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sabato, Maggio 10, 2025
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L’ultimo valzer di Zelda Fitzgerald: danza macabra secondo la Piccola Magnolia

GIULIA MURONI | Allontanarsi dalla follia sulla scorta di vorticosi arabeschi del pensiero e scrivere per fuggire l’incombenza oscura del disagio mentale. Questi i motivi per cui i medici di Zelda Fitzgerald, nella clinica psichiatrica di Baltimora, hanno incentivato la sua attitudine a scrivere. Non del stesso avviso il marito Francis Scott il quale pare sentisse sentimenti ambivalenti rispetto a questa attività, e alla stessa personalità dell’eccentrica e capricciosa coniuge.

10501799_10204686260865254_8891228869488711549_nPiccola Compagnia della Magnolia ha portato in scena “Zelda/ Vita e morte di Zelda Fitzgerald”, monologo tratto dalla tormentata vicenda di Zelda Fitzgerald a partire da “Lasciami l’ultimo valzer”, romanzo degli ultimi anni di vita in clinica psichiatrica. Il lavoro condotto dalla compagnia (Giorgia Cerruti e Davide Giglio) sul testo di Zelda e sui carteggi Francis-Zelda ha permesso di costruire una ricca drammaturgia in cui si dà spazio ai chiaroscuri della coppia, in bilico tra l’esaltazione dei ruggenti anni Venti in Europa e gli abissi di insicurezze e fragilità, pronti a riemergere e trascinare nel fondo. Non si tratta di un dialogo, è Zelda (Giorgia Cerruti) a dire la sua, a raccontare le loro vite dal suo personale punto di vista, deformandole con il mastice delle sue nevrosi e mischiandole con le storie dei romanzi di Francis, della sua infanzia agiata, delle numerosi ambizioni inespresse.

Visto a Racconigi (CN), nel cartellone de la Fabbrica delle Idee/Progetto Cantoregi, nell’abside della chiesa sconsacrata di Santa Croce, lo spettacolo vede in scena Zelda, seduta nel letto di contenzione della clinica in cui ha trascorso la fase terminale della sua esistenza e dove ha incontrato la morte. A otto anni dalla perdita di Francis, il delirio sembra avere la meglio su di lei e il soliloquio inscenato scorre tra l’amore e la nostalgia, il risentimento e il livore, tratteggiando i confini di una danza macabra ininterrotta. Sconquassato l’asse temporale, i numerosi flash-back, il rimestamento dei piani e la confusione di registri e prospettive contribuiscono a creare un mosaico complesso e variopinto, in grado di abbracciare tutta l’esistenza di Zelda Fitzgerald fino alla sua drammatica fine.

Giorgia Cerruti padroneggia con sapienza l’arte attoriale: non è una performer, è un’Attrice. Nella dicotomia tra attore tradizionale di teatro drammatico e performer postmoderno, la Cerruti muove verso una soluzione efficace e originale, scevra di birignao e consapevole della potenza specifica dell’arte attoriale, aperta ad un caleidoscopio di possibilità interpretative. In questo lavoro profondamente onesto e di qualità, la finzione è mostrata: nel suo volto si susseguono i mutevoli stati d’animo di Zelda che passa in rassegna la sua esistenza e nella voce, dal timbro ricco di variazioni, risiede un’intensità formale di rilievo.

Uno spettacolo caratterizzato da pochi elementi, ben calibrati e di pregio, indicativi di una declinazione dell’artistico scenico che non scivola nell’intellettualismo e che si fa carico di un’operazione estremamente valida: quella di dare spazio autonomo a una figura complessa e controversa sulla quale troppe volte sono state date letture subordinate alla celebrità del marito.

Teglio teatro festival Valtellina: natura e valori per legare le arti

DSCN5930RENZO FRANCABANDERA | Una tradizione che anno dopo anno si rafforza, nomi sempre migliori del panorama teatrale nazionale, da Francesca Mazza alla Scommegna, passando per Licia Maglietta e i burattini di Cortesi, legati alla musica, che da queste parti ha avuto un illustre concittadino fra i membri del Quartetto Cetra, Felice Chiusano, cui quest’anno è stato dedicato un omaggio con gli Italian Harmonists e un loro concerto dedicato proprio al repertorio dei Cetra e di quegli anni ruggenti.
E ancora cinema e letteratura, per un mix che anno dopo anno diventa sempre più interessante e capace di attrarre arte in una valle da sempre portatrice di tradizioni e valori consolidati, dal rispetto della natura, alla solidarietà della montagna.

Teglio in Valtellina, fra spettacoli ad alta quota, palazzi storici, eventi al confine con il bellissimo cantone dei Grigioni in Svizzera, è il luogo in cui tutto questo accade, e se accade è merito della tenacia con cui da anni l’ideazione e direzione artistica di Maria Agnese Bresesti sa mettere tutto insieme con movimentata dolcezza, affiancata negli anni alla direzione organizzativa da Giulia Cacioni.

