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sabato, Maggio 10, 2025
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La decostruzione di un amore: Cosentino e Artaud mendicanti di teatro

cosentino_schedaRENZO FRANCABANDERA | Arrivi ad un certo punto che inizi a guardare l’insieme delle riflessioni sulla tua arte come un caleidoscopio in cui c’è l’immagine e poi i mille frammenti, spesso ripetitivi, che la compongono. E inizi a giocare a far perdere di senso all’immagine grande andando a decomporla nelle singole parti.
E finisci per capire che dopo questo processo dall’alto al basso, ne inizia un altro dal basso all’alto capace di ridare senso all’arte che praticavi ma con la leggerezza dell’informale.
Tutto diventa leggerissimo e inconsistente. Così rispetto a questo mondo, che altro potrebbe fare chi ne ha postulato l’essenzialità se non mendicare qualcosa? L’Arte povera, tanto povera che quando entri sembra di stare davanti alla Venere degli stracci di Pistoletto. Solo che al posto della Venere c’è uno scheletro e al posto degli stracci una serie di oggetti di risulta, quasi una piccola discarica teatrale, dalla quale Andrea Cosentino attingerà di volta in volta il necessario per realizzare micro-sequenze in nonsense.

Questa prospettiva ancor meglio si legge ripercorrendo il viaggio artistico di Cosentino à rebours, dove già il dialogo massmediologico, il format, il codice veniva decostruito, reso più finto del finto. Oltre Telemomò cosa poteva esserci? Ecco, lo sappiamo ora, in un melange estremo fra i micro sketches nonsense di Telemomò, le finte conferenze e i personaggi del teatro “locale” di Primi passi sulla luna e Angelica.
In realtà forse il Cosentino, come direbbe uno dei suoi conferenzieri da strapazzo, vuole, con questo capriccio d’arte, prendere le distanze non solo concettualmente ma persino fattualmente del tragico gorgo del teatro di narrazione cui evidentemente in maniera del tutto erronea e “imbroppria” la sua forma spettacolare è stata da taluni ascritta (cfr addirittura la voce Andrea Cosentino su Wikipedia).
“Tuttavia Cosentino arricchisce e fonde -per dirla sempre con il redattore della wikinote- il narrare scenico con”.
E infatti anche qui, attraverso l’impoverimento di cui si è fatto cenno, Cosentino arricchisce e fonde.

Sull’esperimento Esercizi di rianimazione le voci critiche si sono levate discordi. Pare che l’esordio romano, sempre in un’aura di compiacimento per l’arguzia e le trovate dell’artista, sia un po’ andato fuori binario rispetto all’icasticità del segno scenico e del gesto artistico.
Nella lectio spectacularis presentata la settimana scorsa a Milano al teatro della Contraddizione, tuttavia, tale deriva estrema è parsa riassorbita in nome di una fruibilità rimasta viva, e finanche lirica in un finale che rompe il gioco, lo schema della depauperazione per tornare alla costruzione di senso dal basso. Si sghignazza fra sé e sé, capendo delle allusioni, cogliendo qui e lì, navigando a vista o vedendo navigare.

Che possiamo allora dire di questa operazione che vede Cosentino con Bruno De Franceschi al pianoforte a fare da live soundtrack? E’ una minestra sicuramente nata da evidenze raffinate e sofisticate, citazioni e metacitazioni fra Bene e male dell’arte scenica, teatro e metateatro. Che proprio quando potrebbe rischiare di sembrare una broda indigesta, riesce a recuperare la deriva nonsense attraverso il potere lirico della parola.

E del concettuale, che vogliamo dire del concettuale? Ecco, qui il rischio è in agguato. E’ tutto questo accessibile e non a volte autoreferenziale? L’arte che parla di sè a sé è un codice accessibile e democratico nell’idea di fondo? Su questo Cosentino sta svolgendo ulteriori riflessioni, prendendo come spunto la figura della dea del marketing performativo Marina Abramovic. Attenzione però a non mettere al centro solo il linguaggese, perché il rischio di finire su un binario cerebrale è sempre in agguato, e oltre questo esperimento, e nel tentativo di rifuggire dalla narrazione tal quale, il periglio è di avvitarsi in spirali che sicuramente il conferenziere cosentiniano non definirebbe mai “pippologiche”, ma la possibilità che lo siano c’è.

Detto questo Esercizi di Rianimazione è da vedere. Perché di roba intelligente e critica in giro non ce n’è molta. E anche non capire tutto serve. In scena come nella vita.
E dura molto meno della vita.

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Pasolini: mentore e guida di V. Pirrotta

