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venerdì, Maggio 9, 2025
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«Hamletelia»: l’amletica, libidinosa Ofelia di Caroline Pagani

caroline

VINCENZO SARDELLI | E se a raccontare Amleto fosse Ofelia? Quante riletture del capolavoro shakespeariano. Parrebbe che il drammaturgo inglese si sia divertito a fare di quest’opera una moderna banconota dalle cento filigrane, un Lego che si presta a essere scomposto e ricomposto in cento modi diversi. Tanti spunti e temi. Ciascuno un’occasione per interagire con la creatività di chi vi si accosta.

Così non sorprende che la proteiforme Caroline Pagani, attrice, regista e drammaturga, abbia riscritto la storia dal punto di vista di Ofelia. Sorprende invece il risultato di questo Hamletelia, di scena allo Spazio Tertulliano di Milano. Uno spettacolo pluripremiato: vincitore dell’Internationales Regie Festival Lipsia 2009, Premio Fersen alla Drammaturgia 2013, Miglior spettacolo, miglior regia, miglior attrice al Festival Corte della Formica di Napoli 2010, Miglior attrice al Roma Fringe Festival 2013.

Una riscrittura misurata, rapida, piena d’intuizioni comiche e ammorbidita da un uso dosato, mai invadente, della rima e di altri espedienti retorici. Un intreccio di registri, dal tragico-attoriale-tradizionale-narcisistico al comico e grottesco, dal cabaret al musical. Un rimbalzo di lingue (italiano, inglese, tedesco, francese, persino torinese) che evidenzia ironicamente, forse con qualche compiacimento, la dimensione internazionale dell’opera shakespeariana e la poliglossia dell’attrice. Espedienti teatrali che vanno dall’amnesia alla schizofrenia. Persino un excursus teorico sulla recitazione, sul bisogno che il teatro sia specchio della natura, mai deriva imparruccata e pomposa. Quest’Ofelia visionaria aspirante «zoccola» sbeffeggia le pose classiche di attori vanesi. Cancella le tracce della tragedia. Ridefinisce una storia di fantasmi, amori, morti violente.

Caroline Pagani raccoglie i feticci di personaggi, ne reinterpreta desideri, pensieri e sogni. L’ambientazione è da romanzo gotico, un cimitero avvolto da terra scura che accoglie e custodisce enigmi. Si parte con un plenilunio, atmosfere fumose azzurro-cupo, stile preraffaellita. Un corvo nero e una pantegana dialogano con questa donna istrionica che sul palco canta, marcia, armeggia, spazia dal madrigale tardo rinascimentale ad arie verdiane, cita Manzoni e Testori, emula Michael Jackson nelle macabre movenze rock di Thriller. Ne viene fuori una creatura metamorfica, labirintica, poliedrica, che rinfaccia all’Autore d’averne fatto una crocerossina sfigata ascendente suora, banalmente suicida. Scialba, inetta, frigida. Troppo in bilico tra Beatrice ed Ermengarda. Troppo passiva di fronte alle scelte degli uomini della sua vita.

Quest’Ofelia è anzitutto donna: inno alla bellezza e alla carnalità, femminilità consapevole a tutto tondo. Il modello stilnovista cede a emancipati immaginari di lussuria. Trasparenze di tulle svelano in questo redivivo personaggio amletico insospettati profili da Maya desnuda e odalisca felliniana.

Eros prevale su Thanatos. Ofelia si confronta con gli altri archetipi femminili di Shakespeare. Invidia a Lady Macbeth l’ardita dignità regale, a Geltrude la lascivia incestuosa, a Cleopatra il coraggio di un suicidio esemplare, a Giulietta le gioie di un amore effimero ma pur goduto. Persino la morte di Desdemona, che ha sentito sul collo la morsa omicida e il respiro del Moro, ha più decoro della sua.

Tanti punti di vista. Tanti ammiccamenti e riviviscenze. Ironia ed enigma, follia e ingenuità. Un lavoro eccentrico, elegante, messo in scena con fantasia e intelligenza.

