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venerdì, Maggio 9, 2025
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Lisistrata e la primavera araba

urlALICE CANNONE | Parlando della donna, Aristofane nel suo Lisistrata (Λυσιστράτη) scrive che “non si può vivere con questo accidente, né senza!” (vv. 1038-1039). Ma se per il commediografo greco alcune donne avevano il potere di “sciogliere gli eserciti” (da cui, appunto il nome Lisistrata), per altri oggi il ruolo cruciale della donna ha la potenza geopolitica di quella celebre sineddoche su cosa e quanto possa trainare un bulbo pilifero. Questa incredibile potenza femminea sembra avere poco a che vedere con il ruolo cruciale che il sesso femminile ha avuto a Plaza de Mayo o più recentemente in Libia.

Si sostiene infatti che oltre all’ambizione della parola negata, all’esaurimento delle speranze esistenziali, all’urgenza di libertà, vi sia dietro un compressissimo desiderio erotico: a sostenerlo è l’immunologa, giornalista e consulente Onu Shereen El Feki che nel saggio «Sex and the Citadel: Intimate Life in a Changing Arab World» indaga il background culturale egiziano e trova i semi della rivoluzione di Tahrir nella repressione sessuale. Come se ad un certo punto si dicesse ai francesi che la loro Rivoluzione illuminata è avvenuta solo perchè ad un certo punto qualche represso volesse concupire la boccola Maria Antonietta mentre addentava brioches.

L’intellighenzia illuminata occidentale ha comunque pensato bene di interrogarsi sul peso che hanno avuto gli ormoni nella spallata del 2011 allo status quo: alcuni anni fa la rivista Foreign Policy intitolò «Geopolitica della frustrazione sessuale» l’inchiesta sugli uomini asiatici che, a corto di mogli, sublimavano la solitudine votandosi al nazionalismo radicale. In seguito il politologo Ian Buruma ipotizzò un legame tra repressione sessuale e terrorismo islamico, una tesi cara anche all’orientalista Bernard Lewis e in apparenza confermata dal 23enne nigeriano Umar Farouk Abdulmatallab, pronto a saltare in aria sul volo per Detroit a Natale 2009 dopo aver confidato alla Rete le ansie e i turbamenti di un single coatto. E di qui a teorie à la “Voglio una donna” da Amarcord il passo è breve: “A conti fatti la Primavera Araba è stata la manifestazione politica di una frustrazione culturale” osserva Chloe Mulderig, ricercatrice della Boston University e autrice dello studio «Adulthood Denied: Youth Dissatisfaction and the Arab Spring».

L’aforisma che in questi giorni ha fatto il giro della rete: “La Grecia è al collasso. Gli iraniani stanno diventando aggressivi. Roma è nel caos. Bentornati al 430 A.C.” sembra un monito veritiero, ed è proprio da un certo passato che bisognerebbe ripartire. Chè, ammesso e non concesso che certe teorie siano davvero esplicative di una realtà certamente molto più complessa, va anche detto che un po’ di sana astinenza non ha mai fatto male a nessuno. Anzi: lo sciopero del sesso della Lisistrata di cui sopra è la dimostrazione di una strategia win-win di medio lungo termine per certe operazioni di peacekeeping. L’Acropoli viene occupata dalle donne, che si sono impadronite del tesoro pubblico; i vecchi di Atene hanno tentato di riconquistarlo e sono stati respinti: soltanto allora il probulo che li guida viene incitato a interrogare Lisistrata sui motivi della sua azione inusitata . Gli argomenti di quest’ultima, in sostanza, sono i seguenti: le donne sono state coinvolte in una decisione politica catastrofica, la guerra, senza aver potuto partecipare alla sua deliberazione, perché obbligate – pur essendo cittadine e svolgendo nella polis una funzione vitale – a tacere e stare in casa. Il colpo di forza, e la virata strategica dell’astinenza in questa situazione, era l’unico modo per farsi ascoltare e salvare la città dalla rovina. Lisistrata vince perché il suo ricatto ha avuto successo a causa della incontenibile incontinenza maschile; i personaggi maschili disconoscono a cuor leggero la maternità della strategia, preferendo attribuirla al vino: “ – … E noi, anche bevendo, ci siamo comportati saggiamente. / – E’ naturale, visto che quando siamo sobri ci comportiamo da stupidi. – (Lys. vv. 1227-1228)”. Oggi più che mai.

Dal faceto al serio, un documento video interessante dell’Oslo Freedom Forum 2012 sulle evoluzioni nel mondo arabo dopo le rivolte del 2011

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La creatività che fa "scintille"

17164742VINCENZO SARDELLI | Sbarazzina e pimpante la rassegna teatrale dedicata alla nuova creatività al Menotti di Milano. Sul palco le due compagnie, Idiot Savant e ZwischenTraumTheater, che hanno ottenuto lo scorso anno alla rassegna “Scintille” di Asti rispettivamente la menzione speciale e il primo premio.

L’intento programmatico di Idiot Savant è già nel nome: un ossimoro che qualifica persone con ritardi mentali gravi, con insospettabili talenti soprattutto di tipo creativo.

Sottilmente geniale, amabilmente idiota è la pièce portata in scena dalla compagnia, dal titolo “Shitz – pane amore e… salame”, tragicommedia musicale del drammaturgo israeliano Hanoch Levin. Due tempi senza intervallo, due ore di buona recitazione, con qualche lungaggine finale di troppo.

L’umorismo Yiddish della pièce esibisce le proprie debolezze in modo onesto. L’effetto è liberatorio. Tanta carne al fuoco: sfaceli familiari, attaccamento al denaro, un cinismo nero pieno di battute politically uncorrect sfacciate e autoironiche.

La scena è per una famiglia di ebrei osservanti, seduti attorno a un tavolo. Sulla destra, in primo piano, un improbabile quanto ironico chitarrista attacca canzoni una più demenziale dell’altra. Le note balenghe ispirano, con effetti teneri ed esilaranti, le velleità canore e ballerine dei protagonisti, dagli attributi sessuali goffamente accentuati da sacchi-marsupio.