pirrotta MARIA PIA MONTEDURO | La forza della parola, dell’esposizione pre-letteraria, del racconto, del cunto, la narrazione antica che è giusto far risalire ad Omero e agli aedi. La cultura che Vincenzo Pirrotta, autore, attore e regista siciliano ha respirato assieme al suo ricchissimo dialetto palermitano, è una cultura antica, piena di suggestioni vocali e parlate, urlate se necessario, frutto di una tradizione che Pirrotta vuole coraggiosamente conservare e tramandare, e ci riesce. “Dietro la collina” – spettacolo inserito nella stagione “a quattro mani” intitolata Dominio Pubblico, con la quale quest’anno a Roma il Teatro Argot Studio e il Teatro Orologio hanno iniziato intelligentemente a collaborare – è un omaggio intimo alle proprie radici e, insieme, un omaggio civile alla straordinaria figura di Pier Paolo Pasolini, qui rappresentato come simbolo e segno di coscienza civica ed etica, insostituibile mentore nella traversata della vita. Pirrotta si è formato con Mimmo Cuticchio e alla scuola dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e queste due coordinate guidano il suo teatro: la straordinaria tradizione del cunto e dei cantastorie, dei pupari e delle feste di paese, insieme a una forte connotazione colta e di ampia e approfondita conoscenza del mondo classico, con i suoi miti e la sua straordinaria attualità.
Pirotta racconta di se stesso bambino prima, adolescente poi, che scopre, grazie al carisma del nonno comunista, la potenza e la forza eversiva della cultura, intesa come possibilità di guardare al di fuori dei propri orizzonti, di volare oltre gli steccati di un piccolo paese di provincia (ma in tal senso tutta l’Italia diventa provincia). Ossessionato da quello che gli veniva detto in famiglia e in paese quando voleva prendere decisioni autonome rispetto agli standard diffusi (“Andrai all’inferno”) il giovane Pirrotta, sulla scia di esempi ben noti e illustri, inizia a fare il classico viaggio negli inferi e scopre, con sconfinato piacere, che lo accompagna Pier Paolo Pasolini. Di quest’autore in casa non si poteva parlare, ma il nonno, quasi di nascosto, ne leggeva avidamente i libri, lasciati poi in eredità al nipote, affinché potesse essere anche lui instradato sulla via della coscienza di sé e del mondo da cambiare.
“All’ombra della collina” è una produzione presentata a Roma per la prima volta al Teatro Argot, pur se non è un testo recente. È lo stesso Pirrotta a far notare come questo testo, scritto e recitato in strettissimo dialetto di Partinico, sia di difficile rappresentabilità, riportando anche il giudizio che anni fa Franco Quadri aveva espresso sul testo, pur dandone un giudizio positivo. Perché l’autore ci mette proprio di tutto: quattro cinque cori con rispettive corifee, cambi di fondale, personaggi che affollano il palcoscenico. Ma la magia dello spettacolo, della grande narrazione appunto, consiste nel fatto che di tutto ciò lo spettatore è informato dallo stesso attore che cambiando voce, tono, modalità d’emissione del suono, mimica, postura eccetera, diventa coro, fondale; egli parla come Pirrotta ragazzo e come Pasolini, senza stancare o far distrarre lo spettatore che è soggiogato dalla magia di un suono e di un corpo che sa essere la voce melliflua di un pretino, voce tonante del nonno, voce convincente del poeta friulano, voce curiosa del giovane protagonista. Ma anche fisicità della campagna palermitana prima e dell’inferno poi, della cantina in cui sono nascosti i libri di Pasolini e della piazza del paese con il bar, da cui i borghesucci del luogo sentenziavano, con arrogante supponenza, che il ragazzino Vincenzo Pirrotta, continuando nella sua fissazione di voler fare teatro, sarebbe sicuramente “finito all’inferno”…
Per saperne di più:
www.dominiopubblicoteatro.it
www.vincenzopirrotta.it

Peter Brook e l’ultimo flauto magico

980x500_PETER-BROOK_UN-FLAUTO-MAGICOANDREA CIOMMIENTO | La singspiel di Mozart si fa testamento scenico della lunga vita artistica di Peter Brook. Non c’è più nulla da nascondere in teatro e il suo “Flauto Magico” delinea un allestimento essenziale dal tratto scenico immediato, intessuto di parola detta e verso in canto. C’è il quieto Tamino che s’innamora di Pamina attraverso il ritratto, c’è il viaggio alla conquista della bella rapita dall’oscuro Sarastro; c’è anche la Regina della Notte, Papageno, il flauto, la campanella e le iniziazioni, ma quel che lascia il segno è ancora una volta la scena aperta di Brook.

Questo è l’ultimo lavoro del regista che, a sua voce, sospenderà la direzione di altri nuovi lavori. Lo spettacolo non manifesta la grandiosità mitica della partitura mozartiana ma piuttosto una vivace sobrietà visiva che amplia lo sguardo sull’opera liberamente adattata dallo stesso regista insieme a Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne.

Niente scenografia e orchestra: solo canne di bambù, teli di seta e pianoforte. La geometria sollecita l’immaginazione dello spettatore attraversando paesaggi drammaturgici che accendono e illuminano sottraendosi all’artificio. La rinuncia allo sfarzo preserva altresì la ricchezza d’attore e le relazioni che ognuno di essi genera nell’incontro con gli altri. Tutto da custodire a futura memoria. Ora lo spazio si allarga e si restringe in una mappatura dinamica determinata dagli stessi attori che creano dramma in una dimensione progressiva, maneggiando i cannicci scenografici come porte e confini da attraversare, cornici di stanze intime, sentieri di foresta, porte del tempio. Sembra quasi improvvisino con maestria consapevole in questa scacchiera per un metodo di creazione dove il testo, la drammaturgia, è solo un mero pretesto.