L’Ofelia dinamica di Caroline Pagani…

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…e quella diafana di Francesco Guccini, cantata da Augusto Daolio
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E Peter Hammill?
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Io, mai niente con nessuno avevo fatto: il baccano poetico di Vuccirìa teatro

ImageCARLA RUSSO | Giovanni, Rosalia e Giuseppe hanno scelto noi. Si, proprio noi che, per una sera, abbiamo scelto di guardarli, di prestar loro attenzione. Giovanni, Rosalia e Giuseppe. Tre persone che, come tante, combattono nell’anonimato la battaglia della vita. Coni di luce illuminano le loro esistenze, lasciandole emergere con coraggio dal buio in cui la quotidianità le ha confinate. Hanno scelto di donarci la loro parte più intima, quella in cui sono custoditi sogni verso cui proiettarsi, paure da cui fuggire, amori a cui abbandonarsi, rabbie da liberare. E lo fanno senza sconti, smascherando i sorrisi dietro cui si nasconde una ferita, esibendo i loro corpi e offrendo le loro anime nude al pubblico. La scena vuota accoglie e amplifica, come una cassa di risonanza, la presenza viva dei tre attori e delle storie di cui sono portatori.

Io, mai niente con nessuno avevo fatto è lo spettacolo d’esordio di “Vuccirìa Teatro”, compagnia di recentissima formazione (2012) che quest’anno ha sbaragliato il Roma Fringe Festival aggiudicandosi il premio come “Miglior Spettacolo”, “Migliore Drammaturgia” (Joele Anastasi) e “Migliore Attore” (Enrico Sondino). L’abbiamo visto a Galleria Toledo a Napoli.

La drammaturgia si dipana attraverso il susseguirsi/sovrapporsi di monologhi, contenitori delle storie dei tre protagonisti e del loro fatale incrociarsi. Il racconto monologante, in stretto siciliano, dei singoli, a tratti simultaneo e disunito, diventa corale e il loro narrare si congiunge “verbalmente”. Eppure, gli attori, fatta eccezione per la scena iniziale (ingresso in sala di Giovanni e Rosalia che si rincorrono e danzano), non si toccano mai. |Le loro braccia, aperte alla ricerca di un abbraccio, si richiudono con forza a stringere i loro corpi soli. Le mani, desiderose di elargire carezze, strofinano i loro visi, le loro gambe, cercando di arrivare all’anima per consolarla.
Io-maiL’attore di Vuccirìa Teatro è chiamato a ricercare l’essenzialismo scenico che lo porti ad agire come un animale affinché possano emergere i personaggi, selezionati tra le bestie relegate ai margini della società. Un tipo di ricerca e di approccio al teatro che ha radici lontane, riconducibili ad Artaud, alle neoavanguardie degli anni ’60 (Living Theatre, Grotowski, Brook…), fino ai contemporanei Emma Dante e Mimmo Borrelli, per fare alcuni esempi.

Poco originali, seppur attuali, le tematiche trattate (omosessualità, desiderio di fuga, solitudine, violenza, prostituzione, AIDS). Segno di quanto le questioni sollevate restino inesorabilmente inascoltate e irrisolte? Può darsi. Il lavoro di Vuccìria Teatro è solo all’inizio e lo spettacolo è un’intensa e riuscita opera prima, avvalorata dalla presenza di un cast di attori giovani e talentuosi, che cesella un lavoro d’indubbia qualità che li porterà a New York nel 2014, sintomo di un fermento culturale che fa ben sperare nel futuro del teatro di ricerca.

