ESTER FORMATO | César Brie torna a esibirsi al Campo Teatrale di Milano – da anni una sua seconda casa – con lo spettacolo 120 chili di jazz.
Il monologo in questione è una storia nella quale Brie non esita a riportare sul palco il doppio binario sud America-Italia (nella fattispecie Milano) luoghi emblema della sua lunga traversata teatrale. Non è fra i più articolati lavori dell’artista argentino – ci sarebbe tanto da dire della sua carriera! – che si è raccontato attraverso una videointervista su PAC qualche tempo fa.

A suon di jazz, passando in platea, fa il suo ingresso danzando. Capelli tirati da un codino brizzolato, completo sul grigio e fazzoletto lilla nel taschino, si ripresenta al suo pubblico, mantenendo un ritmo vivace, veloce, accattivante.

La storia che porta in scena Brie nei suoi 120 chili di jazz è molto semplice: Ciccio Mendez che è tanto obeso, si innamora di Samantha Mariana la cui famiglia dà una grande festa nella propria villa. Non sapendo come entrare, chiede al contrabbassista di un gruppo jazz che suonerà per l’occasione di poter prendere il suo posto. Nonostante non sappia suonare lo strumento, seguirà gli altri membri della band imitando con la voce le melodie, suo vero talento.
In un’alternanza fra prima e terza persona, l’attore argentino esegue il suo monologo sovrapponendo due dimensioni spaziali: quella del suo sud America e quella della Milano dove iniziò la carriera i cui albori furono condivisi con Dario Manfredini.
Spesso il monologo si interrompe, lasciando spazio all’interazione con il pubblico con cui si crea uno scambio diretto, quasi domestico. Col fazzoletto lilla circuisce qualcuno in platea che faccia le veci di Samantha Marian.

brieSfilano attraverso le sue parole campesiños e mariachi, musicisti tradizionali boliviani e messicani che gli permettono di ricordare della fondazione del suo teatro in Bolivia (Il Teatro de los Andes), delle lotte, di frammenti di una storia ancora viva e drammatica nel suo sud America.
Il ritmo, sospeso fra quello cinematografico e quello di un vecchio vaudeville, risulta gradevole.

Si correrebbe il rischio di pensare questo monologo – uno degli spettacoli non proprio riusciti di César Brie – come l’esaurimento di una visione, di una poetica che ha attraversato decenni, se non fosse per il fatto che non è stato l’ultimo e che stiamo parlando di un lavoro che ha già alcuni anni. Stiamo scrivendo di un pezzo, di un tassello che resta come a sé stante nell’enorme puzzle della ricca carriera di un artista e attraverso il quale poco si intravede del linguaggio scenico complesso di un maestro.

Nelle varie interviste l’attore e regista argentino narra della sua poetica teatrale intrigante e articolata, degli sforzi iniziali, delle svolte che lo hanno portato alla  maturazione dopo la quale ci si può scontrare con momenti di crisi creativa rischiando di fare di questo punto della carriera artistica il soggetto di un’ostinata narrazione. D’altro canto, proviamo a considerare la seconda faccia della medaglia: spesso chi ha lasciato un segno nel mondo artistico resta in scena anche con lavori non rilevanti. brie2Accade perciò, che si trascinano più faticosamente un bagaglio prezioso e la propria storia di attore, che finiscono cristallizzati in un piccolo testo il quale pare più che altro una parentesi estemporanea, e non un segno d’involuzione. Riempie, anzi, il tempo di una creazione autoreferenziale che pone l’artista a tu per tu con un pubblico che lo conosce e con il quale stabilire una prassi addirittura d’interazione, quasi come un piccolo laboratorio scenico.

A tal proposito è emblematico il luogo in cui Brie si esibisce, quello di una piccola sala teatrale in Casoretto, dove ha per anni continuato il suo lavoro. Sembra ritornare un po’ agli albori di una carriera, quando nelle piccole sale teatrali, sgomitando, si cerca lo spazio per iniziare a raccontare, quando urge di mostrare qualcosa che è, sì, ancora informe, ma ugualmente “in potenza”. Una dinamica simile, dunque, quanto inversa, un’autoproduzione (anche in termini concreti) che trova uno spazio circoscritto e a sé stante; uno spettacolo senza dubbio autoreferenziale, un isolato gradino in un complesso di scale e che non predice per forza l’esaurirsi definitivo di idee e linguaggi, ma che appare inevitabilmente come un passaggio sterile che dietro può nascondere (perché no?) momenti di stasi e di riflessione, fondamentali in ogni percorso.

 

120 CHILI DI JAZZ

di e con César Brie
produzione César Brie Arti e Spettacolo

Campo Teatrale, Milano
30 gennaio 2020