In cento minuti senza intervallo il pubblico è testimone di una fiaba d’amore pervasa di desiderio e vita, discernimento del bene e del male, e paura della morte. È la storia del tempo che si rincorre, delle ore pronte a cedere ad altre ore; una luce alla ricerca di un altro occhio che cambi direzione. È un flauto semplice e non pretenzioso, liberato e protetto da veli registici che riparano. Questo libero arbitrio spalanca le porte alla scena scostando la forma tradizionale dell’opera lirica e della convenzione, e facendo respirare.

Lo spettacolo, debuttato nel 2010 e prodotto dal Bouffes du Nord di Parigi, porta in scena due cast in alternanza, sette giovani cantanti e attori di etnie differenti con una fisicità propria e gustosamente riconoscibile. Giocano al teatro con serietà brookiana restringendo il campo della finzione a un patto di sincerità unica nei confronti del loro pubblico. Una testimonianza vitale di cosa significhi essere “presenti al presente”, ci direbbe il Maestro.

Visto al Rossetti di Trieste:

Peter Brook e l'ultimo flauto magico

980x500_PETER-BROOK_UN-FLAUTO-MAGICOANDREA CIOMMIENTO | La singspiel di Mozart si fa testamento scenico della lunga vita artistica di Peter Brook. Non c’è più nulla da nascondere in teatro e il suo “Flauto Magico” delinea un allestimento essenziale dal tratto scenico immediato, intessuto di parola detta e verso in canto. C’è il quieto Tamino che s’innamora di Pamina attraverso il ritratto, c’è il viaggio alla conquista della bella rapita dall’oscuro Sarastro; c’è anche la Regina della Notte, Papageno, il flauto, la campanella e le iniziazioni, ma quel che lascia il segno è ancora una volta la scena aperta di Brook.

Questo è l’ultimo lavoro del regista che, a sua voce, sospenderà la direzione di altri nuovi lavori. Lo spettacolo non manifesta la grandiosità mitica della partitura mozartiana ma piuttosto una vivace sobrietà visiva che amplia lo sguardo sull’opera liberamente adattata dallo stesso regista insieme a Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne.

Niente scenografia e orchestra: solo canne di bambù, teli di seta e pianoforte. La geometria sollecita l’immaginazione dello spettatore attraversando paesaggi drammaturgici che accendono e illuminano sottraendosi all’artificio. La rinuncia allo sfarzo preserva altresì la ricchezza d’attore e le relazioni che ognuno di essi genera nell’incontro con gli altri. Tutto da custodire a futura memoria. Ora lo spazio si allarga e si restringe in una mappatura dinamica determinata dagli stessi attori che creano dramma in una dimensione progressiva, maneggiando i cannicci scenografici come porte e confini da attraversare, cornici di stanze intime, sentieri di foresta, porte del tempio. Sembra quasi improvvisino con maestria consapevole in questa scacchiera per un metodo di creazione dove il testo, la drammaturgia, è solo un mero pretesto.

In cento minuti senza intervallo il pubblico è testimone di una fiaba d’amore pervasa di desiderio e vita, discernimento del bene e del male, e paura della morte. È la storia del tempo che si rincorre, delle ore pronte a cedere ad altre ore; una luce alla ricerca di un altro occhio che cambi direzione. È un flauto semplice e non pretenzioso, liberato e protetto da veli registici che riparano. Questo libero arbitrio spalanca le porte alla scena scostando la forma tradizionale dell’opera lirica e della convenzione, e facendo respirare.

Lo spettacolo, debuttato nel 2010 e prodotto dal Bouffes du Nord di Parigi, porta in scena due cast in alternanza, sette giovani cantanti e attori di etnie differenti con una fisicità propria e gustosamente riconoscibile. Giocano al teatro con serietà brookiana restringendo il campo della finzione a un patto di sincerità unica nei confronti del loro pubblico. Una testimonianza vitale di cosa significhi essere “presenti al presente”, ci direbbe il Maestro.

Visto al Rossetti di Trieste:

Laura Morante torna a teatro: batticuore in fuoriserie

the country andoRENZO FRANCABANDERA | Dopo una giornata in giro per visite mediche, Richard torna a casa portando con sè una ragazza trovata svenuta sul ciglio della strada. Corinne, sua moglie, è intenta a ritagliare foto dal giornale e gli parla stancamente del più e del meno, e non immagina ancora che la notte sta per prendere una piega piuttosto vivace.
Richard è il sempre preciso e impeccabile Gigio Alberti, Corinne è la brava e nota attrice Laura Morante, che torna al teatro dopo tanto cinema, e la ragazza svenuta, Stefania Ugomari Di Blas, il cui talento esplode finalmente in un ruolo adeguato, si rivelerà essere l’amante di Richard che lui ha celato alla moglie per anni e che, mentre Richard deve uscire di casa per una visita urgente, racconterà alla moglie tutto il retroscena della loro relazione di cui lei è all’oscuro.
Una vicenda che, come subito si intende, ha tutti gli ingredienti di conflitto per funzionare: il triangolo, il confronto generazionale fra donne, le relazioni esauste. Ci sono testi a cui basta anche solo uno di questi spunti per girare ad orologeria…
Figuriamoci poi se il combinato disposto è messo insieme da un drammaturgo di talento, come Martin Crimp in “The country”: Crimp, come molti altri drammaturghi della scuola britannica radunati a fine anni Novanta nella fucina del Royal Court, viene definito, onestamente non sempre a caso, esponente di quella corrente drammaturgica che prende il nome di “in-yer-face”, per la crudezza, la parola diretta, senza scampo, a volte politically uncorrect.
E certamente è uncorrect la giovane amante che racconta, alla bella ma ormai matura moglie del medico di provincia, che lui le mette le corna con lei da anni; che persino il loro trasferimento in campagna (The country del titolo) non era dovuto alla ricerca di una dimensione pacificante e nuova della loro vita di coppia, ma al voler stare vicino a questa puledra dal tratto ben più frizzante e generoso rispetto a quello tranquillizzante della mogliettina dedita alla concordia familiae e a ritaglio, decoupage, e altre amenità da rivista femminile per signore dabbene.
Per il debutto al Royal Court nel 2000 la regia fu affidata a Katie Mitchell che nel quinquennio successivo sarebbe diventata una delle più richieste registe europee, da alcuni anni stabilmente ingaggiata in produzioni tedesche, ma sempre focalizzate sulle sfaccettature psicologiche più complesse della figura femminile.
La versione presentata in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano porta la firma alla regia di Salvo Andò, per una produzione del Teatro Stabile dell’Umbria sostenuto dalla Fondazione Brunello Cucinelli.
Pochi gli oggetti in scena. Un piccolo plastico giocattolo della casa e di un pezzo di countryside in proscenio, quasi a far immaginare la desolatezza dell’esilio campestre. Il resto è il gioco dei tre attori, a cui la regia, per non sbagliare con forzature e tinte forti, lascia il carico di colorare emotivamente il tutto.
Insomma un insieme di scelte poco invasive per un testo che di suo funziona, affidato a tre attori di qualità e senza azzardi scenici. Si potrebbe parlare del ritorno della Morante e di altre facezie italiane, ma non ci pare risieda in questo il motivo per vedere o meno uno spettacolo che ottiene il risultato nel complesso buono senza però correre grandi rischi con la regia.
Quindi alla fine tutti contenti, applausi, insomma niente da dire.
martin crimpNon che per declinare la drammaturgia contemporanea debbano per forza occorrere traslazioni oniriche o derive pulp. Anzi, a volte la misura finisce per essere agognata. Certo, però, andare in Ferrari per le vie della città, finisce per dare il sospetto che sia più per farsi guardare che per godere a fondo della potenza del bolide su una pista.
Insomma, almeno un testacoda in una rotonda di periferia, ad una curva drammaturgica pericolosa, forse Andò avrebbe potuto regalarcelo con questo po’ po’ di interpreti. Ma magari la Morante, attorno alla quale la produzione si è evidentemente coagulata (cfr video sotto), magari rischiava troppi batticuore.
D’altronde, quando arriva in scena a raccogliere gli applausi per il debutto al Piccolo, si capisce a colpo d’occhio che il sembiante di Andò e quello di Crimp hanno codici genetici non convergenti.
Bravi tutti, piacevole. Wrooooam!!!

Qui un video del 2012 in cui la Morante (che fin dall’inizio dell’intervista ammette con onestà di non conoscere Crimp come autore e che anzi voleva interpretare una tragedia classica per tornare al palcoscenico) racconta come è nata la produzione di The country
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=dgpMfvo0n74&w=560&h=315]

Senza sconti per nessuno: la memoria del Vajont non si perda

vie-festival2013MARIA PIA MONTEDURO | La classe citata nel titolo dello spettacolo di cui vogliamo parlare è una V elementare, la V C, i cui alunni sono tra i 1910 morti nel disastro della frana del Monte Toc (contrazione del friulano “patoc”, che significa marcio). Quando, alle 22.39 di quel fatale mercoledì 9 ottobre 1963…
Continua l’interessante rassegna, giunta al XX anno, de “Le vie dei Festival”, che si svolge quasi interamente al Teatro Vascello di Roma. Maurizio Donadoni, in collaborazione con Associazione Culturale Tina Merlin di Belluno, il Teatro di Castalia e l’Associazione Samizdat & Company, porta in scena “Memoria di classe”, spettacolo di teatro civile, una ricostruzione dettagliata e precisa del disastro del Vajont, di cui, come noto, in ottobre, si è ricordato il cinquantenario (9 ottobre 1963). La classe citata nel titolo è una V elementare, la VC, i cui alunni sono tra i 1910 morti nel disastro della frana del Monte Toc (contrazione del friulano “patoc”, che significa marcio), evento luttuoso che per Donadoni sancisce una sorta di spartiacque (si perdoni il gioco di parole) nelle vicende dell’Italia Repubblicana.

Lo spettacolo è strutturato a mo’ di lettura scenica animata, con Donadoni che coordina e legge, insieme agli studenti dell’Istituto Galileo Galilei di Belluno, le parole realmente collegate alla vicenda. Non c’è nulla d’inventato, di artisticamente prodotto: ogni parola, ogni termine, ogni messaggio, ogni dato è tratto dai verbali degli infiniti processi, da testimonianze dei pochissimi sopravissuti alla sciagura del Vajont. Forse è macabro ricordare che Vajont è il nome del torrente che in lingua ladina significa “vien giù”…