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Ranuncoli metropolitani #2 – Bob Wilson, gli happy few e il valore della cultura

bob_wilson_in_veste_di_attore_ne_l_ultimo_nastro_di_krapp_di_beckettCOSIMA PAGANINI | Chi ci sarà a vedere Bob Wilson domenica 20 ottobre a Milano?
Gli happy few? Tutte le ragazze e i ragazzi del «petit clan»?
E quelli che resteranno fuori (è inevitabile) chi sono? Ma anche loro tutti ragazzi del gruppo, un altro. In questi tempi buoi (sic) i piccoli clan prosperano, le classi avanzano, le avanguardie non sono mai state meglio, i classici sono in ottima forma, il pop va alla grande, il trash spacca, i luoghi della cultura li trovi ad ogni angolo di strada (come gli psicanalisti a Buenos Aires) e l’arte ha un sacco di officianti e adepti, insomma la bellezzanonècheiltremendoalsuoinizio ecc. ecc..

Per fortuna il classismo (e la classe non è acqua) ci salva dalla frustrazione (e dalla ruggine), soffoca ogni tentativo di rivolta e ci fa essere tutti felici a fine giornata dopo aver parlato di: ma ronconi fa ancora teatro? se ci fosse carmelo, i “figli” degeneri del professore, e franco che direbbe? il teatro fuori dai teatri, vogliamo il pubblico vero, basta applaudire chiunque, jerome o pippo? meglio daria (che non è la fulvia del sabato sera), finalmente un bray, vabbé faceva la notte della taranta.
E poi appuntamenti e incontri e tavole rotonde su: VALORE CULTURA, FUS e Fondazioni lirico-sinfoniche, buone pratiche, funzione del teatro pubblico e l’accesso e il ricambio generazionale (‘sti GIOVANI che non possono aspettare ancora ché se diventano vecchi tanto vale tenersi i 50enni).

Comunque io ci sarò a vedere il piccolo Bob (e il 2 novembre a vedere il grande Bob).

A sinistra di quella riga

renzi civatiALICE CANNONE | “Dì qualcosa di sinistra”, o al massimo fatti la riga. Il nuovo trend in tema di politica, e che accomuna tutti i leader maximi in pectore, è senza dubbio la riga, a sinistra. Renzi, Cuperlo, Civati: sono solo alcuni dei fulgidi esempi di come  si possa chiaramente e coerentemente farsi promotori dei propri più alti ideali. Nonostante le inutili titubanze delle malelingue, per l’elettore da fidelizzare questi sono veri e propri dettagli che possono fare la differenza: diceva infatti Celine, nel film “Prima dell’Alba”: “Io credo di potermi innamorare veramente quando so tutto di una persona, come si farà la riga ai capelli, quale camicia metterà quel giorno, conoscere esattamente quale storia racconterà in quella data situazione. Allora saprò di essere veramente innamorata”. E si sa dall’innamorarsi al tapparsi il naso e portar giù la spazzatura , o votare, il passo è decisamente breve.

Ed è proprio quella riga, e quella camicia o quella giacchetta di finta pelle sfoggiata nelle più disparate situazioni nazional-pop, e quella storia, raccontata al momento giusto che ci fa innamorare. Stuoli di donne, restano in trepidante attesa per i post su Ciwati.it più che per l’oroscopo di Brezsny. E a noi, creature così dolcemente complicate, che possiamo perdonare con un battito di ciglio il tradimento con la sorella della cugina della nostra migliore amica, possiamo perdonarvi tutto, e votarvi pure, pur di immaginarvi mentre vi scompigliamo quel crine da intellettuale ribelle e quella riga, a sinistra.

E quindi, per amor del cielo, se non riuscite a dire proprio nulla di sinistra, quanto meno a sinistra continuate a farvi la riga .

Teatro in casa e fuori: videoconfronto con Renato Cuocolo e Roberta Bosetti

the walk - foto Ilaria Costanzo
the walk – foto Ilaria Costanzo

RENZO FRANCABANDERA | Per anni in Australia, dove hanno fondato l’IRAA Theatre, Renato Cuocolo e Roberta Bosetti da un decennio propongono con una certa continuità i loro lavori anche in Italia. L’efficacia della loro proposta risiede nell’insistita volontà di praticare il genere del teatro entro le mura domestiche, con spettacoli per pochi, a volte per un solo spettatore.