Siamo stati ospiti del secondo week end, e fra presentazioni di libri dedicati al teatro a scuola, di documentari su Walter Bonatti, una leggenda in questa valle e non solo, spettacoli, concerti e feste, davvero raccontare tutto è stato in realtà facile come perdersi in una passeggiata di montagna dietro questo o quel profumo, o dietro un conviviale piatto di bontà locali.

Teglio insomma è un posto in cui venire in ogni stagione, e l’occasione estiva si rafforza con un festival che può ancora tanto crescere con la lungimiranza e la passione che già lo animano. L’edizione 2015 sarà dedicata al De rerum natura di Lucrezio e avrà come tema Dacci oggi il nostro pane, un legame forte con l’Expo e con la spiritualità di questa valle.

 IL VIDEOREPORTAGE DELL’EDIZIONE 2014 DEL FESTIVAL E’ DISPONIBILE CLICCANDO SULL’IMMAGINE SEGUENTE

 

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Ricucire il mondo: Maria Lai e l’arte ordita dei suoi fili

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FRANCESCA PEDDONI | Fili cuciti, ricuciti e scuciti. Fili tesi o aggrovigliati, liberi o annodati che s’impossessano dei linguaggi silenziosi di una piccola donna: Maria Lai. Sono i fili che uniscono virtualmente tre delle maggiori istituzioni artistiche della Sardegna: Musei civici di Cagliari, MAN di Nuoro e la Stazione dell’arte di Ulassai, in “Ricucire il mondo” – dal 10 luglio al 02 novembre 2014 – la prima retrospettiva dedicata all’universo artistico di una fra le più importanti protagoniste femminili dell’arte contemporanea.

Era una piccola donna sarda, con un passato legato agli zingari e alle leggende, in un luogo aspro come la Sardegna, terra primitiva di pastori e tessitrici, luogo un po’ magico dove le janas, le fate delle grotte, aiutano a costruire le trame delle cuciture di tappeti e di stoffe con il loro ordito che mescola rigore geometrico e libera fantasia. Sono i fili della tradizione e del passato che stanno alla base di quest’originale ricerca creativa che porterà l’artista ad amare le sue radici e allo stesso tempo a doversene staccare, trovando nei linguaggi contemporanei dei punti di riferimento necessari per quello che diventerà il suo linguaggio personale. L’immaginario intreccio d’arte allestito in occasione della mostra inizia con le prime opere esposte nel percorso cagliaritano: schizzi dell’artista realizzati dagli anni quaranta agli anni sessanta, influenzati dagli insegnamenti di Arturo Martini, suo maestro durante gli anni della formazione a Venezia.

Si tratta di disegni su carta, semplici, istintivi, immediati, poche linee evocano volti dignitosi e gestualità antiche legate al lavoro delle donne sarde. Le matite e le chine con gli anni accolgono il colore, steso a velature sulla carta; così il segno, sicuro e preciso, si evolve verso l’essenzialità. Nascono da qui i lavori più celebri: le Lavagne, le Geografie, i Libri cuciti, opere in cui l’artista interviene inventando parole non scritte, visibili ma incomprensibili, in cui libera e aggroviglia i tanto amati fili che prepotentemente s’impadroniscono delle sue opere. E’ sempre il percorso cagliaritano a offrire documentari e interviste, testimonianze commoventi dalla flebile voce dell’artista che nella sua apparente fragilità ha saputo “legarsi alla montagna”: il filo nel 1981 si trasforma in nastro e partendo da una leggenda locale che menziona un “nastro azzurro”, l’artista decide di legare con un tessuto lungo oltre venti chilometri 10615579_760613787315558_2316735299533274132_nle case del paese fino alla montagna, in cerca di una tregua spirituale con la natura. Una performance legata all’analisi delle emozioni dell’animo umano: uno stesso nastro che tiene uniti insieme odio, amore, amicizia, diversità e uguaglianze. Un grande telaio all’aria aperta, una metafora dell’arte, raccontata in mostra dalla proiezione del filmato originale. Il percorso cronologico continua al MAN di Nuoro con la produzione dell’artista dai primi anni ottanta al duemila, attraverso opere, materiali, documentari, foto e video dei principali interventi ambientali, da “La disfatta dei varani” a “Essere è Tessere”.

Una serie di lavori, tra cui “Lenzuoli”, “Libri cuciti”, “Geografie” e “Telai”, raccontano infine la relazione dell’artista con il mondo dell’infanzia e della didattica. La retrospettiva culmina nella Stazione dell’Arte di Ulassai, un museo d’arte contemporanea fondato dall’artista stessa. E’ il silenzio che accoglie il visitatore in quest’angolo sperduto della Sardegna, un’ex stazione ferroviaria immersa nel verde dell’Ogliastra. Qui sono raccolte le opere della maturità divise in due parti: le sculture esposte all’interno degli spazi museali e un percorso ambientale, caratterizzato da dodici opere suggestive, posizionate in spazi che dal parco dell’ex stazione si snodano all’interno del paese di Ulassai. Negli spazi museali, le grandi “Carte geografiche”, che l’artista ha continuato a modificare soprattutto negli ultimi anni; tele e velluti, luminosi e profondi sono dei grandi spazi cuciti, talvolta scuciti e poi ancora ricuciti.