La mise en scène, in una scenografia che utilizza solo banchi di scuola, evidenzia senza sconti, senza cortesie di sorta, senza timori reverenziali (perché è giusto che sia così!) come la sciagura potesse e dovesse essere evitata. Quando, alle 22.39 di quel fatale mercoledì 9 ottobre 1963, 260 milioni di metri cubi di montagna precipitano nel lago a 100 km l’ora, molti già sapevano che qualcosa di simile, forse di meno tragico, potesse accadere. Erano anni che gli abitanti della zona denunciavano frane, sommovimenti, lugubri boati provenienti dalla montagna e in questo erano spalleggiati e aiutati dagli scomodi articoli sull’Unità della giornalista Tina Merlin, che fu anche processata (e successivamente assolta) dal Tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La stessa Merlin, il giorno dopo il disastro, dirà: “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa”. Lo spettacolo di Donadoni vuole far imparare qualcosa: che non si può creare sviluppo e progresso snaturando l’ambiente naturale, che i responsabili devono controllare ogni azione da loro dipendente, e che invece spesso delegano tale controllo a incompetenti. Una tragedia che è il risultato di troppe concause: oltre a quelle naturali (la struttura del terreno) si presenta un cocktail impressionante di totale superficialità, impressionante pressapochismo, pericoloso menefreghismo, delirio di onnipotenza, puro interesse economico, paurose connivenze, devastanti silenzi, squallide omissioni. Risultato 1910 morti, la metà delle vittime polverizzata, di loro non si troverà nulla. La potenza con cui l’acqua si riversa sui piccoli paesi della Valle del Piave – il doppio dell’esplosione della bomba di Hiroshima – spazza via anche illusioni, fiducia nelle istituzioni, voglia di vivere in una comunità corretta e solidale.

Il collettivo narrante espone perciò con forze e determinazione la propria condanna per l’operato della società idroelettrica Sade, proprietaria dell’impianto prima che venisse acquistata dall’ENEL – da “delitto privato” si passa quindi a “delitto pubblico” – criticando duramente e senza mezzi termini, ripristinando a pieno regime la funzione civile, etica e sociale del teatro. La piccola comunità di giovani attori (tutti al loro debutto sul palcoscenico) riflette su problematiche locali e generali, individuali e globali, ponendo alla comunità degli spettatori risposte a interrogativi forse inespressi, ma profondamente radicati nella coscienza di chiunque voglia sentirsi cittadino e non suddito. E se a volte i ragazzi leggono ed espongono qualche frase con la voce non perfettamente impostata poco importa: il rito civile del teatro è stato rispettato e celebrato.

Per saperne di più:
www.leviedeifestival.com
www.dentroilvajont.focus.it/

Mezze verità e pensiero contemporaneo: è necessario fare filosofia?

filo2NICOLA ARRIGONI | «Mi chiedete tutto ciò che è idiosincrasia presso i filosofi? … Per esempio la loro mancanza di senso storico, il loro odio contro la rappresentazione stessa del divenire, il loro egitticismo. Credono di fare onore a una cosa destoricizzandola, sub specie aeterni, – facendone una mummia. Tutto ciò che i filosofi hanno maneggiato da millenni erano concetti-mummia; dalle loro mani non è uscito vivo niente di reale». Così scrive Friedrich Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, recentemente pubblicato da Carocci editore con l’introduzione, traduzione e commento di Pietro Gori e Chiara Piazzesi (pagine 278, 19 euro). E iniziare con il j’accuse del filosofo è un iniziare vertiginoso che mette in media res ad una riflessione legata alla filosofia che è attuale e storica, necessaria e di moda, che è accademica come popolare.

Mai come in questi anni la filosofia e soprattutto i filosofi – la distinzione non è casuale – riempiono le piazze, trovano spazio sui giornali, fanno da bussola prêt à porter dell’uomo contemporaneo, adeguatamente disorientato e in cerca di qualche bandolo della matassa che lo «immetta in una mezza verità», per dirla con Eugenio Montale. E proprio dal successo dei filosofi – più che della filosofia – forse bisogna partire. Dal filosofo, dalla sua epifania si attendono verità, indicazioni, un senso possibile al nostro vivere, il filosofo è oggi più che mai intermediario, è il facilitatore di pensiero prima che portatore ed autore di una pensiero originale, è oracolo a cui ci si rivolge per trovare risposte a domande senza possibilità di soluzione. Se i filosofi sono oggi protagonisti nelle piazze e nei salotti buoni, anche quelli della televisione, non è così per la filosofia, quando si fa scrittura, riflessione sulla contemporaneità, filosofia che nel suo argomentare rimane questione accademica; anche se non mancano occasioni editoriali che cercano di declinare il sapere filosofico nella direzione dell’essai francese; si pensi a Michela Marzano. Detto questo, che si tratti di filosofi messi in piazza o di una nuova attenzione alla filosofia in ambito accademico, sta di fatto che la disciplina data per morta e storicizzata sembra vivere una rinnovata vivacità e non solo perché da vent’anni o più c’è chi tenta – soprattutto nelle università – di spacciarla come il valore aggiunto per l’ingresso nel mondo del lavoro, nelle aziende, magari in quei posti chiave della selezione del personale, oggi più che mai in crisi… Sfumata la possibilità di essere strumento occupazionale, la filosofia oggi si fa terapia, ovvero appiglio per cercare di capire il presente e la realtà, proprio mentre media e newmedia la realtà la fotografano, la documentano in presa diretta.