Le loro drammaturgie hanno l’abilità di costruirsi attorno a temi universali, ma sono sapientemente aggiunte di un pizzico di misterioso, di inquieto, che porta fra le mura domestiche non i colori caldi e pastellati da mulino bianco, ma assenze, mancanze, irrisolti. E questo finisce necessariamente per risvegliare nello spettatore l’ancestrale.

Renato Cuocolo ha fatto per anni di questo la sua cifra, affidando spesso del tutto la presenza fisica e attorale a Roberta Bosetti, attrice capace, nella sua elegante pacatezza, di tonalità molto varie, con una presenza fisica imponente e un’espressione dolce ma che facilmente vira al doloroso. E’ proprio questa facilità di mutare il sembiante che ha fatto finora la forza dei loro lavori, non di rado proposti nella forma di audaci uno a uno, come quello in camera da letto di Secret Room, visto a Torino alcuni anni fa al Festival delle Colline Torinesi, in cui la dimensione voyeuristica viene esaltata a tal punto da munire lo spettatore di occhiali ad infrarossi per decidere se vedere o non vedere la stanza in cui si trova da solo con l’attrice in vestaglia.

Prima a Terni e ora a Prato per Contemporanea, i due stanno affrontando tuttavia per la prima volta una serie di esperimenti di cambio radicale del paradigma narrativo, uscendo dalla dimensione casalinga.

Gli spettatori muniti di cuffie. Lei racconta, e pian piano, partendo, immaginiamo, da un luogo lontano, si approssima. Fino a rendersi visibile. E’ lei che da questo momento in poi guida il gruppo di 15-20 persone in giro per la città, narrando la vicenda di un amico, vicenda che come sempre vira verso l’onirico, l’irreale, il flusso di coscienza.

Qui la scommessa: riesce il giro nella città con le suggestioni, le vetrine, i tempi, gli imprevisti, a mantenere integro quel codice diretto a cui hanno abituato il loro pubblico, un flusso legato agli sguardi suadenti di lei, alle epifanie di lui, sempre contornate da un alone misterioso? Lo scarto non è facile, i cambiamenti sono molti, la passeggiata nelle vie cittadine è una scommessa non agevole, e abbiamo approfondito con gli artisti le tematiche legate alla scelta ambientale. Abbiamo registrato la parte finale della nostra chiacchierata per condividerla con il pubblico e gli appassionati, ripercorrendo gli anni di esperienza e la caparbietà di questa nuova scommessa non facile, i cui equilibri sono ancora in assestamento. Prato da questo punto di vista è stata una tappa importante. Ecco il videoreportage, registrato in una casa in cui i due artisti hanno in passato realizzato anche un loro spettacolo.

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Un circo di gravità permanente: idoli e vite precarie

circo-boteroGIULIA INDORATO | I favolosi anni 80, il punk rock all’apice, idoli con occhi colorati, giacche di pelle e chitarre elettriche riempiono gli stadi e schizzano per dieci anni in vetta alle classifiche. Poi arriva il grunge, l’olimpo di borchie viene scosso, sembrano crollare i grandi nomi. Dopo piccoli scivoloni discografici, sul finire degli anni 90 c’è chi riprende l’equilibrio e si rilancia con canzoni natalizie di sound rockabilly: Billy Idol, star del rock e acrobata del pop. Dopo un decennio di gloria par dimenticato, ma ritorna sulla scena e prova a rimanere sul precario filo della gloria musicale.

Il termine precario, infatti deriva dal latino è significa preghiera, implorazione. Giornali e inchieste puntano il dito su questo lemma, messo alla gogna e in pessima luce. La P scarlatta.
L’essere umano (Billy compreso) par desiderare di avere i suoi due piedi ben piantati a terra (soprattutto se concimata con la notorietà). Non è nato trampoliere.
Eppure i trampolieri esistono. Eppure l’arte circense si basa sul presupposto che ci sia gente che vuole camminare a molti metri da terra. Il nouveau cirque ha sbalordito grandi e piccini con la sua spettacolare eterogeneità di acrobati precari.

