceva ridere. Né sorridere. Né ghignare. Né sghignazzare. Niente. Perchè ha solo provato ad avvertirmi.

Il Caligola di Micol nel centenario di Albert Camus

caligolaVINCENZO SARDELLI | Il rapporto tra uomo, potere e immaginazione. Il delirio di chi, dal potere, si lascia corrodere. C’è la forza sublime del male e della violenza nel Caligola di Albert Camus che la compagnia Teatro Zeta dell’Aquila ha portato in scena al Binario 7 di Monza con la regia di Pino Micol. C’è il bisogno d’amore, sublime e angosciante più della violenza.
È un testo che contagia questo Caligola. Vogliamo soffermarci su Camus, sulla sua poetica intrisa di venature filosofiche. È il nostro modo di ricordarlo, a cent’anni dalla nascita.
Caligola, dunque.
Parigi 1941. Tempesta atmosferica e deflagrazione bellica. Lampi, tuoni, pioggia battente, fulmini; granate, spari, rinculi d’arma da fuoco. Sono laceranti le luci e i suoni di contorno alla scena, cui fanno da contrappunto le musiche lievi originali di Massimo Bizzarri, arie sacre d’organo e gorgheggi.
Siamo dentro un teatro. Una compagnia rappresenta la pièce, in una scenografia dal carattere domestico. L’arte è antidoto all’arroganza sanguinaria di Hitler.
Doppio binario, insomma: da una parte la guerra presente, la follia di Hitler, la Francia occupata dalle truppe tedesche; dall’altra una storia del passato rappresentata su un palcoscenico, che del presente diventa metafora e chiave di lettura.
In questo Caligola, Camus scandaglia la figura del tiranno in lotta contro i senatori, l’uomo affranto per la morte della sorella e amante Drusilla. Sono le alte passioni, l’ambiguità di chi si rimette la maschera e torna ad amare, la considerazione di quanto sia effimera la felicità, per il sovrano come per l’uomo comune.
Di fronte all’irrazionalità della vita, Caligola impone il gioco dell’assurdo. Nell’arbitrio sfrenato moltiplica crimini e misfatti, in un orizzonte indefinito tra il bene e il male.
La forza di questo dramma sta nella bellezza del testo, nell’intreccio tra poesia, sogno e azione. Tutto è alla mercé del caso. L’amore stesso è relativo, s’infila nella variabile tempo/morte.
La parola trafigge la ragione. Il senso dell’assurdo affiora continuamente. L’eloquio di Caligola si caratterizza per una serie di domande aperte che definiscono la complessità del personaggio. È quasi un’autolegittimazione: per quest’uomo si prova compassione, non disprezzo.
La morte, potenza divina e rivelatrice, attende Caligola, e prima ancora la sua amante Cesonia, che sprofonda nell’impotenza. Caligola, al termine di un avvincente climax di follia, riscatta con una morte coraggiosa una vita sciagurata.
La regia di Micol esalta la forza di questo dramma: movimenti da animali feriti e brancolanti, pose statuarie, nascondimenti. Ogni movimento ha un’anima. Tutto è rigore, classicità lontana da derive accademiche.
Micol riduce i dettagli descrittivi concentrandosi sui volti e sulle emozioni dei personaggi, in una serrata sequenza di ombre e di luci, senza esibizione. Con atmosfere tra Caravaggio, Reni e Hayez, con illuminazioni da espressionismo cinematografico tedesco, anche noi finiamo in scena, testimoni dei fatti narrati. Questa immediatezza, la volontà di rompere lo schermo che separa l’arte dalla vita, è forse l’aspetto più forte dello spettacolo. Micol rispetta Camus, stringe la scena intorno alle figure e agli oggetti essenziali, si concentra sull’immutabilità delle passioni, rompe le variabili spazio/tempo.
Angoscia e tenerezza, sacrificio e peccato, orrore e bellezza: Caligola colpisce perché parla di noi. Agisce nel presente come i miti classici, le terzine di Dante, i personaggi di Shakespeare.
Buona la prova di tutti gli attori (Massimiliano Cutrera, Ezio Budini, Gabriele Anagni, Nicola Ciccariello, Andrea Palladino, Valerio Giordano). Con Manuele Morgese-Caligola istrionico, capace di esprimere l’attimo, le smorfie subitanee dell’imperatore, ai cui deliri dà voce, corpo e occhi. E una Maria Letizia Gorga-Cesonia le cui pose vanno dall’espressività tranquilla di Cleopatra alla drammaticità della Maddalena, con incursioni canore nella lirica.

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