Nel percorso lo spazio più interessante è dedicato alla bellissima installazione “Invito a tavola”, pani e libri monocromi “apparecchiano” un lungo tavolo bianco; un’Ultima Cena che rappresenta la fine del percorso artistico di Maria Lai, con due simboli che racchiudono l’essenzialità di un lavoro durato una vita: il pane e il libro, metafore dell’arte come nutrimento. E’ circondati dal silenzio di questo luogo quasi magico che si è coinvolti appieno dal testamento artistico di questa piccola donna sarda. Il suo linguaggio fatto di fili, cuciti ricuciti e scuciti, è testimone di una vita di ricerca, che qui finisce, fra le parole non scritte che raccontano di fate e telai, nastri e montagne silenziose.

Alcuni video della mostra

 https://www.youtube.com/watch?v=TL8mGWVreeI

https://www.youtube.com/watch?v=0rVoN64Fz-o

I burattini di Daniele Cortesi: il videoreportage

RENZO FRANCABANDERA | Incontriamo i burattini di Daniele Cortesi al Teglio Teatro Festival, un’occasione estiva di incontri che si svolge ormai dal 2009 in Valtellina da inizio a metà di agosto.
Cortesi è un erede di una tradizione per certi versi secolare, se si guarda all’evoluzione del burattino in Italia, una tradizione che distingue i pupi e i burattini, a seconda della meccanica di movimento, ma anche del patrimonio drammaturgico di riferimento, essendo i primi legati alla letteratura del poema epico e i secondi alla commedia dell’arte e alle sue evoluzioni dopo la rivoluzione francese.
Per altri versi, questa è una tradizione generazionale artigiana, fatta di ultimi detentori di un sapere che ha una specificità regionale molto forte, legata a personaggi nati fra fine Settecento e inizio Ottocento che sopravvivono proprio grazie alla tradizione verbale di artista in artista, di artigiano in artigiano.
La video intervista a Cortesi è dunque un documento ad un’arte che in modo superficiale viene definita come destinata ad un pubblico di bambini. Sono spettacoli di gradissimo fascino e abilità sia tecnica che teatrale, occasioni imprendibili che assolutamente segnaliamo. Incontrare un grande burattinaio, un puparo della vera tradizione, significa incontrare una fascinazione senza tempo, che unisce il pubblico di ogni età, riportandoci al confronto con forme d’arte straordinarie.

Di seguito il link al video reportage di oggi, a cui accedere cliccando sulla seguente fotografia.

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“Via”, Fabrizio Saccomanno ricorda i martiri di Marcinelle

saraVINCENZO SARDELLI | Un sottobosco culturale cresce nel Salento. Anche il teatro sta ampliando gli spazi. Fenomeno espressivo meno di folclore, il teatro salentino racconta un Sud che è categoria dello spirito. Affonda le radici nella storia. E predilige il dialetto come codice espressivo.

È il caso di Fabrizio Saccomanno, che nella Riserva naturale di Torre Guaceto, nel Brindisino, ha messo in scena Via, epopea di una migrazione, spettacolo sull’infausta vicenda a Marcinelle, in Belgio, di tre minatori originari di Tuglie.

Lo scenario di Via è il cortile agostano di una delle case di campagna di Torre Guaceto, oasi di terreni rossi e uliveti, specchi d’acqua permanenti, canneti e muretti a secco. E una torre in pietra viva, che guarda al mare.

La casa che ospita Via è della famiglia Barillà. Il capofamiglia ‘Ntonuccio lu calabrese è morto anni fa. Era uno dei vecchi agricoltori e pescatori di Torre Guaceto. Era stato militare nella torre durante la Seconda Guerra Mondiale. Dipingeva il tricolore su ogni oggetto della casa. Conosceva storie, antiche come l’arca di Noè.

Via, ideato con Stefano De Santis, progetto, drammaturgia e regia di Fabrizio Saccomanno, attore con Sara Bevilacqua, si vale di una scenografia semplice: proprio gli oggetti e gli ulivi del cortile, la terra scossa dal vento, due sedie. E la luce di una luna gigantesca. Saccomanno evoca Tuglie, un paese del Sud come tanti, giochi d’infanzia nelle strade assolate, deserte, alla controra. Strade, la cui toponomastica asseconda i capricci della storia, più lenta del treno che passa vicino a questo scenario, a riesumare anni in cui partire davvero era morire. Vie geografiche, Roma, Torino, Isernia. O dedicate a grandi personaggi, Bixio, Garibaldi, Vittorio Emanuele. Strade che hanno cambiato nome, come via Martiri di Marcinelle o via Aldo Moro.

A Marcinelle, l’8 agosto del 1956, morirono nell’esplosione di una miniera 262 uomini. 136 erano italiani. Sedici erano salentini. Tre di Tuglie.

«Le mani, la fronte, hanno il sudore di chi muore» avrebbero cantato i New Trolls qualche anno più tardi. In perfetto dialetto salentino, Saccomanno racconta una tragedia del dopoguerra: gli accordi tra statisti sulla pelle dei lavoratori, usati come merce di scambio per il carbone. Le false promesse di un avvenire migliore. Le visite mediche selettive, che laceravano famiglie. Il viaggio, come un rito iniziatico. I treni, sigillati per impedire che i passeggeri si gettassero in Svizzera. Gli alloggi in Belgio, ricavati negli hangar o nelle baracche dei lager nazisti. L’impossibilità di tornare indietro, pena il carcere e il ritiro del passaporto. E quelle miniere, catacombe dove erano di casa il grisou, la fuliggine, la silicosi, la notte, la morte.

Visioni surreali traducono in teatro il recupero delle memorie dei nostri migranti. In modo non dissimile da Baliani o Paolini, affine per le scelte linguistiche ad Ascanio Celestini e a Mario Perrotta, Saccomanno riproduce con esattezza la testimonianza orale. Trasforma la cronaca degli eventi in racconti dall’inconfondibile registro narrativo. La testimonianza, inserita in un contesto storico che è frutto di un lavoro di ricerca attento, diventa arte. Il teatro è racconto corale animato da voci autentiche e fantastiche, vere e verosimili, che rivelano una personale traccia autobiografica.

A dare respiro neorealista a questo documento di vita dallo sfumato tragicomico, è il volto di Sara Bevilacqua. Sara accompagna la narrazione attraverso una poetica silenziosa di sguardi tutta femminile: occhi intimoriti e curiosi, tristi e gioiosi, sconcertati e intriganti. Sara è un’addolorata del Sud con le mani chiuse sulle inferriate di un cancello. È metafora bruna di un Leviatano che divora esseri umani.

La narrazione si allaccia al passato per proporci il presente. Perché l’emigrazione è sempre opportunità, ma anche strappo. A volte, tragedia.

“Potevo essere io”: Renata Ciaravino racconta la genesi del suo monologo

potevo essere io 2LAURA NOVELLI | Forse perché parla dei bambini e dei ragazzi che siamo stati tutti; forse perché racconta il disagio – comune a molti – di affacciarsi sul mondo sentendosi relegati ai margini; forse perché ci ricorda i nostri palpiti adolescenziali, quei sentimenti così nuovi e tempestosi per i quali avremmo scalato le montagne o saremmo sprofondati nelle viscere della terra: fatto sta che “Potevo essere io” di Renata Ciaravino, interpretato da un’intensa Arianna Scommegna, dopo le felici repliche a Bratislava, al Kilowatt Festival e a Radicondoli, ha chiuso il suo tour estivo a Teglio, nell’ambito del Teatro Festival Valtellina, che le ha assegnato anche il riconoscimento di miglior spettacolo dell’edizione 2014. Aveva suscitato la mia curiosità già l’anno scorso, quando risultò lo spettacolo vincitore del Bando Nextwork 2013, soprattutto per il legame di “parentela” con l’omonimo romanzo della stessa autrice pubblicato nel 2007 da una piccola casa editrice ormai fallita. E dunque, raggiunta Renata Ciaravino al telefono, la prima cosa che le chiedo è proprio:

Come e quando nasce l’idea di trasporre per le scene il tuo romanzo?

“A dire il vero, malgrado lo avessi scritto con entusiasmo e dedizione, una volta pubblicato, ho instaurato con il mio libro un rapporto difficile: ho avvertito quasi un senso di rifiuto, di distanza, come se fosse un figlio non amato. Diciamo che me ne sono disinteressata per un bel po’, poi l’ho ripreso in mano per trarne una scrittura drammaturgica e l’abbiamo fatto in una prima versione teatrale a due personaggi di cui però non mi sentivo soddisfatta. Al monologo con Arianna, che tra l’altro reputo un lavoro ancora capace di ulteriore sviluppi, siamo arrivati molto gradatamente e il contributo di ciascun componente del gruppo di lavoro (Elvio Longato per il video e le scelte musicali; Carlo Compare per le luci, Serena Sinigaglia per la supervisione registica, ndr) è stato fondamentale”.

Quali sono stati i passaggi salienti attraverso cui si è cementata questa sinergia di competenze e poetiche diverse?

Innanzitutto è stato decisivo per me riscrivere il testo in forma di monologo; ho completamente stravolto la struttura della narrazione originale e in questo mi è stata molto utile la lucidità di visione di Elvio Longato. Dopodiché entrambi abbiamo capito che l’attrice giusta, quella che avrebbe potuto valorizzare meglio una partitura del genere, sarebbe stata Arianna Scommegna. Lei ci ha messo un po’ per accettare e poi si è convinta, e devo riconoscere che è bravissima. E’ riuscita a dare al testo una seconda vita. Finalmente sento di aver fatto pace con il mio romanzo: è una storia che amo moltissimo e che ora ritrovo sulla scena nella versione giusta”.

Nel monologo – di nuovo in scena in autunno in varie piazze – si segue il filo di due vite: quella della protagonista e quella di Giancarlo Santelli. Siamo nella periferia nord di Milano tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. I due adolescenti avranno destini molto diversi. Quanto c’è di autobiografico nella trama?

“Certamente racconto una parte della mia storia e della storia di molti miei amici e colleghi con cui condivido il fatto di essere figlia di immigrati arrivati al nord e di aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in certi luoghi. Anche i riferimenti musicali sono di quell’epoca, motivo per cui gli spettatori quarantenni è probabile che si sentano molto coinvolti. Ma anche il pubblico di altre età e con estrazione geografica diversa ama questo lavoro, semplicemente perché affronta temi transgenerazionali, parla dell’infanzia, dell’inclusione e dell’esclusione. E questa è roba che interessa a prescindere dall’età e dal posto in cui si vive”.

Tu sei drammaturga di una formazione teatrale, la Compagnia Dionisi, che è molto viva e impegnata su fronti e progetti diversi. Cosa puoi anticiparci del lavoro “Fuck Me(n). Studi sull’evoluzione del genere maschile”, che debutterà a marzo all’Out-Off, e della prossima edizione del Festival Mixité?

“Per quanto riguarda Fuck Me(n) abbiamo chiesto a tre autori (Massimo Sgorbani, Giampaolo Spinato e Roberto Traverso, ndr) di scrivere tre pezzi su cosa significhi la mascolinità oggi, su come è cambiato il maschio rispetto alla coppia, alla famiglia, alla paternità. Ci sembrava che, fuori dall’ambito omosessuale, a teatro si affronti poco questo tema che invece io e l’intero team creato per il lavoro sentiamo in modo profondo. Il festival Mixité 2014, con lancio nel 2015, sarà una rassegna molto ricca, articolata sul tema dell’identità di genere, affrontato anche qui in modo ampio, largo, laico. Vorremmo mettere insieme produzioni che lascino emergere tutta quella sensibilità nascosta che muove oggi il mondo maschile e femminile. Ci sarà pure uno spettacolo simile a Fuck Me(n) il cui testo sarà composto da tre contributi distinti scritti da me, Cristian Ceresoli e Giuseppe Massa”.

E poi: qualche altro desiderio professionale per gli anni futuri?

“Probabilmente un altro romanzo. Ho già buttato giù le prime pagine. Chissà: staremo a vedere”.

Come cambia la musica quando la burocrazia non e’ sorda! Il caso Quartetto Delfico

balla di fieno rotolanteEMANUELE TIRELLI | I fatti sono due. Le idee non cadono dagli alberi e l’Italia ha patrimoni meravigliosi stipati in cantina e inaccessibili.
Lo scorso anno, l’ex ministro Massimo Bray aveva proposto l’affidamento ai privati dei musei inutilizzati.
Pensiamo poi ad arredi e oggetti ammassati in alcune stanze della Reggia di Caserta. Oppure alla Villa Reale di Monza, abbandonata e saccheggiata serenamente per anni.
A Caltanissetta, Gela, Mazzarino, Marianopoli e San Cataldo. E a molti altri ancora. Senza considerare la possibile ricaduta economica che il recupero e la valorizzazione di questi siti potrebbero avere sulle finanze del nostro Paese, come sottolinea una puntata di Report dello scorso anno intitolata ironicamente “Belli da morire”.
Spesso è il tira e molla tra le istituzioni a generare un andazzo infinito capace di mummificare ogni cosa e quasi pure ogni speranza. E spesso il motivo è che non si sa cosa farne o “non ci sono soldi”. Anche se poi l’Italia riceve danari dall’Europa e li restituisce perché non li ha usati.

Potremmo dire, quasi quasi, più o meno, la stessa cosa del Conservatorio di Firenze. Al suo interno c’è il Fondo Pitti, biblioteca musicale dei Granduchi di Toscana dedicata, tra le altre cose, alle trascrizioni per quartetti d’archi e ottetti di fiati di grandi opere di aree italiana e viennese. Parliamo di Mozart, Cimarosa, Paisiello, Salieri e Beethoven. Per dirne qualcuno.
Sembra infatti che tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, e ancora fino a Giuseppe Verdi, fosse molto in voga trascriverle per formazioni musicali numericamente più snelle che potessero riproporle anche nei palazzi dei signori, senza dover raggiungere necessariamente i pochi teatri d’opera. Un po’ come un juke-box d’altri tempi.
Questo materiale è rimasto inutilizzato dall’unità d’Italia (appena 153 anni fa), fino a quando qualcuno non si è ricordato che le idee non cadono dagli alberi e ha scritto un progetto. Questo qualcuno si chiama Quartetto Delfico, è una formazione italiana che suona in tutta Europa ed è al suo secondo disco con l’etichetta olandese Brilliant Classics.
Quattro bravi musicisti hanno messo nero su bianco il Progetto Pitti hanno bussato alla porta del Conservatorio per domandare l’accesso al materiale. Perché? Per usarlo, naturalmente. Quattro programmi musicali all’anno per i prossimi 3 anni, ognuno dei quali deve debuttare necessariamente a Firenze e poi andare dove li porterà il Quartetto. Tutto ok. Il Conservatorio ha accettato. Hanno iniziato con “Don Giovanni allo specchio” per lo scorso Maggio Musicale Fiorentino, proseguito subito dopo con “Benucci, star dell’opera buffa a Vienna”, mentre dal prossimo autunno sarà la volta dei due programmi dedicati alla “Passione di Nostro Signore Gesù Cristo” di Paisiello e a musiche originali per quartetto di autori più o meno conosciuti come Luigi Boccherini. E anche qui, i fatti sono due. La formazione può avere accesso, utilizzare e portare in giro materiale che non si sarebbe mai potuta permettere. E il Conservatorio può vedere utilizzato il proprio materiale altrimenti serenamente abbandonato in archivio, senza spendere un euro e con il suo marchio sempre presente. Tutto questo ha mosso anche la curiosità di festival italiani e stranieri e di etichette discografiche interessate ad ospitare e incidere su disco le musiche del progetto.
Beh, certo, viste da questa prospettiva le cose sembrano più facili. E il problema, quasi sempre, è tutto nella differenza tra un sistema che ha la burocrazia intelligente e proattiva e un altro in cui la burocrazia si nasconde dietro le leggi per far morire la propria realtà.
È come fare perennemente lo sciopero bianco. Ecco, l’Italia è da 153 anni almeno in sciopero bianco. Oppure è in malattia.

Transformers 4. Ma come sono umani questi robot!

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ALESSANDRO MASTANDREA | Spiega un accorato Cade Yeager (Mark Wahlberg) a un deluso Optimus Prime: “non dovete giudicarci per quello che siamo, ma per quel che possiamo essere, per il nostro potenziale”.
Quindi, prima di esprimere un parere sul nuovo capitolo della saga robotica diretta da Michael Bay, sarà meglio seguire lo stesso consiglio, giudicando Transformers 4 non per quello che effettivamente è, ma per quello che sarebbe potuto essere, per il suo potenziale.
E sotto questa lente, Transformers 4 esprime un potenziale altissimo. Blockbuster che è anche allegoria di tematiche spinose quali, ad esempio, l’accettazione e l’accoglienza del diverso da sé, del migrante (dell’alieno nel significato letterale del termine), delle difficoltà dei rapporti generazionali padre-figlio, del sottile confine che separa l’uso legittimo della forza da parte di una democrazia dal suo abuso e, infine, di cosa sia lecito fare nella lotta al terrorismo.
E’ un’antica casta di guerrieri quella degli Autobot, provenienti dallo spazio profondo e approdati per caso sul globo terracqueo, solo per scoprire che il loro arrivo è salutato da paura, sospetti e pregiudizi. A nulla valgono, per ingraziarsi la razza umana, gli sforzi profusi nella lotta contro i nemici di sempre, gli infidi Decepticon. Incompresi e malvisti, sulla squadra degli Autobot paiono gravare fosche nubi di tragedia, con la situazione che non fa che precipitare durante l’arco dell’avvincente saga.
Viene fuori, infatti, che questi robottoni antropomorfi non sappiano rinunciare alle proprie particolari usanze, barbare per i più, umanissime per altri, e dovunque essi si trovino obbligati a scatenare qualche fragorosa rissa da bar con l’immancabile seguito di alieni malvagi tornati per tormentarli. Sicchè, quel che accade dopo, è tutto un turbinio di esplosioni, crolli e devastazioni varie, che tocca sempre alla razza umana ripulire: che va bene anche qualche migliaio di vittime collaterali tra i civili – a quelle siamo tristemente abituati anche da queste parti – ma guai a toccare la pulizia e il decoro delle nostre città.
Non stupisce, allora, il trattamento riservato nell’ultimo capitolo della saga agli Autobot, con Optimus Prime che ha anche il coraggio di lamentarsi: “Dopo tutto quel che abbiamo fatto, gli umani ci danno anche la caccia”. Tipico atteggiamento di quelle minoranze aliene con manie di persecuzione, quando invece siamo noi umani a dover fare i conti con una ulteriore insidiosa eredità: l’aumento dei tassi di disoccupazione nel settore della pubblica sicurezza e nella lotta alle razze extraterrestri. A riprova che un’immigrazione senza regole crea seri problemi di occupazione.
Ai governi della terra, a quello USA in particolare, non rimane altro che attuare politiche fortemente conservatrici, rispolverando vecchi modelli economici che si pensavano sorpassati: un nuovo regime autarchico, ecco la novità. Interrompere l’importazione di tecnologia aliena e costruire con manovalanza locale robottoni migliori, salvo poi, all’occorrenza, delocalizzare in Cina, scenario perfetto per il roboante finale.
Braccati dagli umani e dai di loro evoluti manufatti robotici, nel paese delle grande muraglia, Optimum prime e compari sono sul punto di crollare, anche perché sulle loro tracce si sono messi nientemeno che i loro creatori, sorta di scafisti interstellari, cui la razza umana li ha venduti dopo aver siglato oscuri trattati bilaterali finalizzati all’inversione dei flussi migratori. Dati ormai per spacciati i Transformers sapranno tuttavia farsi valere, ribaltando le sorti della battaglia e liberando forme preistoriche di vita robotica aliena, commerciate illegalmente per la galassia dagli scafisti/padroni.
Si fa un gran dibattere in questi giorni di Michael Bay, e del suo modo di fare cinema. Se esso segua nuovi percorsi autoriali, una sperimentazione votata al superamento degli attuali limiti del cinema, o se il suo lavoro vada inquadrato in un più mesto inchino alle logiche di mercato e dell’exploitation. Domande cui, forse, solo il tempo potrà rispondere. Quel che è certo, è che il regista, con le sue opere, pone degli interrogativi. Se in modo consapevole o meno, è tutt’altra faccenda.

E ora i Transformers in salsa abruzzese:

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Archivio Zeta e la parola architettonica: la video intervista

UnknownRENZO FRANCABANDERA | Dopo il ciclo delle grandi tragedie greche e’ con Gli ultimi giorni dell’Umanità – Macerie e frammenti dalla muraglia di Karl Kraus che Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, ovvero Archivio Zeta, accolgono il pubblico al cimitero germanico della Futa. Un appuntamento, quello con la loro drammaturgia e regia, che si rinnova ogni agosto in questo luogo dell’assoluto, un appuntamento che diventa ricorrenza spirituale per chi inizia a frequentarlo e per i cittadini di questa zona che seguono questa formazione artistica da piu’ di un decennio ormai.
E cosi’ anche noi siamo tornati, ad un anno di distanza dalla trilogia eschilea dell’Orestea e a pochi giorni dalla spettacolare performance urbana allestita durante il festival di Volterra, per raccontare con un video reportage questa nuova creazione, su un testo contemporaneo e affidata come sempre ad un gruppo misto di attori e semplici appassionati autodidatti non professionisti che Archivio Zeta ha formato sul territorio in questi anni, e che comprende anche tre giovanissimi attori in erba: Giulio Azzoguidi, Renata Carri, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca
Guidotti, Tommaso Moncelli, Giulia Piazza, Alfredo Puccetti, Andrea
Sangiovanni, Enrica Sangiovanni gli interpreti dello spettacolo, cui fa da contraltare, come sempre, una complessa partitura sonora composta da Patrizio Barontini, arricchita da inserti sonori d’epoca e dalla voce dall’alto di Luca Ronconi che conclude l’allestimento.
Lo spettacolo, pensato in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale, va in scena al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa (FI) tutti i giorni fino al 17 agosto 2014 alle ore 18, un’occasione particolare per confrontarsi con una modalita’ teatrale tragica in senso etimologico purtroppo in progressivo abbandono.
I fautori del sodalizio artistico Archivio Zeta hanno dunque il merito di rimanere contemporanei interpreti della tradizione millenaria del teatro occidentale, con uno sforzo tenace in un territorio di confine.
La chiacchierata con Guidotti e Sangiovanni che vi proponiamo in questo video e’ l’opportunita’ di conoscere la compagnia, il loro linguaggio e l’impegno tenace per portare la scena in dialogo con la realta’, fuori dalle finzioni produttive che inquinano economicamente oltre che moralmente il circuito nazionale.

Il video reportage e’ visibile cliccando sulla foto seguente, mentre per partecipare alle prossime repliche dello spettacolo, visti i posti limitati, consigliamo la prenotazione al
tel. 334 9553640 o via mail a info@archiviozeta.eu

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Il mondo strappato di Mimmo Rotella

FRANCESCA PEDDONI | L’impiegato postale fisso’ la tigre negli occhi. Istanti interminabili con la belva davanti. Il silenzio. Poi un graffio lacerante.
Si può davvero rimanere indifferenti davanti a un manifesto pubblicitario magari un po’ rovinato e staccato appena? Si può davvero passare oltre senza staccarne anche solo un piccolo pezzo? Chi da ragazzino non l’ha fatto? Un gesto così naturale e senza un fine logico che non può essere considerato un furto: viene quasi spontaneo farlo senza essere visti. Un gesto divenuto una magistrale azione artistica che unisce l’istinto alla progettazione, l’intuito all’azione.
Non capita tutti i giorni di visitare una mostra ed essere accolti da una grossa tigre gialla tutta graffiata e strappata, a meno che non si parli di Mimmo Rotella e dei colorati protagonisti delle sue opere. I più importanti undici anni della carriera artistica di un uomo, un calabrese, con un futuro come impiegato del ministero delle poste, con la passione per l’arte e un grande fuoco fosforescente dentro.
Un passionale del sud che non si accontenta di una vita grigia e di un lavoro “normale”, ma capisce che l’arte è quel fuoco che ha dentro e non può domare. Il percorso espositivo, curato da Germano Celant, inizia con un collage di fotografie in bianco e nero dell’artista che raccontano lo straordinario spaccato di una vita, passata dal completo anonimato della provincia alla frequentazione dei “cattivi ragazzi” dell’arte americana degli anni 50’: Robert Rauschenberg, Oldenburg, Twombly, Jackson Pollock e Yves Klein. Per interpretare al meglio il clima del periodo, il curatore affianca alla ricerca di Rotella proprio le opere di questi artisti.
Per tutti la necessità è trovare un linguaggio nuovo, originale, che si distacchi dalla tradizione, portando la vita nell’arte e riversando la realtà nella pittura. Di conseguenza, giornali, stampe, legni, graffiti e stoffe animano le opere americane di questo periodo. Ricerche che come uno tsunami si abbatteranno anche in Europa sconvolgendo il panorama artistico. Sarà una profonda crisi morale e artistica legata all’incapacità di trovare un linguaggio personale a far rientrare Rotella in Europa nel 1952 e a fargli notare l’opera di due artisti francesi, due eccentrici personaggi, Raymond Hains e Jacques Mahé de la Villeglé (del futuro gruppo del Nouveau Realisme, capeggiati dal critico Pierre Restany) che nottetempo, staccano i manifesti pubblicitari, documentando data, ora e durata della “bravata”. Nello stesso periodo Roma, la città eterna, è decorata con tanti manifesti pubblicitari: il circo, i film, gli attori, i prodotti pubblicizzati, sono una tentazione cui l’artista non può resistere. Ed ecco l’illuminazione, l’idea e il gesto che diventa quasi necessario: “Strappare i manifesti dai muri, è l’unica rivalsa, l’unica protesta, contro una società che ha perso il gusto dei cambiamenti e delle trasformazioni strabilianti”.
L’esposizione mette in evidenza proprio l’originalità “rotelliana”, che inizia con il gesto di appropriarsi dei coloratissimi cartelloni dalle strade della città, andando oltre il documentarne l’evento. In altre parole, egli percepisce sin dall’inizio il potenziale del gesto, e la notte, stacca dai muri quel pezzo di vita urbana che poi assemblerà nello studio su un supporto. Un gesto, che vuole: “superare la pittura e la poesia con colori già stesi e parole già scritte” giocando con gli accostamenti di colore, tagliando e raschiando fino alla nascita dell’opera. Nelle prime sale sono presenti oltre ai Dècollages, i Retrò d’Affiches; anche in questo caso si tratta di manifesti staccati e assemblati al contrario, materici e informali, dove, a differenza dei primi, l’artista non interviene, ma lascia che sia la pura essenza della materia ad esprimersi con la ruggine, la colla e i frammenti. La mostra, con il suo percorso cronologico, documenta l’evoluzione comunicativa dei Dècollages.
Undici anni raccontati in una serie di opere che attraverso le varie sale, diventano veri e propri spaccati della società. Una realtà popolare raccontata dai protagonisti dei films; così dopo i manifesti di un qualsiasi prodotto culinario, ecco i dècollage evolversi e usare come protagonisti le grandi icone globali dell’America pop, eroine del cinema, che hanno fatto sognare migliaia di persone in tutto il mondo. Ed è la bellissima Marilyn Monroe che emerge dagli strappi, dal togliere le strisce di carta attorno alla sua figura senza rovinarne l’immagine di diva intoccabile. Bella, forte, la sua sensualità è tutta lì in quello sguardo ammiccante, in quella posa così naturale e provocante, e come dice l’artista stesso: “Ognuno ha il suo mito, ognuno ha la sua icona, a me spesso domandano: – perché tu realizzi sempre il ritratto di Marilyn? – Perché Marilyn è un personaggio, non è semplicemente una bellissima donna, ma è anche una grande artista, sa recitare, cantare, ballare, ognuno ha il suo mito e il mio è Marilyn!”
Le immagini del circo invece, riportano un po’ tutti indietro nel tempo, quando acrobati e giocolieri erano davvero uno spettacolo, ora come allora è la fosforescente tigre gialla a dare spettacolo, lasciando intuire quanto di stravagante ed eccentrico ci fosse in quest’uomo che stava per essere risucchiato nel grigio di una vita d’ufficio di un qualunque impiegato del ministero delle poste (senza offesa per chi ama il grigio…ovviamente!)

Mimmo Rotella. Décollages e Retro d’Affiches. Palazzo Reale di Milano (13 giugno – 31 agosto 2014).

Foto:
http://www.mymovies.it/cinemanews/2014/108986/
(la tigre)