C’è chi si impegna per andare in alto e non cadere, e ne fa un mestiere. Salta da una parte all’altra di un tendone, sorride al pubblico pagante e avanza nel vuoto.
La Orfei ci ha fatto un businnes sul mito dell’altezza, ci ha basato pure l’acconciatura.
C’è chi paga per vederli esibire. C’è chi gioisce nel vedere il funambolo e ha una scarica d’adrenalina in corpo quando lo stesso par stia per cadere. Lo spettatore rimane seduto al suo posto, mangia pop corn e osserva estasiato.

C’è un popolo nascosto di precari felici, entusiasti ed estimatori dell’assenza di stabilità? È un popolo silenzioso, che non se ne fa vanto e non fa rumore?
Il dubbio persiste. Il dubbio si insinua. C’è un popolo che punta il dito sul precario, ma poi paga per averlo sotto casa quando serve spettacolo, adrenalina e comodità?

Certi esseri umani pendono dal tetto del tendone del circo per un tempo quasi infinito, vengono spinti da destra a sinistra e viceversa. Volteggiano senza sosta. Quando hanno paura, guardano in alto e pregano San Precario di trovar un ulteriore trapezio a cui appendersi dopo il salto.
Felicità o meno, la gravità è una forza reale e il processo evolutivo della specie non ci ha donato le ali.

Non sarà che c’è chi al circo si è unito per fame? Magari chi sorride sui trampoli vorrebbe star in terra con i clown, ma non trova posto in pista.

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Pechino Express e il format delocalizzato

Marchesa ALESSANDRO MASTANDREA | Anche nelle sue forme più leggere la TV, più o meno coscientemente, è capace di restituirci un’immagine dei tempi incerti che stiamo vivendo e, paradossalmente, agli occhi di uno spettatore smaliziato “Presa diretta” di Riccardo Iacona o “Pechino Express” di Costantino della Gherardesca pari sono.

Se poco più di un mese fa Iacona ci raccontava, con stile a metà tra l’inchiesta e il documentario, delle disfunzioni che affliggono la società italiana dei nostri giorni, del divario sempre più marcato tra le classi benestanti e nuovi poveri, su Rai Due con Pechino Express la via del disimpegno portava, in fondo, a esiti non dissimili.
Chi infatti ritiene che i problemi del ceto medio dipendano unicamente dalla nuova aristocrazia, dalle oligarchie di manager, banchieri e lobbisti, non avrebbe mai immaginato che anche quella vecchia, di aristocrazia, avrebbe preteso per sè la propria parte, erodendo l’ultima conquista di cui, l’ormai ex, classe media potesse ancora vantarsi: la TV dei reality show e del miraggio democratico di una fama a buon mercato.
Ritenuti fino a ieri sull’orlo dell’estinzione, cancellati dalla più agguerrita specie dei talent come lo furono i dinosauri con l’arrivo del famigerato meteorite, ai reality ha giovato il nuovo sangue – delle tonalità di un blu aristocratico – che Pechino Express porta in dote. In effetti se “l’ozio è una appendice della nobiltà” pare strano che solo oggi si sia consumato questo matrimonio d’interessi corrisposti. Sicché la crisi, come balsamo sulle nostre coscienze, ci ha fatto accettare di buon grado anche la perdita di quest’ultimo bastione. E se a Pechino Express di ozio ce n’è pochino, di classe, per contrasto, ce n’è a vagonate.

E gli indici di ascolto sembrano premiare, a dispetto di un canovaccio liturgico che rientra perfettamente nei canoni del genere: un gruppo di concorrenti, fame e patimenti vari, una prova da affrontare, contrasti e dispute interne da superare con immunità o eliminazione alla fine di ogni tappa. Il merito di questa miracolosa rinascita è da attribuirsi fuor di dubbio alla conduzione austera, quasi regale, di Costantino della Gherardesca, ma anche alla partecipazione della marchesa D’Aragona (al secolo Daniela Del Secco), donna d’ infinita classe pur se dal discusso blasone.