Ma quale è lo stato dell’arte, ovvero quale lo stato di salute della filosofia. A documentare tutto ciò è il volume Filosofia contemporanea. Uno sguardo globale, a cura di Tiziana Andina con la prefazione di Maurizio Ferraris (Carocci editore, pagine 426, 29 euro). E proprio Ferraris sottolinea come solo venticinque anni fa alla parola filosofia si sarebbe affiancata una sicura condanna a morte, con l’unica attenuante possibile della storia della filosofia come disciplina didattica, oggi in realtà «le discipline filosofiche hanno rilevato una vitalità insospettata di fronte alle  trasformazioni  della società post-industriale, dall’informatica alla bioetica passando per le scienze cognitive». E così partendo dalla morte della filosofia – a vario titolo denunciata da più parti – il volume procede per ambiti di ricerca: metafisica e ontologia, epistemologia, linguaggio, mente, scienza, logica e matematica, etica, politica ed estetica. In questo contesto «la ragione della riflessione filosofica si pone come quello spazio logico e concettuale in cui si articolano le relazioni tra il soggetto e il mondo da un lato, e dei soggetti fra loro, dall’altro. Qui gli esseri umani articolano rappresentazioni di loro stessi e del mondo con cui hanno a che fare, inventano linguaggi che consentono di condividere e manipolare quelle rappresentazioni, immaginano mondi possibili e una vastissima serie di controfattuali per metterli alla prova», scrive Tiziana Andina. In questa direzione va l’auspicata nuova sintesi della rinata attenzione al ‘realismo’ – come ribadisce Maurizio Ferraris scrivendo: «c’è un nocciolo solido di realtà, che dà senso ai nostri concetti e rispetto al quale la filosofia, non diversamente da qualunque altro sapere, può dare risposte. (…). La realtà costituisce uno sfondo condiviso per le nostre teorie, ed è un errore confondere la varietà dei sistemi di misura e degli schemi concettuali con ciò a cui si riferiscono. In questo quadro l’aspetto decisivo è tracciare una distinzione tra quello che c’è (ed è l’ontologia) e quello che sappiamo a proposito di quello che c’è (ed è l’epistemologia)».

In questo scarto fra ciò che è e ciò che sappiamo dell’esistente c’è forse – con gusto ossimorico – la risposta all’interrogativo del perché l’uomo si ostini a filosofare. A cercare una risposta è Jean-François Lyotard di cui Raffaello Cortina Editore raccoglie nella collana Minima alcune conferenze sotto il titolo complessivo: Perché la filosofia è necessaria (pagine 88, euro 9,50). Mancanza freudiana, desiderio lacaniano sono alcuni dei riferimenti che Lyotard utilizza per spiegare il perché ogni filosofo cominci la sua ricerca dalla domanda perché fare filosofia, ogni volta un nuovo inizio, ogni volta il tentativo di costruire un nuovo mondo in cui abitare, o semplicemente la chiave per aprirci la porta della realtà. In questo senso «la lezione inaugurale dei filosofi, che si ripete eternamente, ha una certa somiglianza con un atto mancato. La filosofia manca a se stessa, è fuori posto; andiamo alla sua ricerca partendo da zero, continuamente la dimentichiamo, dimentichiamo il suo posto. Essa appare e scompare; si occulta». In questo emergere e inabissarsi c’è la necessità e la persistenza stessa del filosofare nel dispiegamento di una storia in cui la connessione fra realtà e il senso sfugge sempre e sempre si cerca per poi perdersi di nuovo – osserva Corinne Enaudeau nella Presentazione – (…). Poiché il mondo sconfina su di noi, la parola può sconfinare su di esso esprimendolo e, l’azione trasformandolo. Si filosofa perché si è esposti al mondo e si ha ‘la responsabilità di nominare ciò che deve essere detto o fatto’». Ecco allora che filosofare e la filosofia sono necessarie perché portano, elaborano la parola ubertosa che nomina e cerca di colmare la mancanza, il debito che abbiamo nei confronti del nostro essere al mondo, la mancanza che ci fa chiedere perché il mondo è mondo, quando ha avuto inizio, se ci sarà una fine… Questo desiderio è interpretare il messaggio delle stelle che brillano dentro di noi…

Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Introduzione, traduzione e commento di Pietro Gori e Chiara Piazzesi, Carocci editore, pagine 278, 19 euro
Filosofia contemporanea. Uno sguardo globale, a cura di Tiziana Andina, Carocci editore, pagine 426, 29 euro.
Jean-François Lyotard, Perché la filosofia è necessaria Raffaello Cortina Editore, pagine 88, euro 9,50

Rosicare fra artisti? E’ la norma, ma… va fatto in silenzio!!

