MATTEO BRIGHENTI | Dire insieme più di quanto si vede da soli. Nessun racconto è un’isola, nemmeno se vissuto nell’isolamento da Coronavirus. È un pezzo di memoria collettiva, una finestra che si apre su fatti, riflessioni ed emozioni. The Covid-19 Visual Project. A Time of Distance è l’archivio online, permanente e in costante aggiornamento, che intende guardare dentro il condominio del mondo al tempo della pandemia. Un progetto ideato e prodotto da Cortona On The Move, in collaborazione con Intesa Sanpaolo.
«Siamo partiti con il festival 10 anni fa – afferma Antonio Carloni – il claim era Fotografia in Viaggio. Piano piano ci siamo trasformati in un “viaggio nella fotografia”, analizziamo i cambiamenti di linguaggio, ma anche i mutamenti sociali. Questo è il motivo per cui siamo arrivati a The Covid-19 Visual Project».
Classe ’81, cortonese di nascita, milanese d’adozione, Carloni è il Direttore della manifestazione che dal 2011 promuove e diffonde la fotografia dal borgo etrusco di Cortona, in provincia di Arezzo, nella Toscana tra la Valdichiana e la Valle del Tevere. Un punto di riferimento per fotografi affermati e amatoriali, ma anche per un pubblico nazionale e internazionale attento alla cultura contemporanea. «La soluzione che abbiamo trovato per rimanere tra i grandi festival è innovare sempre – spiega –; ci siamo quindi accorti che non potevamo parlare soltanto di fotografia, piuttosto di visual narrative, ossia di narrazione visiva. Le immagini sono il referente principale, ma non bastano a raccontare una storia, devono essere accompagnate anche da un testo, da un audio».
La somma dei punti di vista e degli strumenti fa dunque il racconto. Una linea interpretativa attuata con progetti d’autore commissionati a fotografi e videomaker di fama mondiale, in Italia e nel mondo, suddivisi in 7 capitoli più Una visione d’insieme introduttiva: La sfida della sanità, Il vuoto urbano, Il lockdown, Le conseguenze economiche, Una società ferita, La rivincita della natura, Una nuova normalità. E poi, le sezioni dedicate alla comunicazione social, agli articoli della stampa internazionale; la chiamata pubblica globale per visual artist in collaborazione con LensCulture, una delle più grandi comunità online di fotografia contemporanea; le analisi sull’impatto sociale ed economico della crisi sanitaria nel Belpaese affidate al sociologo Francesco Morace e all’economista Massimo Daveri.
La piattaforma continuerà a essere aggiornata fino a che non sarà trovato il vaccino e darà luogo anche allo stesso Cortona On The Move. L’11 luglio inaugura la sua edizione speciale dedicata a The COVID-19 Visual Project con una selezione curata di alcuni dei lavori. Il festival andrà avanti fino al 27 settembre con una possibile proroga per il mese di ottobre.

Foto Luján Agusti & Nicolás Deluca

La prima domanda, come hanno imparato i nostri lettori, è d’obbligo. Si dice o, almeno, in tanti dicono che questo è un “tempo sospeso”. Che cosa significa per te?

La mia idea è che il “tempo sospeso” sia finito. Era il momento del lockdown, del capire come risolvere il problema in cui ci siamo trovati tutti. Adesso, però, è concluso. Ti dico la verità: al di là dello sconforto iniziale delle prime due settimane, io e tutto il gruppo di Cortona On The Move abbiamo ritenuto che questa fosse la grande occasione per rielaborare la nostra strategia e il nostro lavoro.

Però, non appena è arrivata l’emergenza sanitaria avete dovuto fermare tutto.

Il Coronavirus ci ha messo in gravissima difficoltà. L’unico paragone che mi è venuto in mente, a me come a molti altri, è con la Seconda guerra mondiale. Certo, non è una guerra, è una pandemia, ma la cicatrice che lascia è simile a quella di una guerra. All’inizio ci è veramente crollato il mondo addosso. Passati però i primi dieci, quindici giorni nello sconforto, ci siamo guardati intorno e ci siamo accorti che nessuno – né le istituzioni, né i giornali, né le televisioni – aveva pensato di creare un luogo, un archivio in cui raccogliere le storie di un pianeta che stava e sta tuttora cambiando. Quando abbiamo deciso di realizzarlo noi, la nostra identità è cambiata. Adesso non siamo più un “contenitore di contenuti”, scusa il gioco di parole, ma un produttore di contenuti: paghiamo i fotografi per raccontare le storie e raccoglierle nella nostra piattaforma. Questa è la grande occasione che ci è capitata.

Dalla serie Contingency Plans. Foto Mattia Balsamini

The COVID-19 Visual Project è un cambio radicale di prospettiva?

Per noi è un passaggio molto importante. Prima eravamo un punto spazio-temporale in cui gli esperti, i professionisti, gli appassionati di fotografia e di video si incontravano, ora siamo tra quelli che dettano le linee. In pratica, siamo diventati un piccolo editore che dice: nel mondo succede questo, voglio raccontarlo. Ciò significa  che le storie devono essere inedite, che i fotografi devono essere pagati, e che il festival come lo conoscevamo non basta più. Ci sarà sempre, ma non non basta più: la nostra identità, il nostro lavoro sono cambiati.