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Quasi si trattasse di marziani precipitati d’improvviso sulla terra, per provare l’esperienza della finitezza della condizione umana, entrambi paiono adattarsi piuttosto bene all’ambiente circostante, non rinunciando a farci partecipi dei loro sentimenti profondi; la Marchesa in particolare, che nonostante il lignaggio, ama cimentarsi senza tema in situazioni “ che non ho mai visto nemmeno al cinematografo”. Facendolo per giunta con una certa classe, purché possa concedersi ancora qualche vezzo: un ombrellino di pizzo bianco per difendersi dal sole, almeno un completo di seta per dormire come si conviene a una nobildonna, e l’insostituibile maggiordomo Gregor, persona squisita e affidabile poiché “parla solo se interrogato”.
Eccolo, dunque, il vero personaggio. Per le altre coppie in gara non ce n’è. Nemmeno per la perfida coppia de “i figli di”. Temuti, costoro, in egual misura sia dalle popolazioni indigene che dai concorrenti, trovano nella marchesa uno scoglio insormontabile, poiché i loro velenosi commenti – “Io mi chiedo come mai i ricchi in Italia siano così stronzi”- tradiscono la loro subalternità a una nobiltà acquisita per diritto di nascita.

Forse fallimentare come tentativo di esperimento sociale e antropologico, questo reality funziona invece sotto il profilo narrativo. Con il viaggio dei concorrenti alla scoperta di luoghi esotici e paesaggi meravigliosi, di tramonti struggenti sul fiume Mekong, alla scoperta di se stessi e del diverso, dello straniero, sempre disponibile e generoso, purché colto dalla lente di una telecamera nel proprio habitat e lontano dalle nostra coste. Ancor più attuale Pechino Express in ottica New Economy, a dimostrazione del fatto che il “made in Italy”, anche per i prodotti televisivi, può essere ancora vincente a patto che la sua produzione venga opportunamente delocalizzata.

Qui ancora qualche fotogramma…

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-127c12e6-ddd5-4ab6-be8d-4ab66e88aa23-pechino.html#p

Arrostimi, ma di teatro saziami: l’Ubu Roi di Roberto Latini

Ubu Roi Roberto LatiniRENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.

Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.

Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di  inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.

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Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).

Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).

Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.

Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.

“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!

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Arrostimi, ma di teatro saziami: l'Ubu Roi di Roberto Latini

Ubu Roi Roberto LatiniRENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.

Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.

Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di  inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.

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Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).

Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).

Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.

Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.

“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!

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Ranuncoli metropolitani #1 – 7 giorni a Milano

ranuncoli metropolitaniCOSIMA PAGANINI | “Hanno tutti ragione” la grande bruttezza e basta non fare domande.
Il primo concerto di Milano Musica – San Simpliciano: Morton Feldman ti sfiora, ti ricorda cose gia’ sentite e cosi’ ti piace e ti riconosci.
“Ora non hai più paura” – Out Off: un concerto bellissimo da ascoltare anche alla radio. E Valdoca?  Ricordateli negli anni 80.
Nobel letteratura: come quasi sempre vince il massimo del medio (vedi Feldman). Per questo mi aspettavo che vincesse prima Philip Roth.
“Milano, Vienna, Berlino” allo spazio Oberdan. Quando i pittori vomitano nelle sale da bagno dei ricchi collezionisti e morivano per droga o aids; quando i grandi nudi maschili te li tenevi in salotto. Quando gli artisti erano “selvaggi” e non volevano decorare le case o scandalizzare le piazze.
Pollock e gli irascibili – Palazzo Reale: 49 “capolavori”, cominci la conta e ti fermi a 4. Gli altri tutti piacevoli e vorresti portarteli a casa che accarezzano la vista. Accattivante il merchandise.
E il settimo giorno ti rincuori con qualche pagina de  “I Fratelli Karamazov”: tutte le età sono buone per ri-leggerlo (dove il trattino è una cortesia concessa a quelli che non  ammettono di non averlo ancora letto)