d.f. wallaceEMANUELE TIRELLI | La morte aggiusta le cose, ma forse non tutto e comunque non per tutti. Prendete due autori famosi, uno è morto e l’altro, pochi anni dopo la scomparsa, ne parla pubblicamente su twitter come del “più noioso, sopravvalutato, pretenzioso scrittore della mia generazione”. Quello che non c’è più è David Foster Wallace, suicida nel 2008 quando era già considerato uno dei geni della letteratura contemporanea. Quello vivo è il Bret Easton Ellis di American Psycho, per dirne uno. Certo non è molto pulito uscire fuori con una frase del genere su qualcuno che non potrà ricambiare. E probabilmente non è nemmeno una gran mossa visto che gli amanti di DFW continueranno ad amarlo, quelli che non lo amano continueranno a non amarlo e quelli che sono indecisi forse si schiereranno dalla sua parte, anche solo e semplicemente perché è morto. Ma come mai tutto questo astio? Magari un po’ d’invidia? Cosa ha fatto il ragazzo con l’asciugamano al collo (che usava per “difendersi” dalle sudorazioni causate dall’ansia e che coordinava con una racchetta da tennis per far sembrare meno strana la presenza dell’asciugamano) o con la bandana sulla fronte (credeva che gli sarebbe esplosa la testa. Se non lo sapete e ve lo state chiedendo, la risposta è “sì, Wallace non stava affatto bene”)… insomma, cosa ha fatto per meritarsi queste sciabolate tutt’altro che morbide? Qualcuno sostiene che si sia ispirato a un romanzo di Ellis senza ammetterlo (vedi biografia ufficiale targata DT Max e pubblicata in Italia da Einaudi). Quello che è sicuro, invece, è che DFW fosse passato una e più volte con la sua lingua pesante sul famoso American Psycho e sullo stile di Ellis, argomentando, sentenziando, criticando in un’intervista rilasciata nel 1993 a Larry McCaffery. Intervista che da settembre possiamo leggere per intero anche in italiano grazie a Un antidoto contro la solitudine – interviste e conversazioni edito da Minimum Fax. E va bene, Wallace non le ha mandate a dire e aveva sempre una parola su ogni argomento: parlava di tennis, parlava di matematica, parlava di crociere, parlava di rap, parlava di filosofia e ancora e ancora e ancora. Ovviamente parlava di letteratura, scrittura e scrittori. Non ha risparmiato nemmeno Thomas Pynchon, definendolo un autore “oramai superato”, almeno da quanto possiamo leggere, sempre dallo scorso settembre, in Di carne e di nulla, una raccolta di riflessioni e interviste pubblicata da Einaudi. Insomma, abbiamo davvero tanta roba per conoscere meglio Wallace, farci gli affari suoi, capire cosa c’era dietro romanzi, saggi e racconti, e per dare anche una spiegazione a tutta una serie di vicende collegate. D’altronde, si può anche essere d’accordo con l’idea che la morte non aggiusti tutto quanto e che attaccare fortemente uno scrittore sulla propria letteratura sia molto peggio che prenderlo a randellate sulle ginocchia, però Bret Easton Ellis continua ad aver fatto la figura del rosicone. Insomma è come se mezza intellighenzia, e non solo, italiana criticata apertamente da Edmondo Berselli in Venerati Maestri iniziasse a dire pubblicamente che Berselli era davvero, ma sul serio, ma incredibilmente un poveraccio. Certo, tutto può succedere, ma la figura ricorrente sarà sempre quella del rosicone.

Una video intervista a D.F. Wallace…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=mLPStHVi0SI&w=560&h=315]

Rosicare fra artisti? E' la norma, ma… va fatto in silenzio!!

d.f. wallaceEMANUELE TIRELLI | La morte aggiusta le cose, ma forse non tutto e comunque non per tutti. Prendete due autori famosi, uno è morto e l’altro, pochi anni dopo la scomparsa, ne parla pubblicamente su twitter come del “più noioso, sopravvalutato, pretenzioso scrittore della mia generazione”. Quello che non c’è più è David Foster Wallace, suicida nel 2008 quando era già considerato uno dei geni della letteratura contemporanea. Quello vivo è il Bret Easton Ellis di American Psycho, per dirne uno. Certo non è molto pulito uscire fuori con una frase del genere su qualcuno che non potrà ricambiare. E probabilmente non è nemmeno una gran mossa visto che gli amanti di DFW continueranno ad amarlo, quelli che non lo amano continueranno a non amarlo e quelli che sono indecisi forse si schiereranno dalla sua parte, anche solo e semplicemente perché è morto. Ma come mai tutto questo astio? Magari un po’ d’invidia? Cosa ha fatto il ragazzo con l’asciugamano al collo (che usava per “difendersi” dalle sudorazioni causate dall’ansia e che coordinava con una racchetta da tennis per far sembrare meno strana la presenza dell’asciugamano) o con la bandana sulla fronte (credeva che gli sarebbe esplosa la testa. Se non lo sapete e ve lo state chiedendo, la risposta è “sì, Wallace non stava affatto bene”)… insomma, cosa ha fatto per meritarsi queste sciabolate tutt’altro che morbide? Qualcuno sostiene che si sia ispirato a un romanzo di Ellis senza ammetterlo (vedi biografia ufficiale targata DT Max e pubblicata in Italia da Einaudi). Quello che è sicuro, invece, è che DFW fosse passato una e più volte con la sua lingua pesante sul famoso American Psycho e sullo stile di Ellis, argomentando, sentenziando, criticando in un’intervista rilasciata nel 1993 a Larry McCaffery. Intervista che da settembre possiamo leggere per intero anche in italiano grazie a Un antidoto contro la solitudine – interviste e conversazioni edito da Minimum Fax. E va bene, Wallace non le ha mandate a dire e aveva sempre una parola su ogni argomento: parlava di tennis, parlava di matematica, parlava di crociere, parlava di rap, parlava di filosofia e ancora e ancora e ancora. Ovviamente parlava di letteratura, scrittura e scrittori. Non ha risparmiato nemmeno Thomas Pynchon, definendolo un autore “oramai superato”, almeno da quanto possiamo leggere, sempre dallo scorso settembre, in Di carne e di nulla, una raccolta di riflessioni e interviste pubblicata da Einaudi. Insomma, abbiamo davvero tanta roba per conoscere meglio Wallace, farci gli affari suoi, capire cosa c’era dietro romanzi, saggi e racconti, e per dare anche una spiegazione a tutta una serie di vicende collegate. D’altronde, si può anche essere d’accordo con l’idea che la morte non aggiusti tutto quanto e che attaccare fortemente uno scrittore sulla propria letteratura sia molto peggio che prenderlo a randellate sulle ginocchia, però Bret Easton Ellis continua ad aver fatto la figura del rosicone. Insomma è come se mezza intellighenzia, e non solo, italiana criticata apertamente da Edmondo Berselli in Venerati Maestri iniziasse a dire pubblicamente che Berselli era davvero, ma sul serio, ma incredibilmente un poveraccio. Certo, tutto può succedere, ma la figura ricorrente sarà sempre quella del rosicone.

