GILDA TENTORIO | C’è un’atmosfera rilassata e familiare nella tana degli Elfi, che hanno ricominciato gli spettacoli a pieno ritmo (cfr. la nostra recensione ad Alfredino). Fra il pubblico ti capita di sedere accanto ai “padroni di casa”, Elio De Capitani e Cristina Crippa, che firma la regia della nuova produzione Nel guscio dal romanzo “folle e irreale”, di Ian McEwan (2016).

Un velame avvolgente racchiude la scena, che l’uso sapiente delle luci di Michele Ceglia trasforma in un antro protettivo color cremisi, talvolta spezzato da guizzi di neon e lividi pallori, fra ombre allungate o duplicate. Spazio ancestrale e onirico, «urna molle e segreta», per dirla con Pascoli: si tratta dell’utero di una madre in attesa. Protagonista infatti è il nascituro (Marco Bonadei) che, dopo aver nuotato a lungo nell’abbraccio del liquido amniotico, ora, capovolto, sta per attraversare la soglia.

Foto Marcella Foccardi

Come rappresenti un feto? Scegli un attore-bambino, o meglio giochi con le antitesi? Ecco infatti Bonadei, un ragazzone muscoloso di un metro e novanta in “costume adamitico” (salvo per un collare alla Pierrot), velato con delicatezza da opportune ombre. Se ne sta acquattato e ripiegato per una mezz’ora buona dentro un sacco-amaca-bozzolo che a stento lo contiene, finché una voce off informa che all’attore sarà concesso «per la sua salute fisica e mentale» di scendere con i piedi per terra e sgranchirsi. Da allora il feto-Bonadei, instancabile e sempre concentrato in una grande prova, corre e rimbalza sulla pedana-materasso, va in altalena e fa acrobazie, in una recitazione fluviale che è sussurro, esultanza, disperazione, ingenuo stupore.

McEwan sceglie la particolare condizione di un narratore liminare che ancora non esiste, da un osservatorio privilegiato. Cieco rispetto al mondo, nelle viscere della madre, egli assorbe avido ogni suono. Ascolta notiziari della BBC, audio-libri, lezioni in podcast, e sa molte cose. Talvolta anzi nel romanzo diventa quasi saccente, in un’ansia di onniscienza a tratti stucchevole. Bene hanno fatto gli Elfi a sfrondare le lunghe digressioni, spesso ponendo il marchio di fabbrica dell’ironia.

La creaturina, immersa nel suo connaturato solipsismo, è assediata dai suoni, riprodotti in modalità off: la pioggia, i passi, il gorgoglio del vino, l’acciottolio delle stoviglie, e soprattutto le voci (registrate) degli altri personaggi, attutite, deformate, oppure nette nella loro agghiacciante sonorità. Nonostante l’interazione comunicativa avvenga sempre nel “fuori” (nessuna tenerezza dialogica fra madre e figlio, come nel famoso romanzo della Fallaci Lettera a un bambino mai nato), il feto è avido di scambi. E allora imita le voci, completa le frasi o le “didascalie” come un narratore, mima e gesticola, interpretando in playback – il tutto calibrato con perfetta sincronia.

Questo spettacolo non poteva mancare nell’iniziativa L’Elfo in cuffia: dal 22 luglio migrerà dal palco al web e sul canale Spreaker sarà possibile scaricare il podcast di questa che è anche una partitura sonora. L’ascoltatore sarà ancora più coinvolto nel captare le vibrazioni inquietanti del mondo esterno.

L’incipit è folgorante. Vediamo il feto avvolto nel suo sacco-amaca. Si gingilla dondolando, fra gorgoglii, risolini, sillabe spezzate in una vocetta acuta. Gradatamente il tono si incupisce e si ripete un suono: “Ddd-du-du-dunque… Eccomi qui”. Come si sa, il “dunque” ha un valore conclusivo, presuppone un prima, che scopriremo a poco a poco insieme al protagonista, dipanando il puzzle degli eventi. McEwan sembra voler dire che ognuno di noi è un “dunque”, esito di un atto d’amore, di un processo chimico-fisiologico, ma anche approdo temporale e generazionale, nano sulle spalle dei giganti, alla ricerca dei perché della propria esistenza.

E in questo caso i perché germinano intorno a una situazione misteriosa. Il nascituro infatti è testimone invisibile e involontariamente complice di un complotto. La madre Trudy e l’amante Claude avvelenano John, il di lui fratello e padre-poeta del protagonista. Già i nomi sono indicativi e la storia rinvia alla vicenda di Amleto: il viluppo di lussuria e omicidio, l’ipocrisia di rapporti incancreniti, l’apparizione dello spettro di John, come pure tanti altri indizi che gli Elfi spargono strizzando l’occhio allo spettatore. A dominare è il senso di impotenza del feto-testimone, inetto e titubante. Eppure in un finale travolgente ricco di bellissime immagini, il nascituro prenderà una decisione forte: rompere la corazza acquorea e varcare il cancello del mondo, “entrare in scena”, cioè scegliere l’Essere. Riuscirà, lui così piccolo e solo, a dare “senso” a questo mondo così ingiusto?

Potenzialità di una vita tutta da scrivere, il feto è una lavagna intatta e pura, con il peso di una condizione umana che non ha scelto. La filigrana amletica disegna ragnatele di dubbi ed esitazioni, ma in modo significativo l’epilogo è un inizio.
Tradotto in termini post-pandemici: uscire, per quanto difficile, è liberazione e premessa per uno sguardo diverso. “Tutto il resto è caos”.


NEL GUSCIO

di Ian McEwan

regia Cristina Crippa
con Marco Bonadei
scene e costumi Roberta Monopoli 
assistente alla regia Alessandro Frigerio 
luci Michele Ceglia
suono Luca De Marinis
voci registrate di: Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Enzo Curcurù, Alice Redini, Vincenzo Zampa
produzione Teatro dell’Elfo

Teatro Elfo Puccini, Milano – 8 luglio 2021