Il sottotitolo è già di per sé una linea editoriale: A Time of Distance, ovvero Un tempo della distanza.

La crisi attuale ha rotto in maniera drammatica il nostro schema sociale: solo il fatto che non ci si può dare più la mano è una cosa gigantesca. La vera protagonista del nostro tempo è la distanza, il non poter stare vicini. È innegabile, ce lo dice la legge. È questo il racconto che vogliamo fare.

Il bello è che la fotografia ha la sua forza proprio nella vicinanza. Come dice Robert Capa: «Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicino». Nel vostro caso, mi pare di capire, si tratta piuttosto dell’accostamento tra una foto e l’altra di un autore: vanno lette nella loro completezza, al pari delle pagine di un libro?

La foto singola non basta: noi parliamo di storie e le storie si costruiscono con un percorso visivo. Il percorso visivo è la restituzione finale del viaggio di conoscenza che fa un autore. Quindi ciò che dici è giusto, non sono sono solamente fotografie,  sono momenti ricchissimi di contenuto, di significato, da prendere nel loro insieme. È un aspetto fondamentale, però riguarda noi, è un’esigenza che noi abbiamo sempre sentito come festival prima e poi come quello che siamo diventati adesso. Ci sono degli scatti iconici però non è possibile, ripeto, raccontare una storia personale o un evento globale come Covid-19 con un’immagine e basta.

Dalla serie Covid on Scene. Foto Alex Majoli/Magnum Photos

Il primo reportage contenuto nell’archivio è Covid on Scene di Alex Majoli, che ha attraversato l’Italia del confinamento a partire dalla Sicilia: Roma, Milano, fino al confine con la Slovenia. Un’opera unica in cui spiccano le sfumature, dove restano incredibilmente attenzione e ascolto. Sono gli scatti di un momento che diventa storia dell’umanità, con il suo disumano dolore?

È il capitolo della visione generale di ciò che stava succedendo nella cosiddetta “Fase 1”. Le immagini di Majoli, con quel bianco e nero drammatico e quello stile molto teatrale, potranno realmente raccontare quel periodo anche al di fuori del nostro progetto: tra vent’anni ci diranno ancora cosa stava succedendo e chi siamo stati allora. Perché poi l’obiettivo del fotografo non è fermarsi all’oggi, ma portare a casa un lavoro che continui ad avere nel tempo una valenza esplicativa. Tra un po’ uscirà un altro progetto di quella portata, con un altro fotografo, che racconterà la “Fase 2”, ormai “Fase 3” (sinceramente, non ho ben capito la differenza).

Scorrendo i progetti, vorrei soffermarmi su Simon Norfolk ed Edoardo Delille che con Lost Capital e Silenzio indagano la bellezza spoglia in una Londra e una Firenze deserte; su Daniele Ratti che con Next stop fotografa le autostrade e gli autogrill italiani svuotati dalla pandemia; su Mattia Balsamini e Raffaele Panizza che si concentrano sulle realtà del Made in Italy; su Gabriele Galimberti che con Support Local Business dà voce alle botteghe. In qualche modo, spogliando i luoghi delle persone o della loro funzione, il Coronavirus ha reso “monumentale” il fuori, qualunque esso sia?

Norfolk, Delille e Ratti sono fortemente vicini, perché narrano di posti completamente svuotati, che hanno perso di senso. Sono luoghi che soffrono il virus, sono “sconfitti”. Ma rappresentano solamente un lato della medaglia. Balsamini e Panizza ci portano nelle aziende riconvertite in produzioni sanitarie e medicali; Galimberti, dal canto suo, parla della rivincita dei piccoli: i negozi di prossimità. Il virus, paradossalmente, è antiglobalizzazione, ci impone di ritornare al quartiere. È un aspetto di quello che è successo interessantissimo sociologicamente, secondo me. C’è da capire se nella ricostruzione del nuovo equilibrio rimarrà oppure no.

Dalla serie Silenzio. Foto Edoardo Delille

Vivremo una vita solo con i congiunti, per dirla in una battuta?

È ancora tutto da capire. È vero che è finito il lockdown, ma io esco molto meno di prima, per dire. È inutile negarlo, questa crisi è stata molto dirompente.

Voglio mettere insieme altri due lavori: COndiVIDendo 19 di Mattia Crocetti, il progetto di ritratto collaborativo con italiani chiusi in casa; Afuera, attraverso cui il visual artist Luis Cobelo getta dal suo terrazzo uno sguardo a 180 gradi sulla chiusura di Barcellona. Abbiamo trovato il fuori nel nostro dentro: è questa l’ambivalenza che i fotografi intendono restituire?

Sì, e i due hanno trovato soluzioni diverse per metterla in pratica. Crocetti per “uscire” ha coinvolto i propri soggetti, mentre Cobelo ha fatto questo video con un iPhone, secondo me geniale, in cui ha raccontato come le persone gestivano – perché diventa poi uno spazio da gestire, a quel punto – il proprio fuori. La cosa pazzesca è che ognuno è fuori, ma si capisce che in realtà è dentro, perché sono tutti o quasi tutti soli, immersi nei propri pensieri. Eravamo concretamente tutti chiusi alla ricerca di un appiglio verso il fuori. La tua osservazione è giusta, siamo andati alla ricerca di un fuori, che però è sempre stata governata dal dentro, diciamo.

Dalla serie Afuera. Foto Luis Cobelo

Nel complesso, The COVID-19 Visual Project dimostra che ciascun fotografo ha governato la paura. Non trapela alcuna rassegnazione, ma grande lucidità. È la caratteristica che cercate in un professionista?

È normale quello che dici, i fotografi si mettono di fronte alla realtà e la devono, in qualche modo, governare. Poi, certo, le modalità di “governance” sono soggettive. Noi siamo alla ricerca di professionisti che raccontino storie belle. La nostra forza è mettere insieme tanti lavori diversi, che arrivano da tutto il mondo o quasi. Comunque, nei casi in cui si è trattato di affrontare l’emergenza sanitaria – come per Jérôme Sessini con Lottando contro il COVID-19 nella Francia orientale, o in Italia per Andrea Franzetta con Turni di vita e di morte e per Alessio Romenzi con Don’t Leave Me Alone – c’è stata da governare anche la paura di portarsi a casa il virus. Lì ci siamo avvicinati davvero al clima della guerra: ognuno doveva essere molto bravo a difendersi. È un tassello molto importante dell’identità lavorativa delle figure con cui lavoriamo noi, che sono fotografi documentari, alcuni fotogiornalisti.

Bisogna fare un passo avanti per avvicinarsi, ma di lato per difendersi?

Rimane comunque il fatto che per poter raccontare realtà così devi esserci dentro.

Non vi siete accontentati dei progetti su commissione. Sul portale selezionate anche immagini prese dai social, articoli della stampa internazionale e avete lanciato pure una chiamata pubblica globale per visual artist.

Il nostro fine è creare un archivio della pandemia globale, quindi con storie che arrivano da tutto il mondo. Non saremo mai esaustivi, forse Google potrebbe pensare di farlo, sicuramente non noi. È una cosa che ci siamo detti fin dal primo momento. Ciononostante, ci siamo accorti subito che i lavori commissionati non bastavano. A quel punto abbiamo deciso, da una parte, di seguire quello che succede nei social network, perché sono una fonte popolare, cioè dove tutti sono autori e spettatori, dall’altra parte, ci siamo appellati ai media, perciò raccogliamo gli articoli più interessanti. Ci serve per dare completezza di informazione.
L’open call, invece, ci permette di raggiungere quelle parti del mondo in cui non arriviamo con i nostri contatti, di avere degli occhi dove non possiamo vedere. È rivolta a tutti, possono partecipare sia i professionisti che i semplici amatori: stiamo facendo una scrematura, i migliori verranno caricati nel sito.

Dalla serie Support Local Business. Foto Gabriele Galimberti

E ancora, avete chiesto due contributi scritti al sociologo Francesco Morace e all’economista Massimo Daveri. Non era sufficiente la fotografia dei corpi, ci voleva anche la fotografia, passami l’espressione, del pensiero?

Nessuno di noi è un intellettuale o comunque un pensatore in grado di racchiudere in un testo quello che sta succedendo. Abbiamo chiesto una visione sociologica e una visione economica perché ci sembravano i due aspetti più colpiti dall’emergenza. È una cornice di pensiero in cui si muove l’intero nostro progetto. Come il governo Conte, ci siamo appellati a degli esperti per arrivare dove noi non possiamo. Più pezzi si riescono a mettere insieme, più il progetto è completo. Mai esaustivo, come abbiamo detto, ma più completo sì.

Da più fronti si sostiene che lasceremo dietro di noi “un deserto di immagini”. Per questo avete deciso di fare una mostra da The COVID-19 Visual Project?

Io sulla questione del “deserto di immagini” non so mai se essere d’accordo o no. Non è più come prima dell’avvento degli smartphone che le immagini erano in delega a pochi autori, adesso siamo tutti autori e fruitori, è normale che ci siano un sacco di foto che vediamo e subito dopo perdiamo. A mio avviso siamo ancora agli inizi di un processo che va capito. L’esigenza di mettere le foto al muro è quella di rispondere a un momento in cui sembravamo tutti morti, in cui pensavamo che non servisse più niente. Nelle ultime settimane, da quando abbiamo ripreso a uscire, ci siamo accorti che c’è bisogno di rispondere alla crisi, di ricostruire, di ricominciare un percorso verso la normalità.

L’archivio vi darà modo, nonostante tutto, di tornate a incontrare i visitatori di Cortona On The Move, dando loro la possibilità di fare un’esperienza immediata, ossia non mediata da alcuno schermo.

Esatto. Riguarda la socialità, fare le cose insieme e quindi poterne discutere, poter condividere un pensiero subito. E restituire, per certi versi, vita alle fotografie.

Dalla serie COndiVIDendo 19. Foto Mattia Crocetti