the effect1LAURA NOVELLI | Cosa differenzia una persona depressa da chi non si sente tale? E’ possibile non esserlo pur credendo il contrario? E’, viceversa, possibile esserlo senza averne consapevolezza? Un depresso conosce la vita più in profondità? Esiste una terapia che assicuri il controllo di se stessi e, nel contempo, garantisca una guarigione? E l’amore che ruolo gioca nell’incostante quadro dei sentimenti umani? Siamo noi che scegliamo chi amare o, piuttosto, c’è qualcosa di insondabile che ci guida? Possiamo realmente indirizzare la nostra esistenza e le nostre relazioni? Sono alcune delle domande che, più o meno implicitamente, ci consegna l’arguta pièce The Effect della britannica Lucy Prebble (già nota per i precedenti Liquid e The Sugar Syndrome), che il regista Silvio Peroni ha presentato alla Sala Umberto di Roma nelle sere scorse. Un lavoro interessante, nuovo, a suo modo misterioso, dove si anatomizza l’animo umano con un piglio scientifico che mescola linguaggio medico e dibattimento processuale nel tentativo di trattare la nostra emotività come fosse una cavia da esperimento. Un oggetto dalle matematiche funzionalità. Un meccanismo facilmente controllabile. Salvo poi sparigliare ogni (im)possibile statistica, indagine, ricerca. Perché si sa che nulla è più inafferrabile della coscienza e che nessuna risposta potrà mai essere data al “chi sono io?” di amletica memoria.

L’azione si svolge in una clinica asettica e spoglia dove due giovani ragazzi,  interpretati da Giuseppe Tantillo (Tristan) e Sara Putignano (Connie), si sottopongono ad una sperimentazione farmaceutica per verificare l’efficacia di una nuova terapia antidepressiva. Ideatori e supervisori dell’esperimento sono un uomo e una donna più maturi (entrambi medici ed ex-amanti), Toby e Lorna (Alessandro Federico e Alessia Giangiuliani), che affrontano la ‘faccenda’ in modi assai diversi. Al lucido raziocinio di lui fa, infatti, da controcanto la fragile dubbiosità di lei, tanto che il loro dialogo in molti passaggi si erge a paradigma emblematico del Teatro stesso: tribuna sociale in cui rispecchiarci, sentirci giudicati o in bilico o studiati, come fossimo sotto una lente d’ingrandimento.

La scenografia (a firma di Katia Titolo) è scarna, essenziale. Due lettini. Un grande schermo/video sul fondo in cui vengono proiettati in azzurro il nome del farmaco in questione – il RLU37 – e le dosi via via somministrate. All’inizio tutto sembra procedere secondo i piani. Tristan appare quasi distaccato, ironico, sereno. Più problematica e inquieta è Connie (cui la Putignano regala corde efficaci e una naturale credibilità) e i rivoli ambigui del testo amplificano il divario emotivo tra i due (nonché quello tra i ‘malati’ e la coppia dei ‘sani’), ponendo in gioco una dialettica sempre accesa tra veridicità delle (propria) depressione e paura per gli effetti della chimica sulla (propria) mente.

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Ad un certo punto, però, in questo ring affollato di verità negate e certezze disilluse, tutto cambia. Arriva un agente non previsto che ribalta la ragion d’essere dei quattro personaggi. I due ragazzi  capiscono di essersi innamorati ma capiscono pure che questa passione amorosa ‘potrebbe’ essere un effetto della ‘droga’ ingerita. A complicare la situazione ci pensa un ulteriore nodo problematico: la rivelazione che solo uno dei due (e non è dato sapere chi) ‘potrebbe’ essere stato scelto come soggetto sottoposto a placebo.

Si apre perciò una voragine di domande e paure. Siamo realmente padroni di noi stessi? Siamo lucidi quando proviamo amore per qualcuno? Siamo capaci di avere un centro che ci faccia sentire realmente noi? E’ la vertigine dell’Uomo contemporaneo. E’ quel coacervo di interrogativi figli della nostra cultura laica e libera che, soprattutto a partire dal ‘600, ci sospinge sul baratro della nostra vita e ce la mette in mano affinché ognuno di noi decida che farne. Non è un caso che sia proprio il personaggio di Amleto ad essere qui esplicitamente evocato attraverso un cervello umano che tanto somiglia al celebre teschio del solitario eroe shakespeariano.

Ma se nella tragedia del Bardo non è possibile altra fine che la morte, in The Effect – debuttato a Londra nel 2012 e vincitore del Critics Circle Award come Best NewPlay – alla morte si sostituiscono la nebbia, il buio, l’incapacità di fare luce, di ‘dire’ la verità. E’ anzi proprio il dialogo a sostenere l’intera impalcatura drammaturgica della pièce e questo dire così concettoso, quasi pirandelliano, credo sia in parte un limite. La verbosità eccessiva rischia di rallentare il ritmo e di annoiare con ripetizioni ridondanti che non facilitano il compito degli interpreti. Tanto più che le due presenze maschili tendono al grottesco, mentre di misurata fluidità si nutre la bella  prova delle due attrici. Altrettanto fluida è poi la regia di Perone, calibrata su una resa quanto mai fedele al testo (lo traduce Andrea Peghinelli), dove tuttavia non manca qualche calo di tensione. Resta però forte l’impatto sul pubblico e, dopo la visione, ancora vibrano nella mente i sussulti di una scrittura complessa che, nella sua modernità, suona quasi arcaica. Paradigmatica.

THE EFFECT

di  Lucy Prebble

traduzione: Andrea Peghinelli

regia: Silvio Peroni

Con  Alessandro Federico, Alessia Giangiuliani, Sara Putignano, Giuseppe Tantillo

scene: Katia Titolo

luci: Omar Scala

video: Luca Ercoli

aiuto regia: Claudio Basilico

Produzione: Pierfrancesco Pisani – Progetto Goldstein – Ass. Capotrave

con il sostegno di Kilowatt Festival

Sala Umberto,  17 – 29 APRILE 2018