La storia. Shitz, capelluto e barbuto capofamiglia, e quel maschione di sua moglie Setcha, sono occupatissimi a far sposare la figlia Shpratzi, aspirante orfana e single disperata, paranoica ripiegata in un’orgia di cibo senza scampo. Ma oplà, la ragazza s’innamora, ricambiata, del giovane Tcharkés, vanaglorioso arrivista senza scrupoli, che decide di sposarla. Festeggiamenti folli, poi un turbine di peripezie trascina la famiglia dall’impudica felicità verso lo sconfortante annientamento dovuto alla malattia e alla guerra. Guerra e malattia sono mali endemici di questa scapestrata famiglia, i cui accidenti sono esaltati dalle intuizioni genialmente comiche della cultura Yiddish.

Bravi gli attori, buona la regia, con un ritmo e una vicenda che tiene pero solo per due terzi della durata. Perché poi i protagonisti s’innamorano degli applausi, si avvitano in un monocorde narcisistico esercizio di stile, e non ne vogliono più sapere di scendere dal palcoscenico.

Peccato di gioventù. La prossima volta i protagonisti Giuseppe Barbaro, Pier Paolo D’Alessandro, Mauro Lamantia, Valentina Picello e Mattia Sartoni (musiche originali Filippo Renda e Simone Tangolo) sapranno limare quei buoni venti minuti: lo spettacolo guadagnerà in leggerezza e gradimento.

Leggerezza e gradimento sono invece abbinamento riuscito col senso della misura nello spettacolo “Stranieri”, della compagnia svizzera ZwischenTraumTheater, vincitore del premio Scintille. “Stranieri” è una riflessione sui temi della tolleranza e della multietnicità. Lo spettacolo, molto fisico, unisce danza, recitazione e musica. La pièce, originale, è fatta di storie personali, di fughe verso la libertà, di confronti fra culture sui temi dell’ingiustizia.

Sono storie di sogni. S’intrecciano musiche e voci. Lingue diverse si fondono, scivolano con le immagini che evocano.

Sette attori di tre nazionalità (italiana, belga, tedesca) sul palcoscenico si frantumano a incarnarne altre identità ancora: maghrebina, russa, rumena. Si rifugiano in uno scantinato senza documenti, senza nome né privacy. Sono clandestini, persone illegali che vivono di espedienti, sfruttati dal lavoro nero. Sono laureati costretti all’elemosina, persone che si vendono, richiedenti asilo, persone cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno, gente di passaggio che si nasconde.

Lenzuola appese, costumi multicolori, danze e note esotiche: “Stranieri” è un coro d’immagini, di parole che diventano ricordi, paure, bisogni. Uomini e donne evocano altri uomini e altre donne. Sono frammenti di storie recitate in coro, voci solitarie che rompono il silenzio, immagini veloci di volti, di labbra e di occhi.

Il palco diventa vaudeville e bidonville, corsa di movimenti. È una multicultura dissacrante e ironica, senza vittimismi, e senza nascondere i problemi che stanno dietro ogni esperienza di viaggio, dietro il tentativo spregiudicato di evadere dalla miseria. È un melting-pot dinamico che dalle parole passa per il corpo e raggiunge vorticose espressività. Il gioco spiazza il pubblico, con una marea di danze soft, individuali e corali, che si sposano con la sceneggiatura.

I versi finali di “Siamo figli di nessuno”, poesia del fotografo iraniano Reza Khatir, ci ricordano che, da qualunque parte veniamo, ognuno in fondo racconta una sola storia: lasciare alle spalle il passato, scivolare sul presente, immergersi in apnea nel futuro. Laura Belli, Daniele Bianco, Lea Lechler, Daniele Pennati, Adele Raes, Lorenzo Torracchi, Jördis Wölk contribuiscono ciascuno col proprio punto vista a creare un lavoro omogeneo che tocca corde profonde, e che elude ogni tentazione virtuosistica fine a se stessa.

SHITZ della compagnia Idiot Savant:
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STRANIERI della compagnia svizzera ZwischenTraumTheater:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=v2OoEEY–H4]

 

OPEN | Daniel Ezralow’s New Show

ezralow_notemusicali_lowdef.1354719324NICOLA ARRIGONI | C’è voglia di conferme e leggerezza, c’è voglia di ‘tradizione’ e disimpegno al tempo stesso, c’è voglia di ritrovarsi per un’ora e mezza a guardare un gruppo di danzatori che colorano di fantasia e di déjà vu lo spazio scenico con video e videoclip e qualche concessione alla sensibilità ecologista. Open di Daniel Ezralow è il nostalgico centone di quella danza visiva e ottimista che ebbe alla fine degli anni Ottanta i suoi capofila nei Momix e negli Iso – non è un caso che in entrambi i gruppi abbia militato Daniel Ezralow -, per quanto riguarda la danza visuale, e in Alan Parsons Dance per una coreografia di tipo atletico/contemporanea. Tutto ciò confluisce in Open di Daniel Ezralow uno show multicolore che strizza l’occhio allo spettatore, frequenta un linguaggio coreografico neoclassico, senza per questo rinunciare ad una modern dance che alla fine esce prepotente nei saluti finali e nelle prove solistiche dei singoli Chelsey Arce, Dalila Frassanito, Santo Giuliano, Stephen Hernandez, Kelsey Landers, Re’Sean Pates, Marlon Pelayo, Anthea Young.

I quadri si costruiscono su un’antologica di pezzi ipercelebri della tradizione classica dai Notturni di Chopin, al Romeo e Giulietta di Prokovief, da Ponchielli a Beethoven, ad una Carmen giocata con pupazzini e ballerino en travesti. La colonna sonora preclara che fa da sostegno a una serie di situazioni: dalla palestra, alla vita frenetica di una sorta di commesso viaggiatore, dalla sfida pugilistica di due promessi sposi, all’ecologica condanna dello spreco di energie e materie prime, in nome di un rispetto dell’ambiente. C’è di tutto in Open, ma soprattutto c’è la nostalgia di una vitalità che pare un po’ raggelata nello stile anni Ottanta, che come dire è puro svago, senza poesia ed emozione. Si avverte in Open un gioco stanco, a tratti ripetitivo che non scatta, non emoziona e quando va bene fa apprezzare un pizzico di atletismo dei danzatori in scena. In realtà il pubblico risponde, vi si ritrova, è ululante nel seguire quei danzatori il cui corpo non fatica a metamoforsizzarsi nella proiezione video, perché la loro fisicità, la loro plasticità è alla fin fine bidimensionale, ologramma di sudore e corpo prestato ad un danzare dell’occhio che Daniel Ezralow ha costruito e affinato in favore di telecamera, gestendo le coreografie di grandi show dello sport universale. In tutto ciò l’occhio dello spettatore riposa e si accasa, in tutto ciò c’è l’anestetico di una bellezza colorata e che vuole stupire con effetti speciali che sanno del tempo che fu, che a tratti fanno tenerezza e non possono che essere premiati dal bisogno presente di sicurezza e conferme, sicurezza e conferme che si possono recuperare negli anni in cui eravamo spensierati, giovani e carini….

 
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Cantiere Koltès

ELENA SCOLARI | La regia di Renzo Martinelli riporta all’attualità Lotta di negro e cani, testo del 1979 di Bernard-Marie Koltès, in scena al Teatro i di Milano fino al 12 marzo 2012.

Più che in scena questo spettacolo è “in cantiere”. L’ottima, davvero ottima idea scenografica di Martinelli, padrone di casa del Teatro i di Milano, ha trasformato infatti il teatro in un cantiere. Niente più platea e palco: un vero e proprio ponteggio rettangolare è l’impalcatura sulla quale, ad altezza primo piano, sono collocate le file di poltrone sui quattro lati, gli spettatori vedono quindi la scena sotto di loro, o per meglio dire, la controllano dall’alto.

Siamo in Africa, in un cantiere edile francese, l’ingegnere bianco Cal ha appena ucciso in un dubbio incidente un operaio nero e ha fatto sparire il corpo gettandolo nelle fogne.  Il fratello Alboury viene a reclamarne il cadavere presso il capocantiere Horn, lo vuole restituire alla madre per rappacificare il suo dolore. Ma il morto non c’è e non ricomparirà più.

Questa la fosca ambientazione di un testo disperato, cupissimo, scritto da Koltès in una lingua (è stata scelta la traduzione di Valerio Magrelli, adattata da Francesca Garolla) teatralmente difficile perché insieme colloquiale e antinaturalistica.

L’impianto scenico è forte, il pubblico diventa realmente il guardiano del cantiere, dei fatti e delle parole che vi scorrono, sorveglia, quasi spia la soffocante atmosfera, rimanendo “sollevato” ma non distante. L’allestimento è indubbiamente elemento pregevole e imprescindibile di questa messinscena, aiuta molto un testo plumbeo e privo di speranza che, a nostro parere, è altalenante nella sua resa. Lo spettacolo dura due ore e nella prima metà si avvertono ridondanze e lungaggini che, se non inserite in uno spazio dinamico e originale come quello inventato dal regista, appesantirebbero non poco il lavoro.

Le voci degli attori sono raccolte da microfoni panoramici sparsi sul ponteggio, creando un interessante effetto di eco che dona una sacralità paradossale alla bassezza di ciò che viene detto e che vediamo accadere. Suoni sgraziati e neon lividi accompagnano i movimenti dei personaggi prigionieri di un luogo ostile.

Abbiamo nominato i primi tre personaggi che compaiono in scena: lo sgradevole Cal, il ruolo più difficile, è reso nevroticamente efficace da Rosario Lisma, Alberto Astorri è il duro capocantiere Horn, teso a risolvere razionalmente il “pasticcio”, Alboury è il fratello della vittima, interpretato da Alfie Nze, la cui rigidità è coerente con il tono fiero del suo personaggio. Horn non è però appiattito sulla sua reazione pratica all’incidente, ha anche un lato fragile, quasi tenero: si fa raggiungere in Africa da Léone (Valentina Picello, convincente nel suo stato di stralunata illusione), una delicata commessa parigina che ha mollato il lavoro per seguire e sposare quest’uomo appena conosciuto. L’azzardo non si rivela fortunato e il mazzolin di fiori che Horn, maldestro, cerca più volte di porgerle, finirà nel fango. Come i sentimenti, la giustizia e la pietà calpestati in questa storia cruda e buia.

Obiettiamo a chi ha definito datato il testo di Koltè dicendo che il punto di interesse di Lotta di negro e cani, scritto più di trent’anni fa, non è nel tema del razzismo, pur presente, bensì nel fallimento umano e privato di queste quattro persone, che non riescono a incontrarsi davvero, a capirsi, ad aiutarsi. Alboury il negro non entra in comunicazione con gli altri proprio come non si capiscono gli altri tra di loro, seppur uniti dalla stessa etnia e dalla stessa lingua. Il problema è nella lotta, nel rapporto di continua contrapposizione tra gli uomini, che ormai faticano a fidarsi l‘uno dell’altro.

Ecco perché il capocantiere Horn offre il whisky al fratello nero dicendogli: “Fidati, fidati dell’alcool”.

Il Pantani delle Albe – videoreport

Albe-PantaniRENZO FRANCABANDERA | Non ho mai inserito nel commentare uno spettacolo il mio privato, perché ritengo la prassi totalmente inutile e nociva. Nel caso di Pantani, però, non posso andare con la memoria alla sera passata al Teatro Massimo di Cagliari senza ricordare che è stata la prima volta che la mia piccola bimba di appena sei giorni ha messo piede in un teatro, e agli sguardi amorevoli di Ermanna, Marco e di tutta la compagnia, compreso il fisarmonicista che ha eseguito per lei una ninna nanna in assolo prima dello spettacolo. Per me Pantani è iniziato così.
Se è vero che il mondo del teatro, come quello del ciclismo si ricorda durante lo spettacolo, va avanti un po’ fra gelosie e piccole cattiverie sottolingua, ricordare questo frangente personalissimo è anche un modo per dire che il teatro sa anche essere comunità accogliente, tentativo di dialogo, non vorrei dire famiglia per non scivolare nella melassa peggio di Ofelia nel fiume, ma a volte è un consesso umano capace di riscaldare l’animo.
Torniamo ora lucidamente a Pantani.
Lo spettacolo è un’inchiesta-narrazion-farsesco-coral-epic-tragicomic-dramma contemporaneo sulla vicenda del figlio di una famiglia modesta che, dopo la gloria, termina la sua spericolata fuga nella polvere. Ascesa e declino di Marco Pantani non raccontata da lui medesimo, in una struttura drammaturgica composita che ingloba diversi generi del teatro, senza appiattirsi su nessuno di loro.
La narrazione del vissuto dello sportivo avviene attraverso i ricordi delle persone a lui più care, la famiglia, gli amici, il giornalista che l’ha seguito quando era meno comodo, nel tentativo di andare oltre la damnatio memoriae mediatica a dieci anni dalla sua scomparsa. Lo spettacolo, non breve, si fa seguire senza mai appoggiarsi sulle note della noia.
Qualcosa, nel nostro sentimento sulla fruizione, resta da registrare nella seconda parte dello spettacolo, dove il ritmo del travolgente primo tempo viene sostituito da una narrazione più intima e meditata, cui viene però un po’ meno la lama affilata della prima. Ma di spettacoli di tre ore e mezza di tragedia contemporanea che filano a questo ritmo non se ne ricordano molti. Assai più spesso si assistite a proposte indigeste e autoreferenziali. Forse alla fine lo spettacolo parteggia, si schiera. Ma almeno, in questo, dichiara l’intento, palesa il punto di vista. E’ più corretto di quando a volte la scena, eletta a giudice supremo, si appella alla finta indipendenza, cercando impossibili equilibrismi ed equidistanze alla buona.

Che Pantani sia, scorrendo le pagine dell’epos, un Ettore o un Edipo (ovvero se cada, suo malgrado, da innocente o colpevole) non lo potremo forse mai dire con certezza, ma sicuramente interrogarsi è giusto. Lo spettacolo va visto, anche e soprattutto per ricordare un tempo, un decennio, di cui questa vicenda assume caratteristiche assolute, che vanno da quella del ragazzo della riviera romagnola, a quella di un’Italia tutta, illusa dal successo e poi tradita, violentata, e gettata lì a morire sola.

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Crysis 3: uomo o macchina?

crysisALESSANDRO GUALANDRIS | “Ora capisco perché piangete, ma io non potrei mai farlo” Terminator 2 – il giorno del giudizio 1991

L’onda emotiva scatenata da Sony con la presentazione/meeting avvenuta solo pochi giorni fa (ne abbiamo parlato qui) è ancora viva. Le prospettive lanciate per la nuova generazione di console hanno lasciato i fan in trepidante attesa, chiedendosi fino a che punto arriverà la qualità grafica di questi piccoli PC. Crysis 3 arriva nei negozi di tutto il mondo solo 3 giorni dopo quell’evento e detta nuovi termini di paragone.
Tiago Sousa, ingegnere capo del reparto ricerca e sviluppo Crytek, sulla sua pagina twitter, commentando la presentazione della PS4 ha espresso molto entusiasmo pensando alle nuove capacità della futura console: “8 GB unified mem as baseline for next tech iterations makes me very, very happy. Fun times coming ^_^”.  Tuttavia, guardo le prime immagini di Crysis 3, è lecito chiedersi se sia necessario quest’upgrade. Ovviamente la versione per PC resta irraggiungibile, ma vederlo girare su Playstation 3 o Xbox 360, sicuramente la piattaforma con la minore capacità delle tre, è un piacere per gli occhi.
Crytek ha sempre curato molto la grafica dei propri lavori, stupendo più volte e spostando l’asticella dei limiti delle console sempre più in alto. Se pensiamo che il primo capitolo di Crysis, uscito solo per PC, rischiava seriamente di fondere le schede grafiche se non correttamente settate, possiamo solo immaginare a cosa puntino gli sviluppatori della casa tedesca. Ma in quest’ultimo periodo sembrava che i traguardi raggiunti con Halo 4 fossero già il limite maximo raggiungibile da macchine che “all’anagrafe” contavano già 8 anni. Non è così.
Anche in questo gioco, come per altri recenti titoli, è possibile seguire un bel riassunto di ciò che è successo nei precedenti capitoli. Successivamente si può affrontare un veloce tutorial per prendere confidenza con i vari movimenti e le capacità offerte dalla nano-tuta in dotazione del nostro protagonista. Finito l’addestramento, ci si tuffa nella campagna vera e propria. Il protagonista, Prophet, viene risvegliato dal suo ex-compagno d’armi Psycho per aiutarlo a fronteggiare la corporazione CELL, che lentamente si sta impossessando della terra. Da qui in poi il potente motore grafico CryENGINE 3 (che, se volete scaricare e cimentarvi con lo sviluppo di videogiochi, potrete trovare qui) spreme la nostra console offrendoci degli scenari dettagliati all’inverosimile, ma soprattutto una fluidità raramente vista in titoli del genere. Tutto ciò che ci circonda è reale, dalla pioggia ai riflessi nelle pozzanghere, dai teloni mossi dal vento ai giochi di luce e ombre che offrono una profondità che sembra di poter toccare, di vivere. Le espressioni del viso di Psycho che esternano tutta la sua follia in sguardi e rughe del volto. Il dinamismo dell’effetto occultamento della nano-tuta, una sorta di mimetizzazione in stile Predator, è aiutato dal processo d’illuminazione dinamica, presente nel motore grafico, che permette aggiornamenti in real time dell’ambiente e delle ombre.
crysis2A livello di gameplay, Crysis 3 è uno dei migliori FPS (First Person Shooter) in circolazione, non solo per il dettaglio grafico appena analizzato, ma per la possibilità d’esplorazione praticamente infinita dello stage in cui si sta giocando, regalando così al giocatore diverse soluzioni per raggiungere un obiettivo. Ci si sposta attraverso una desolata e devastata New York, ormai invasa dalla vegetazione, senza limiti di spazio e movimento. Unito al visore della nano-tuta capace di scansionare aree vaste e di craccare sistemi di difesa a distanza, si possono optare per scelte diverse su come affrontare nemici o passare posti di blocco. Ulteriore chicca si rivela l’arco composito, arma non presente nel predecessore, potentissimo e silenzioso che abbinato con saggezza alle potenzialità della nano-tuta regala ore di puro divertimento. Uniche ombre sono la colonna sonora abbastanza sterile e sotto tono per un titolo del genere, benché gli effetti sonori siano ben realizzati, e alcune animazioni dei soldati colpiti dalle frecce che sembra restino appesi al muro in posizioni non troppo naturali. Il multiplayer non offre particolari novità (8 modalità di gioco abbastanza simili a tutte quelle già conosciute), impreziosite dal fatto che i punti esperienza siano accumulati rubando le piastrine del nemico e non semplicemente abbattendolo (dura vita per i cecchini-camper).
Ancora una volta, i personaggi principali del gioco, sono anime devastate e senza speranza futura. Uomini o ex-uomini che non hanno più nulla da perdere, ma che sulla loro strada troveranno la possibile via di una redenzione troppe volte agognata. Prophet rappresenta l’anello di congiunzione tra uomo e macchina, avendo rinunciato ai propri tessuti organici in favore di una maggiore potenza, che gli avrebbe permesso di sconfiggere l’armata aliena in Crysis 2, egli rinuncia alla sua umanità fisica ma non morale, poiché i temi del sacrificio e del bene supremo torneranno a farsi sentire in lui. E’ un soldato, figlio deviato di una guerra che non voleva combattere ma che, come molti eroi romantici, è l’unico che può porvi fine. Depositario di un segreto legato al futuro della guerra stessa, visione o pazzia che non riesce ad interpretare, ma con cui deve conviverci suo malgrado. Opposto a lui, ma con lo stesso destino, Psycho, super soldato iper tecnologico cui hanno strappato la nano-tuta rendendolo “solo” umano. Privato della sua forza e delle sue potenti armi, è uomo distrutto dal senso d’impotenza di fronte a ciò che non riesce a combattere e che vede nel risveglio del compagno la sua unica speranza di salvezza. Queste instabili situazioni caratteriali si snoderanno durante la campagna approfondendo le relazioni tra i due e il loro approccio agli eventi cui si troveranno ad affrontare.
L’importanza di un solido impianto narrativo è fondamentale nel successo di un video gioco tanto quanto lo è la componente grafica. Una trama come quella di Crysis 3 coinvolge il giocatore e lo porta senza sforzi alla fine del gioco, anche solo per vedere come questo film, di cui fa parte, finirà.
Vi lasciamo con il video riguardante la prima parte del gioco, in cui potrete ammirare gli sforzi del CryENGINE 3

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kb3NnT9w7No&w=560&h=315]

Ed ora non dovrete far altro che attivare l’occultamento, imbracciare il vostro arco e diventare soldati infallibili!

Le elezioni, Sanremo e l’Italia bloccata

ALESSANDRO MASTANDREA | Crozza-Berlusconi-Festival-Sanremo“Sanremo è il momento in cui tutta l’Italia sta davanti la televisione. Tutto il paese si blocca. Cioè, non è che quando non c’è Sanremo il Paese va a mille. E adesso c’è anche la campagna elettorale. E quando c’è campagna elettorale il paese si blocca. E quest’anno le due cose coincidono.”
Sono necessari almeno cinque minuti e due interventi di Fabio Fazio, da quel “no politica a Sanremo”, prima che Maurizio Crozza, bocca impastata e in evidente difficoltà, possa riprendere stentatamente il proprio monologo, pronunciando le parole sopra riportate. Ma pur se in difficoltà, non si può certo dire che il comico genovese non abbia rilevato quale sia il nodo nevralgico dell’Italia e della manifestazione canora; lui che è stato il principale artefice dell’exploit di ascolti della prima puntata, mostrandone, tuttavia, anche il nervo scoperto.
Già perché, questa volta, anche il collaudatissimo motore messo a punto da Fazio e autori qualche colpo lo ha perduto. Nel suo “format impegnato da asporto” – buono sia per le serate in casa su Rai3, che in quella dei lontani parenti de La7 o di quelli più prossimi di Rai1- oltre ai buoni sentimenti e a una ristretta cerchia di amici intellettuali – convenuta per presentare un libro o leggere una lista, la politica non può mai mancare. Figurarsi, poi, se l’asporto prevede quale destinazione Sanremo, frullatore di generi e argomenti, in cui la politica, spezia assai saporita, ne rinforza da sempre il gusto. Probabilmente però, con un Crozza che è stato qualcosa di più che pepato, con il “rinforzo” si è ecceduto. Lontano dai familiari lidi de La7, il format del suo show satirico mal si è adattato alla diversità di genere e ambiente sanremese. Una mancata empatia confermata non tanto dal viso “perlato” del D.G. Rai Gubitosi, ma anche da una certa inquietudine che era possibile respirare tra il pubblico in sala, con le telecamere che praticamente mai hanno indugiato sui loro volti. Segno evidente che qualcosa non ha funzionato.
Non si è trattato solo del mero errore di impostazione della scaletta, con la scelta di spingere subito sull’acceleratore impersonando Silvio Berlusconi (come sottolineato da Aldo Grasso), ma anche della sproporzione con cui il Nostro ha dato risalto ai difetti di una parte piuttosto che dell’altra. E’ vero che il materiale che, quotidianamente, l’ex premier Berlusconi mette a disposizione, ben si presta alla satira, ma altrettanto lo è affermare che su di esso Crozza ha lavorato di pancia, mentre, probabilmente, la platea avrebbe voluto altro. Per gli altri leader, tra l’altro, solo qualche accenno al vezzo per le improbabili metafore o la messa in burla della congenita stanchezza. Verrebbe da chiedersi cosa si sarebbe detto o scritto, a parti politiche invertite, per un trattamento simile riservato magari a un leader di sinistra.
Mantenendo dunque fede al clamore mediatico delle settimane precedenti, che gli è valso da un Mario Monti molto poco moderato l’epiteto di “pateticamente disinformato”, i circa quaranta minuti di intervento di Crozza a Sanremo si inseriscono alla perfezione nel meccanismo spettacolare che usa la polemica e la contrapposizione politica per generare interesse. Prese nel mezzo, passano praticamente inosservate, sia le performance canore che la novità formale del doppio turno per la scelta delle canzoni in gara.
Se nella gara canora un certo rinnovamento di generi e di età anagrafiche si è avuto, molto meno è accaduto sul fronte dei contenuti extra musicali.
A una settimana dalla sua fine, dunque, il dubbio su cosa sia stato esattamente il Festival di Sanremo rimane.

L’intervista a Fazio e Littizzetto a Che tempo che fa

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Famiglie austriache e famiglie russe

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ELENA SCOLARI | Vogliamo provarci in un parallelo ardito: abbiamo visto “Ritter, Dene, Voss” di Bernhardt, con gli attori storici della Filarmonica Clown (Valerio Bongiorno, Piero Lenardon e Carlo Rossi) per la regia di Renato Sarti – fino al 10 marzo al Teatro della Cooperativa di Milano- e “Maros-gelo”, adattamento di Le tre sorelle di Cecov, in scena al Teatro i fino al 25 febbraio, realizzato da una compagnia di giovani attori, diretti da Renata Palminiello. Perché li accostiamo?

Perché entrambi sono esperimenti. Il primo vede tre attori esperti ma solitamente dediti alla risata, alla comicità spesso surreale e un po’ demenziale (nel senso più alto del termine) alle prese con un testo inquietante, di un autore considerato serio; il secondo mette invece alla prova un gruppo di giovani attori con un classico monumento del teatro di sempre.
Li troviamo entrambi riusciti. E ciò ci conforta nell’idea che caldeggiamo da tempo: la qualità sta nella cura per il lavoro, la novità può prendere corpo in tante forme, nell’interpretazione recitativa come nella struttura complessiva di uno spettacolo.

Il titolo Ritter, Dene, Voss è l’unione dei cognomi dei primi tre attori tedeschi che hanno messo in scena il testo di Bernhardt nel 1986 (Ilse Ritter, Kirsten Dene e Gert Voss). Lo spettacolo si svolge in un interno borghese della Vienna di fine ‘800, sala da pranzo, ritratti di famiglia alle pareti, Bongiorno e Lenardon sono le due sorelle attrici (mai chiamate per nome) di Ludwig, fratello filosofo geniale nella sua follia, che si rinchiude volontariamente nel manicomio di Steinhof e che farà ritorno a casa scompaginando abitudini stantie e rivelando senza pudori i meccanismi malati dei rapporti fra i tre. Ludwig ricorda Wittgenstein ed è ossessionato da Frege, logico matematico pure realmente esistito.
I due uomini travestiti da donna imprimono fin dall’inizio un tono farsesco alla tragicità di ciò che vediamo, ma mantengono una sobrietà interpretativa funzionale al senso dell’opera. Valerio Bongiorno è una sorella minore sguaiata, inelegante, disillusa, cinica e costantemente con la sigaretta in bocca, ed è perfetto contraltare della maggiore, apprensiva, materna ed emotiva. Le due si lanciano pugnalate reciproche, aspre critiche alla fallimentare condotta di ognuna, la sorella minore accusa mentre l’altra apparecchia ansiosa la tavola in attesa del fratello. L’arrivo di Ludwig/Rossi dà una scossa allo spettacolo, che acquista ritmo e vivacità. Paneacqua ha assistito però a una delle primissime repliche, ancora in viaggio verso quell’oliatura necessaria alla fluidità dell’andamento, che confidiamo sarà presto raggiunta. La prima parte dovrebbe essere più preoccupata, l’attesa più concitata. La follia arguta di Ludwig si potrebbe distribuire di più sugli altri due personaggi, anche prima che egli sia sul palco, così si apprezzerà appieno il mestiere dei tre attori, a loro agio in questo straniante dramma borghese.

Palminiello-MarosMaros, parola russa per “gelo”, è una lettura corale di Le tre sorelle, anche qui le protagoniste sono parenti, la giovane Irina, la saggia Olga e l’arrabbiata Mascia, intorno a loro gli altri personaggi, dieci attori in tutto. Anche qui una famiglia è il cuore del racconto, ma le diramazioni verso l’esterno allargano il mondo facendo entrare aria apparentemente fresca. E aria fresca è davvero quella che colpisce gli spettatori perché nell‘allestimento studiato per lo spazio di via Ferrari si aprono spesso porte e finestre sui cortili, sul retro dei palazzi milanesi adiacenti al teatro. Noi siamo in prima fila, come dentro la casa russa e percepiamo l’inverno vero, ottima soluzione per far sentire il pubblico, non coinvolto, abbracciato dalla rappresentazione. Contrariamente a molte messinscena cechoviane, statiche, a sottolineare la fissità dei caratteri, l’inanità delle esistenze, qui c’è un gran movimento, quasi come se la ricerca continua della felicità fosse anche un cercare dentro casa, cercare oggetti, cercare indumenti, cambiare piano, entrare e uscire nella speranza di imbattersi nel destino.
Lo spettacolo nasce come prova finale (presentata l’estate scorsa al festival di Castiglioncello) di un brillante gruppo di allievi, molto ben diretti da Renata Palminiello, che li fa muovere con una bella visione d’insieme, un attento gusto dell’inquadratura, e alcune pregevoli idee teatrali: un lenzuolo che è prima protezione ma poi si avvoltola intorno ai piedi di Irina non lasciandola libera di esprimere la sua vera volontà, il gesto delle tre ragazze che con stracci fanno volare da terra i coriandoli della festa di onomastico, come se un oggetto di lavoro allontanasse l’allegria ma ne permettesse anche l’ultimo svolazzo.
Molta parte dello spettacolo si svolge alla sola luce che entra dalle finestre, cui sono stati tolti gli oscuramenti, rettangoli di luce livida tra i quali i personaggi si muovono, alla disperata caccia della vera fonte di luce, che per le tre sorelle è l’agognata Mosca, che mai raggiungeranno. I dieci attori (che ogni sera si scambiano i ruoli), formano un insieme equilibrato, si avverte ancora un po’ di acerbità e talvolta qualche eccesso di impostazione, ampiamente compensate dalla capacità di mettere emozioni sincere in una vicenda che non concede a nessuno ciò che vuole. Piccole tragedie, incomprensioni domestiche, un duello, denaro perso al gioco, un tradimento. Sentimenti che ardono, come l’incendio nel quartiere, destinati, come quest’ultimo, allo spegnimento. Nonostante le finestre che si aprono non c’è abbastanza aria per tenere acceso il fuoco di queste anime russe, intimamente calde ma incapaci di vincere l’inverno che le circonda.
Due famiglie, ognuna infelice a modo suo.

Un videopromo di Maros
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Petitoblok

PetitoblokRENZO FRANCABANDERA | L’impegno dei giovani di Punta Corsara alla ricerca di una loro cifra originale prosegue senza inciampi, e dopo il Monsignor de Pourcegnac presentato ormai tre anni fa al Napoli Teatro Festival, il Petitoblok, che aveva debuttato a Castiglioncello l’estate scorsa e andato in scena in questi giorni all’Elfo di Milano, rappresenta un ulteriore tassello che chiarisce due questioni sulla strada presa dal gruppo.
La prima riguarda il tema drammaturgico: l’intersezione di riferimenti che fanno da ispirazione-pretesto e da cui il lavoro prende il nome, si colloca entro un’indagine più ampia sul senso della commedia nel teatro oggi. Se l’impianto narrativo rimane fedele ai canoni della struttura tradizionale il tentativo nuovo e di natura più “semiotica” è quello di non abbandonare mai una riflessione sul teatro e sui suoi elementi fondanti: la maschera, il personaggio, gli elementi artigianali tipici del territorio in cui Punta Corsara nasce, riletti con intelligenza e capacità di innovazione.
Non ci troviamo di fronte dunque a sgradevoli riletture in salsa fusion di ricette tradizionali, con spezie esotiche e impiattamenti scenicamente roboanti. Anzi. La vicenda narrata è quella di due maschere/personaggi della tradizione, Pulcinella e Felice Sciosciammocca, protagonisti il primo della commedia dell’arte e il secondo di quella rilettura tardo Ottocentesca e di inizio Novecento della commedia che fece poi la fortuna di interpreti del grande schermo del calibro di Totò, Peppino de Filippo ecc. La loro presenza risulta talmente ingombrante ad un presunto innovatore del teatro, teorico del medesimo come luogo della finzione, che costui, come novello Faust, stringe un accordo con La Morte per eliminare le due figurine.
Attorno a questa serie di tentativi che saranno senza esito, si costruisce la vicenda comica e nel complesso ben interpretata di Petitoblok, con la vittoria delle due maschere della tradizione in un’escalation di vicende grottesche in cui ci sarà spazio per un’automa che, come in Blade Runner ma senza tutto quel corredo fantascientifico, sedurrà uno dei protagonisti, sfuggendo alle grinfie del suo Mangiafuoco.
C’è una povertà di cui Peter Brook sarebbe andato fiero, pochi bastoni a delimitare, dal punto di vista scenografico, la vita e la morte, il dentro e il fuori, e che diventano nel finale impalcatura per ricreare uno spazio di teatro nel teatro.
Il corredo musicale è una chicca di raffinatezza melange, con riletture per mandolino di celebri brani di musica classica.
Della fruizione di questo spettacolo, visto alcuni giorni fa, resta una sensazione di vitalità. E’ una messa in scena vivace, non rivoluzionaria ma neanche ascrivibile all’esercizio di stile tout court. E’ un impegno concreto a realizzare un atto creativo necessario quello a cui lo spettatore viene chiamato ad assistere, in cui gli attori lavorano come personaggi e come persone a dichiarare l’immortalità del carattere archetipico della forma culturale tradizionale di un territorio.
E se è vero che, ancor prima di Plauto e di Aristofane e certamente anche prima, il genere della Satura consentiva quella generale riflessione sulle corde dell’allegria dell’accadimento sociale e di quanto della società si riflette sulla scena, questa drammaturgia, che è antinaturalistica di per se stessa per argomento e interpretazione, ci lascia due tre questioni interessanti in tasca. Innanzitutto una chiara memoria di quello cui si è assistito. Fosse un vino diremmo persistenza. Ricordarsi uno spettacolo, un programma tv, un atto creativo dopo alcuni giorni non è scontato. Dopo alcune settimane per la gran parte delle persone è spesso un esercizio quasi impossibile. Petitoblok invece si lascia ricordare.
In secondo luogo un sapore delicato ma non insipido, fiabesco, ma per pretesto. Il recitato ha un’attinenza con il popolare, con quello che potrebbe vedersi perfino in una recita amatoriale, ma ha la capacità di avere quel sapore pur essendo un gesto “professionale”. Perché? Perché il tema che evidentemente interessa il gruppo di lavoro di Punta Corsara è, a prescindere da ogni valutazione di merito artistico, quello di riuscire ad affermare il proprio messaggio in maniera agevole dal punto di vista comunicativo, limitando allo stretto necessario le sovrastrutture della formazione. Insomma si capisce che c’è Brook, ma senza saccenti ed estenuanti atti di pauperismo artistico fine a se stesso, risulta chiara la ricerca sul movimento biomeccanico e sul contributo della scuola russa del secolo scorso, ma senza che l’atto scenico si completi in un’estenuante dimostrazione laboratorial-sperimentale.
Di questo spettacolo potrebbe godere l’intellettuale che cerca i segni delle “presenze” e il ragazzo dal portato popolare e non addomesticato a nessuna somministrazione continuata di kriptonite teatrale. E quindi, tornando a casa, ci si chiede quante, fra le tante creazioni cui si assiste, hanno questa che a nostro avviso resta una caratteristica importante, che consente al teatro di esistere ancora e di essere meccanismo di dialogo e comunicazione nella società. Poche.
Sostenitori come siamo della semplicità come atto rivoluzionario, diamo a Petitoblok un attestato di merito. Non c’è nessuna vera novità che non porti dentro di sè il codice comunicativo con cui l’umanità si è fino ad oggi espressa: perfino la comunicazione a mezzo dispositivi mobili, contro ogni previsione di alcuni anni fa, avviene ancora con l’antico meccanismo della scrittura. Petitoblok è un piacevole lavoro di antichissima modernità.

Un servizio video di trmh24 che sintetizza l drammaturgia e propone alcune immagini dello spettacolo 

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Le tante sfaccettature di Franco Battiato

battiato-bigMARIA PIA MONTEDURO | Un concerto di Franco Battiato può essere letto da diverse angolazioni: i testi, le musiche, il suo interloquire con il pubblico. E ancora: la chiave mistica, quella filosofica, le canzoni di denuncia impegnate socialmente e politicamente, i brani di ricerca sperimentale. Nella tournée che il maestro catanese sta svolgendo in tutta Italia per presentare, anche, il suo ultimo lavoro “Apriti Sesamo” c’è tutto questo. All’Auditorium della Conciliazione di Roma quattro serate di “tutto esaurito” (come si diceva un tempo…) per un pubblico che va dagli 0 ai 99 anni, di appassionati, di fan, di estimatori di un autore che non finisce di aver voglia di ricercare nuove strade e nel contempo di parlare di temi, forse, obsoleti: la spiritualità, una fede aperta e non dogmatica, la ricerca dell’io interiore, la reincarnazione. E per parlare di tutto ciò l’orizzonte culturale di Battiato spazia dalla tradizione araba a Dante Alighieri, dall’autore seicentesco Stefano Landi e Santa Teresa d’Avila, da Gluck e Rimsky-Korsakov… Ma rivisitando tutto a proprio modo, con il contributo sempre presente del filosofo corregionale Manlio Sgalambro.
La prima parte del concerto (dopo quattro canzoni – tra cui la traduzione in siciliano di “Bocca di Rosa” – eseguite dal cantautore e attore siciliano Mario Incudine, molto valido) è affidata all’esecuzione dei brani dall’ultimo CD, che il pubblico ormai conosce a memoria (nonostante sia uscito pochi mesi fa) a ribadire l’affetto e quasi la “devozione” con cui il pubblico segue Battiato. Dopo un delicatissimo brano commentato da ologrammi proiettati sullo sfondo (come nella prima opera ad ologrammi tridimensionale “Telesio” composta dall’artista siciliano nel 2011), seguono molti brani classici del suo repertorio, evidenziando le canzoni che più di altre trattano del trascendente: tra le tante “Lode all’inviolato”, “Mesopotamia”. Sono quei brani che fecero sì che Battiato, nel lontano 1989, fosse il primo cantante rock a essere invitato ad esibirsi in Vaticano davanti al papa polacco! E poi l’attesissima e vivace carrellata dei grandi successi noti a tutti: tra le tante “La stagione dell’amore”, “Prospettiva Nevsky”, “Cuccuruccu Paloma”, “La cura” “Bandiera bianca”, “E ti vengo a cercare”, sempre punteggiati da dialoghi con il pubblico che canta, balla e partecipa a una grande gioia collettiva.
Invece dei tradizionali bis, Battiato regala al pubblico uno spaccato di alcuni suoi brani dell’inizio degli anni ’70, quando la sua ricerca sperimentale lo portava alla musica elettronica pura, partecipando anche a festival di ricerca in tutta Europa. E poi ancora le canzoni più note “Voglio vederti danzare” su tutte, dove ancora pubblico e artista ballano assieme, in un atteggiamento che unisce contentezza e intensa voglia di stare assieme.
Questo concerto ha indubbiamente una marcia in più, ed è data dalla forza mistica e coinvolgente dell’ultimo lavoro di Battiato. Egli non teme di parlare all’intimo del pubblico, di accostarsi a temi non comuni per le canzoni e riesce a farlo mantenendo il suo stile personalissimo, ma riconoscibilissimo. Pur se utilizza, come detto, anche motivi e richiami alla musica classica e “colta”, il risultato è comunque musica pop, quindi godibile e raggiungibile da un pubblico anche non necessariamente abituato alla musica classica. Battiato convince una volta di più perché non segue mode effimere e perché riesce a far passare il suo mondo, o una parte di esso, senza artifici e menzogne. Nei suoi dialoghi con il pubblico (meglio monologhi rivolti al pubblico), infarcisce i tanti aneddoti della sua lunghissima carriera con riflessioni sull’attualità sociale, politica, addirittura partitica. Mantenendo sempre presente la sua ironia e anche auto-ironia, che lo porta a trattare le piccolezze umane con un certo qual distacco, molto tipico nell’intellighenzia siciliana. Interessante anche la scelta di proiettare sullo sfondo immagini tratte dai video delle canzoni e antiche immagini di Battiato stesso a commento dei brani più noti. Sicuramente da sottolineare il silenzio rispettoso con cui il pubblico segue la prima parte del concerto, quella dedicata alle numerose tracce di “Apriti Sesamo”: dagli applausi spesso ritmati con cui sono sottolineati i ritornelli delle canzoni si evince come il pubblico abbia già fatto sue queste tracce, ma la canzone nel suo insieme è ascoltata, si passi il termine, con religioso silenzio. E lo stesso artista in numerose interviste sottolinea questo “miracolo” che si compie a ogni tappa del lungo tour. Insomma, un concerto che lascia un segno.

Una video intervista al cantautore sulla tournèe e il servizio della RAI sull’evento
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