Una video intervista a D.F. Wallace…
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Due amici in cucina: “Nunzio” di Scimone in scena a vent’anni dal debutto

NUNZIO foto di andrea coclite 1LAURA NOVELLI | Cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Che pensieri ci vengono in mente guardando ancora una volta – e con il trasporto di ogni volta – questo lavoro che nel ’94 rivelò al pubblico la sensibilità teatrale di un grande autore come Spiro Scimone? Come e in cosa sono cambiate – se sono cambiate – le lievi sfumature espressive dell’interpretazione di Francesco Sframeli (Nunzio) e dello stesso Scimone (Pino)? Vorremmo rispondere in modo semplice, consapevoli che la semplicità sta sempre al fondo delle faccende più serie. Vorremmo difendere l’idea che questo testo – vincitore del Premio Idi e messo in scena con la regia di Carlo Cecchi – indica una strada di verità artistica non comune. Un’autenticità di situazione, di lingua, di ritmo, di personaggi, di prova attoriale, di senso, che in due decenni di vita non ha perso un solo grammo della sua forza. Testimonianza ne sia che “Nunzio” viaggia nel repertorio della compagnia Scimone-Sframeli da allora e che, insieme con altri successi nazionale e internazionali come “Bar”, “La festa”, “Pali”, “Giù”, sarà ancora portato in tournée nel 2014. E non è un caso che a riproporlo a Roma sia stata la rassegna “Le vie dei festival”, quest’anno particolarmente attenta alla memoria di un certo teatro italiano: quello dove i corpo-a-corpo tra parola e attore (si vedano, ad esempio, “Servillo legge Napoli”, Gifuni in “Gadda e il teatro”, Lombardi in “Tre Lai” di Testori) non sono vuote esercitazioni letterarie ma sostanza, materia teatrale delle più audaci, delle più concrete, delle più umane.

NUNZIO - Scimone Sframeli - foto di 2

“Nunzio” racconta la storia di un’amicizia, di un disagio esistenziale che si muove tra le ombre di unaprofessione violenta (incarnata da Pino, il killer) e la fragilità quasi fanciullesca di un essere puro (Nunzio, operaio in una fabbrica del nord). Entrambi hanno lasciato la loro terra (la Sicilia, così musicalmente evocata nel dialetto messinese e così viva nei ricordi, nei profumi della cucina); entrambi sono vittime di un destino infelice; entrambi sognano di fuggire, evadere, amare una donna. Entrambi mantengono però una zona di impotenza nei confronti delle esistenze proprie e dell’altro: il primo è ossessionato da un esterno minaccioso e imprevedibile (e qui il riferimento a Pinter suona fin troppo scontato); il secondo è minato da una salute cagionevole, eredità di un lavoro a rischio. I loro incontri si consumano in una cucina spoglia, dove echeggia tutto un mondo di emozioni sottili e mutevoli. E’ la lingua che li tiene incollati alla loro reale essenza. E’ il ripetersi di frasi , battute, domande che li áncora a quel quotidiano. E’ la verità del mondo che si insinua sotto quelle improvvise virate surreali, quei brividi d’ironia, quegli scarti di registro, di umore. Un grande teatro d’attore, dunque, costruito sulla carne. Cresciuto sulla carne. Sulle prove. Sulle repliche. Motivo per cui se oggi Scimone e Sframeli ci appaiono un Pino e un Nunzio forse più compassati, più malinconici, più rassegnati rispetto alla messinscena del debutto (e in parte anche rispetto alla trasposizione cinematografica, “Due amici”, premiata a Venezia nel 2000), lo dobbiamo “semplicemente” – appunto – al fatto che giocoforza la vita cambia, i tempi cambiano, gli animi cambiano. Quello che non cambia è la vocazione umanistica di un teatro che rimanda ai gangli centrali del nostro essere persone. Non ci sono soluzioni perché non possono esserci. Alla fine, resta l’attesa di un altro tempo, di un respiro largo, quasi cecoviano, inevitabilmente sospeso. Ma sappiamo che non potrebbe essere diversamente. E allora: cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Forse solo la “semplicità” complicata di aver saputo raccontare l’uomo con uno sguardo poetico e sghembo. E davvero non ci sembra poco.

La videointervista del nostro Andrea Ciommiento a Spiro Scimone: