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venerdì, Maggio 9, 2025
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Castellana Bandiera: la strada sola di Emma Dante fra cinema e teatro

castellana bandieraCARLA RUSSO | “Più che una strada, Via Castellana Bandiera è un budello a doppio senso in cui, se due auto si incrociano, una deve per forza cedere il passo…”. Con queste parole si apre la prefazione del romanzo d’esordio di Emma Dante, “Via Castellana Bandiera”, edito da Rizzoli nel 2008, che ora è diventato un film, con la regia della stessa autrice alla sua opera prima cinematografica e che le ha permesso di sbarcare a Venezia per la 70° edizione del Festival, dove Elena Cotta si è aggiudicata la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Cambia il medium, ma la mano della Dante ripropone sullo schermo i topoi della sua scrittura drammaturgica. La famiglia, luogo ambiguo in cui si sviluppano odio, opportunismo, costrizione, esemplarmente dipinta dalla regista negli spettacoli della sua Trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia). L’omosessualità, che genera esclusione e desiderio di fuga, tematica esibita e sviscerata senza tabù a più riprese. E soprattutto la poetica del silenzio, ricercato e ostentato (non vi è musica nel film, tranne che nel finale), affinché possa emergere la musica della vita, fatta di rumori, parole, respiri. Un silenzio paradossalmente assordante accompagna il caparbio duello tra Samira (Elena Cotta) e Rosa (Emma Dante) a suon di clacson, di sguardi feroci, di gesti provocatori che, a mano a mano, livellano le vite delle due donne, rendendole partecipi, per molti versi, di un comune destino. Si respira aria di Sicilia ad ogni frame che scorre dinanzi agli occhi. Sembra di sentirlo sulla pelle il vento rovente che con forza s’insinua in ogni vicolo, ricoprendo ogni cosa con la polvere che solleva. Non bastano l’acqua e i tergicristalli azionati da Rosa a ripulire e a fare chiaro. Tutto è annebbiato, la vista, i cuori, le vite stesse. Samira e Rosa, una di fronte all’altra, due straniere in terra straniera, vittime di un sistema da cui entrambe attuano un piano di fuga. Rosa sceglie un’altra città, Milano, in cui vivere liberamente la propria omosessualità. Samira si consegna alla morte, sottraendosi così ai giochi manipolatori dei suoi parenti acquisiti. Donne che rivendicano la propria libertà attraverso scelte estreme, assurde, mosse dalla caparbietà di chi “ha le corna più dure” e non è disposto a cedere, a lasciarsi “passare sopra” per l’ennesima volta.

La prospettiva della macchina da presa ci offre, in più occasioni, i protagonisti “di spalle”, come il Kantor de La macchina dell’amore e della morte la cui visione al Biondo di Palermo folgorò la giovane Emma Dante (nel lontano 1987) che, in quell’occasione, decise che non le interessava fare “certo teatro” e che preferiva fare come lui: dare irriverentemente le “spalle al pubblico” e fare ricerca. Le riprese restituiscono il movimento delle auto e dei protagonisti, con un effetto di realtà che rimanda a tanta poetica cinematografica, dal neorealismo alla Nouvelle Vague (come non ricordare le inquadrature della coppia Belmondo-Seberg in auto e a spasso per gli Champs-Élysée in À bout de souffle?).

Gli specchietti retrovisori catturano volti, cose, paesaggi come un prisma che, con le sue molteplici facce, raccoglie frammenti di realtà per restituirceli in una sintesi visiva percepibile in un solo colpo d’occhio. Dettagli essenziali di una realtà filtrata che lascia precipitare, come macigni, verità/immagini scomode e dolorose.

“Com’è sula sta’ strata”, intonano i fratelli Mancuso, mentre il film scivola verso il finale. Tutto è compiuto, il duello ha visto solo vinti sulla scena ed ognuno abbandona il proprio “rifugio” omertoso per accorrere ad assistere all’ennesima tragedia giunta al suo inesorabile epilogo.

Film metafora di una Sicilia (o Italia?) immobile, atavica nel suo ristagnare imperturbabile, dove i ritmi sono scanditi dall’eterna lotta scatenata in nome di diritti da far prevalere, di soldi da intascare disonestamente, di vite da maltrattare fino all’ultimo spasimo.

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Mondocane#19 – Lo zeitgeist di Carletto Mazzone

Carletto mazzone visto da Renzo Francabandera
Carletto Mazzone visto da Renzo Francabandera

MARAT | Perché la sensazione è sempre un po’ quella. Che non si è mai nel tempo giusto. Si sta lì fermi riscaldati di luce riflessa, mentre tutti ci ricordano che il teatro vero è stato prima, la musica non sappiamo più nemmeno cosa sia, del cinema non ne parliamo e le avanguardie dove si trovano? Che io con lui ci prendevo l’aperitivo, si vedeva dal semaforo quanto stava storto. Ma quando si metteva davanti alla tela, lo capivi eccome il motivo per cui era a questo mondo. E adesso? Adesso è tutto marketing Marat, figli di papà radical-chic del cazzo che gli chiedi di Modigliani e manco sanno chi sia. Figurarsi inventarsi una burla. Questi dei teatri poi, a fare da quarant’anni la stessa cosa perché una sera del 1975 quella cosa ha funzionato. Ora pure le performance, pensano che sia la rivoluzione. E invece hanno solo spolverato l’argenteria andata fuori moda, lucidata che pare nuova. Marat te lo dico io, vale un cazzo. Manco c’avete una guerra seria contro cui far casino.

E io bevo. E penso che in tutta onestà, non ne ho più mezza di ascoltare di questi discorsi. Che lo so che Brancusi si è fatto mezza Europa a piedi per andare a bottega da Rodin. Che quell’altro ha pulito scarpe agli angoli delle strade e che tizio suonava nelle feste di compleanno. E lo so che voi credete che a un certo punto tutto questo sia finito. Ed è arrivata una massa di gente sempre un pochettino troppo in là per aver vissuto veramente le cose. E sempre un pochettino troppo molle per farne di nuove. Sarà. Ma io invece tutt’intorno vedo gente che ha una passione che non si tiene. Una passione talmente grande, da farli divenir fragili come le caviglie di Van Basten. Gente sottopagata, sfruttata, che nun c’ha l’acqua corrente (ma chi me sente). Messa in condizione di non nuocere, non scegliere. Il teatro ne è pieno. Ma non solo. Eppure mentre riascolto l’album di Keyne West, penso che chi mi parla non ha capito. E il fatto che per generazioni abbiate chiuso con le Big Babol tutte le serrature delle nostre porte, non significa che non stiamo uscendo. A fatica, certo. Ma stiamo uscendo. Condividendo uno zeitgeist silenzioso e violento, dai contorni indefiniti. Ma dal messaggio chiarissimo. Che può essere sintetizzato nella reazione di Carletto Mazzone al termine del derby Brescia-Atalanta, pareggiato dai suoi all’ultimo minuto. “Figli de ‘na mignotta!” urla mentre s’alza dalla panchina e corre verso la curva avversaria. Divincolandosi dal buon senso. Lanciandosi nell’(in)atteso.

L’esperienza del buio: a Torinodanza la Partita della De Keersmaeker

atdkGIULIA MURONI | Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo, è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo)
Così Agamben, in una lezione introduttiva a Venezia, descrive l’atteggiamento di colui che, nel rapporto conflittuale e quindi vivo con la contemporaneità, è in grado di vedere il buio. L’oscurità cessa di esistere come mero spazio inerte di non-visione per manifestarsi come attività e al contempo capacità di vanificare le luci che lo insidiano. Su questa impronta si situa l’esperienza totale di buio (nonché esperienza di buio totale) architettata da Anna Teresa De Keersmaeker, che abbiamo visto nel suo “Partita 2-sei solo”, in scena al Carignano la scorsa domenica, in occasione del festival Torinodanza.
Il teatro è rimasto immerso per oltre venti minuti nel buio, privato in via del tutto eccezionale della fioca luce dei segnali di emergenza e riempito dal suono della Partita n.2 per violino di Bach e della febbrile attenzione di quasi mille persone. Come per gli scandalosi 4.33 di silenzio di Cage, la radicalità di una tale azione teatrale sembra motivata dalla scelta etica di scandagliare e dissezionare le componenti dell’opera d’arte, così che emerga con semplicità e chiarezza il valore intrinseco di ciascuna di esse. Per questo Gigi Cristoforetti, direttore del Torinodanza, invita il pubblico dapprima a limitarsi ad ascoltare, per poi guardare e soltanto infine fare entrambe le cose. Come per isolare le singole azioni percettive, setacciarle e campionarle in uno stato di bramosa concentrazione. La partita n.2 in re minore eseguita da George Alexander Van Dam sulla scena tetra avvolge lo spazio con un suono maestoso, ricco, drammatico.
Sembra il ritorno ad una scansione matematica, interiore, ripetitiva del tempo musicale, trent’anni dopo la prima pièce della coreografa fiamminga, Violin Phase, sulle note di Steve Reich. D’altronde De Keersmaeker non è nuova allo studio dell’infinito ventaglio di combinazioni danza-musica. Se En atendant osava un ardito confronto con una complessa polifonia del XIV secolo, Ars Subtilior, il successivo Cesena ha lavorato sull’abbattimento del confine tra danzatori e musicisti, costruendo una musica con le sole voci dei performer. Quella stessa atmosfera rarefatta, dilatata, interrotta da lunghi momenti di fermo immagine si ritrova anche in “Partita 2”, laddove erano i 19 performers ad arrestarsi in un attimo sospeso, qui è il flusso immaginifico del violino nel buio, sono i passi modulati dal gioco di riflessi distorti del duo, il denso effetto dello spostamento reciproco, fra peso e contrappeso.
La regia misura geometricamente lo spazio scenico in ordinate e ascisse, dalle quali scaturiscono gli incontri dei due vettori De Keersmaeker e Charmatz. Il centro dello spettacolo, in totale silenzio, è intessuto dalle trame dei loro incontri dinamici, di una danza come gioco serioso, serio ludere, fatta di corse e rincorse, salti e gesti. L’intensità gestuale e la presenza esperta della coreografa accompagnano e talvolta guidano il giovane partner fino all’atto finale in cui si ricompongono tutti gli elementi. È una ricostruzione perché il movimento si mostra perfettamente cadenzato sui contrappunti e sulla corposa armonia di Bach, il suono e il movimento si combinano in un quadro rigorosissimo e essenziale. Qui trova l’apice emotivo uno spettacolo che, senza sbavature, ha la sua forza nell’aver orchestrato senza alcun timore reverenziale la celebre musica di Bach con una danza affascinante, benché priva di enfasi espressionistiche.
In quel magico momento di condivisione di senso, elevato al quadrato dalla forza di un’oscurità fuori dall’ordinario, l’esperienza sensoriale ha acuito i sensi, li ha resi affamati di cogliere la sottile vibrazione presente, in modo sempre diverso, in ciascun momento dello spettacolo. Anna De Keersmaker voleva questo? Scalfire la razionalità analitica, giudicante, verso un ascolto profondo, libero, in tensione verso la misteriosa complessità degli elementi semplici? Il paradosso si trasforma in quesito insolubile. Può il buio rischiarare l’abisso?

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L'esperienza del buio: a Torinodanza la Partita della De Keersmaeker

atdkGIULIA MURONI | Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo, è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo)
Così Agamben, in una lezione introduttiva a Venezia, descrive l’atteggiamento di colui che, nel rapporto conflittuale e quindi vivo con la contemporaneità, è in grado di vedere il buio. L’oscurità cessa di esistere come mero spazio inerte di non-visione per manifestarsi come attività e al contempo capacità di vanificare le luci che lo insidiano. Su questa impronta si situa l’esperienza totale di buio (nonché esperienza di buio totale) architettata da Anna Teresa De Keersmaeker, che abbiamo visto nel suo “Partita 2-sei solo”, in scena al Carignano la scorsa domenica, in occasione del festival Torinodanza.
Il teatro è rimasto immerso per oltre venti minuti nel buio, privato in via del tutto eccezionale della fioca luce dei segnali di emergenza e riempito dal suono della Partita n.2 per violino di Bach e della febbrile attenzione di quasi mille persone. Come per gli scandalosi 4.33 di silenzio di Cage, la radicalità di una tale azione teatrale sembra motivata dalla scelta etica di scandagliare e dissezionare le componenti dell’opera d’arte, così che emerga con semplicità e chiarezza il valore intrinseco di ciascuna di esse. Per questo Gigi Cristoforetti, direttore del Torinodanza, invita il pubblico dapprima a limitarsi ad ascoltare, per poi guardare e soltanto infine fare entrambe le cose. Come per isolare le singole azioni percettive, setacciarle e campionarle in uno stato di bramosa concentrazione. La partita n.2 in re minore eseguita da George Alexander Van Dam sulla scena tetra avvolge lo spazio con un suono maestoso, ricco, drammatico.
Sembra il ritorno ad una scansione matematica, interiore, ripetitiva del tempo musicale, trent’anni dopo la prima pièce della coreografa fiamminga, Violin Phase, sulle note di Steve Reich. D’altronde De Keersmaeker non è nuova allo studio dell’infinito ventaglio di combinazioni danza-musica. Se En atendant osava un ardito confronto con una complessa polifonia del XIV secolo, Ars Subtilior, il successivo Cesena ha lavorato sull’abbattimento del confine tra danzatori e musicisti, costruendo una musica con le sole voci dei performer. Quella stessa atmosfera rarefatta, dilatata, interrotta da lunghi momenti di fermo immagine si ritrova anche in “Partita 2”, laddove erano i 19 performers ad arrestarsi in un attimo sospeso, qui è il flusso immaginifico del violino nel buio, sono i passi modulati dal gioco di riflessi distorti del duo, il denso effetto dello spostamento reciproco, fra peso e contrappeso.
La regia misura geometricamente lo spazio scenico in ordinate e ascisse, dalle quali scaturiscono gli incontri dei due vettori De Keersmaeker e Charmatz. Il centro dello spettacolo, in totale silenzio, è intessuto dalle trame dei loro incontri dinamici, di una danza come gioco serioso, serio ludere, fatta di corse e rincorse, salti e gesti. L’intensità gestuale e la presenza esperta della coreografa accompagnano e talvolta guidano il giovane partner fino all’atto finale in cui si ricompongono tutti gli elementi. È una ricostruzione perché il movimento si mostra perfettamente cadenzato sui contrappunti e sulla corposa armonia di Bach, il suono e il movimento si combinano in un quadro rigorosissimo e essenziale. Qui trova l’apice emotivo uno spettacolo che, senza sbavature, ha la sua forza nell’aver orchestrato senza alcun timore reverenziale la celebre musica di Bach con una danza affascinante, benché priva di enfasi espressionistiche.
In quel magico momento di condivisione di senso, elevato al quadrato dalla forza di un’oscurità fuori dall’ordinario, l’esperienza sensoriale ha acuito i sensi, li ha resi affamati di cogliere la sottile vibrazione presente, in modo sempre diverso, in ciascun momento dello spettacolo. Anna De Keersmaker voleva questo? Scalfire la razionalità analitica, giudicante, verso un ascolto profondo, libero, in tensione verso la misteriosa complessità degli elementi semplici? Il paradosso si trasforma in quesito insolubile. Può il buio rischiarare l’abisso?

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Disastri climatici in scena al Romaeuropa

SfumatoBRUNA MONACO | Il riscaldamento terrestre e le sue conseguenze non tanto sul pianeta quanto sulle persone. Le conseguenze a breve, brevissimo termine: popoli costretti ad abbandonare i propri villaggi e migrare in cerca di una terra migliore. Villaggi interi coercitivamente allontanati dalla campagna, dopo estenuanti e inutili manifestazioni. I rifugiati ambientali sono una nuova categoria di esuli, in pericoloso e rapido aumento, poco conosciuta dall’opinione pubblica, poco seguita dai mass media.
Parla di loro, anche di loro, l’ultimo spettacolo di Rachid Ouramdane portato al Teatro Eliseo dal Romaeuropa Festival. Sempre attento a tematiche sociali, il coreografo francese di origine algerina questa volta ha scelto un tema trasversale che va dall’uomo alla natura per ricadere tragicamente sull’uomo. In Sfumato l’uomo-carnefice, causa dei disastri, è una presenza immateriale. Ma vediamo l’uomo-vittima, in una duplice forma, che sembra un ossimoro: dal vivo i danzatori lo rappresentano, in video invece lo incarnano i testimoni reali. Visi dai tratti orientali, cinesi e vietnamiti, appaiono uno dopo l’altro su uno schermo che copre tutto il fondo-scena. I primi piani sono strettissimi e fissi, la camera sembra voler entrare nella pelle dell’intervistato per partecipare (e far partecipare il pubblico) della sua sofferenza. Una voce off racconta in prima persona le disavventure di questi personaggi. Sui rappresentati dell’uomo-vittima in scena, invece, imperversa la natura nei suoi quattro elementi, natura che qui è carnefice dopo essere stata anch’essa vittima dell’uomo.
Lo spettacolo si apre col fuoco, il riscaldamento terrestre: a terra due corpi accasciati emanano fumo. Loro non si muovono, sembrano morti, ma il fumo aumenta e riempie la scena, arriva al pubblico. Arriva l’aria a spazzare via il fumo, ma non in modo pacifico: è un uragano. Lora Juodkaite rotea su se stessa per più di sei minuti, ininterrottamente. Nulla che somigli a uno stato di trans: Lora è lucida mentre ruota, modifica l’effetto della rotazione muovendo le braccia, la schiena, la testa. Un microfono sull’avambraccio registra il suono dell’aria che si sposta. Poi arrivano le piogge delle foreste pluviali. L’acqua scroscia sul palcoscenico, bagna i danzatori che si dibattono al suolo come animali in cattività. E per alleggerire la scena un riferimento pop: mentre sul fondo l’acqua abbatte due danzatori, si affaccia alla ribalta un terzo interprete che in scarpe da tip tap ritma e intona un inatteso Singin’ in the rain.
Sfumato di Rachid Ouramdane è un spettacolo dalla grande efficacia visiva. Ma lo stile del regista è ben più che riconoscibile: i moduli coreografici che propone in questo spettacolo sono molto simili a quelli visti l’anno scorso in Ordinary Witnesses: danza roteante, break dance, il rallenty che periodicamente si insinua e rompe il movimento naturale delle azioni. A differenza Ordinary Witnesses, però, in Sfumato c’è poca coesione, forse poco coraggio. E’ uno spettacolo che sembra soprattutto ricercare l’effetto e senza dubbio lo trova. Ma una volta raggiunto, l’effetto svanisce, non c’è nulla che penetri e si sedimenti nello spettatore.
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La storia antica nella modernità: a Romaeuropa lo splendido “Continu” di Sasha Waltz

continu-sasha waltzLAURA NOVELLI | Dinnanzi ad un capolavoro come “Continu” di Sasha Waltz non si può che restare ammirati, incantati, rapiti. Insieme alla raffinatezza formale, affidata a ventitré danzatori di diversa nazionalità che eseguono in modo perfetto una coreografia a quadri modulata su un’efficace alternanza di scene di massa e momenti più intimi, stacchi violenti e intarsi silenziosi, colpisce la sensibilità espressiva con cui la grande coreografa tedesca fa “parlare” i corpi restituendo, nel complesso della piéce, un universale messaggio di “pietà”. Il palcoscenico (quello dell’Auditorium Conciliazione che ha ospitato l’evento per il Romaeuropa Festival) è vuoto.
Abiti e luci prediligono le tinte fredde: colori non colori che vanno da nero al bianco al beige e al marrone. Si danza l’idea del dolore, della sopraffazione, della guerra, della morte. E lo si fa in una cerimonia compassata, visionaria, ancestrale, dove l’impianto classico, imbastito però su musiche del ‘900 (per lo più attinte al repertorio del greco Iannis Xenakis e del francese Edgar Varèse), sembra voler tradurre in una fisicità fluida e trasformabile la fissità statuaria della Storia e dell’Arte.

Non è un caso che questa magnifica opera nasca, nel 2010, come terza tappa di un percorso creativo che ha visto la Waltz firmare due installazioni site specific concepite per due importanti musei europei quali il Neues Museum di Berlino e il MAXXI di Roma. E’ da questi due spazi espositivi, dalle loro architetture, dalle collezioni che ospitano, dallo spirito che li attraversa che scaturisce l’idea di una composizione ispirata essenzialmente all’arte antica, alla pittura egizia, a reperti preistorici, a incisioni tramandateci su oggetti di milioni di anni fa. Ed è proprio tale richiamo all’antico a plasmare l’eleganza statuaria dei movimenti geometrici e composti che vanno via via disegnando questo tuffo nell’umano. Movimenti ciclici eppure sempre primigeni, leggiadri e insieme forti, sensuali e al contempo duri. Mai però l’orchestrazione d’insieme cede al didascalico, all’archeologia, al richiamo esplicito. Motivo per cui è proprio questa straordinaria capacità di sublimare e personalizzare una materia tanto lontana nel tempo a costituire uno dei più raffinati pregi di “Continu”. Perché se, da una parte, la coreografa si allontana enormemente dalla concretezza e dall’ironia riscontrabili in altri suoi titoli (basti citare quel “Travelogue I – Twenty to Eight”, spettacolo del ’93 riproposto l’anno scorso all’Eliseo sempre nell’ambito del Romaeuropa, di cui avevamo scritto sul numero del 16 ottobre di www.paneacqua.info), dall’altra, ci consegna una visione allusiva della parabola umana, del costante bisogno di violenza (e amore) che la attraversa, assorbendo l’antico nel moderno e raccontando con astrattezza classicheggiante l’eterna trasformazione dell’uomo, della vita, del mondo.

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Il primo quadro è già emblematico in tal senso: alcune danzatrici vestite con un lungo abito nero abitano lo spazio primitivo e funesto evocato dalle percussioni suonate dal vivo e sembrano preannunciare, nelle loro movenze larghe e a tratti nervose (tanto da ricordare lo stile di Pina Bausch ma anche quello di Marta Graham), l’ambivalenza “storica” che attraversa il lavoro: la sensualità della scena successiva cede, infatti, subito dopo ad una cruda visione di esecuzione con quel “pam pam” solennemente recitato sotto i cui tiri cadono i corpi, uno dopo l’altro. Ma ecco poi la seconda parte aprirsi su uno scenario del tutto nuovo. In una terra desolata dal biancore accecante una danzatrice esegue un assolo in costume. C’è qui un forte contatto con la terra (sottolineato anche dai colori degli abiti), con il basso, con l’animalità: qualcosa di ctonio che accomuna anche le scene corali successive. I corpi si legano tra loro. Uomini e donne si incontrano e si scontrano, fino alla cerimonia sacra introdotta da tre figure femminili trasportate in scena sulle spalle dei partner. Sono loro ad aprire gli ultimi, vitali, momenti della pièce, laddove i piedi dei danzatori disegnano sul palcoscenico bianco strisce, cerchi, righe, figure geometriche dai colori lividi e cupi. Un tappeto di segni, di antichità moderna, di morti e rinascite che – siamo all’epilogo – si arrotola poi su stesso come un sudario di dolore. Un arazzo di vergogne umane da cui ripartire.

Il bunraku l’amore e la morte

sonezakiBRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.

Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.

Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.

Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.

Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.

D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.

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Il bunraku l'amore e la morte

sonezakiBRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.
Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.
Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.
Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.
Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.
D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.
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Spaghetti, mandolino e immagine della donna: Boldrini, ore 11

Roma_ore_11IGOR VAZZAZ | Viviamo in un paese strano. Lo sentiamo ripetere da quando siam nati e, alla fine, ne siamo convinti, perpetrando l’assunto ogniqualvolta ci venga richiesto di proporre qualche sparuta, parzialissima osservazione su quanto ci circonda. Inzuppati sino al midollo nella comunicazione, invasiva, violenta, interstiziale, il dilemma su quale e quanta importanza debba concedersi al mondo come rappresentazione rispetto alle sue strutture è tutt’altro che lezioso, avendo ben coscienza di quanto ciò che viene propalato dai mezzi di comunicazione incida sulle strutture stesse, in un vortice di rimandi che ci pare tra i più complicati problemi della nostra contemporaneità.

Nondimeno, la nostra personale natura novecentesca (senza orgoglio: sinora, abbiamo vissuto più nel secolo, e millennio, scorso che nel presente) si desta dal dormiveglia, quando, è il caso di qualche giorno fa, scorrendo i giornali, ci capita di notare due notizie apparentemente slegate tra loro, eppure unite da un irriducibile, almeno ai nostri occhi, fil rouge. Da un lato, l’appello, ennesimo, di Laura Boldrini circa lo sfruttamento del corpo femminile in ambito pubblicitario, paventando la possibilità d’ipotetiche (a parer nostro demenziali, oltreché poco applicabili) censure sul tema; dall’altro, la notizia delle cinquecento donne in fila, a Genova, per tre, leggasi tre, posti di lavoro in un negozio di abiti per bambini. Cinquecento giovani e meno giovani, italiane e straniere, curriculate e non, convenute col sogno di un lavoro, guadagnare dei soldi, chissà, campare la famiglia, per quelle temerarie che ne abbiano voluta costruire una, sia essa tradizionale, innovativa o quant’altro.

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Premessa: le considerazioni alla base dei discorsi della Boldrini sono intuibili, ci illudiamo di comprenderne il senso, pure una certa necessità, eppure, l’evidenza dell’altro fatto ci pare di tutt’altra entità, al punto da far slittare in secondo piano (non obliterare) la questione posta dalla presidente della Camera. Proviamo a spiegare: la televisione, e la pubblicità in particolare, è uno strumento di registrazione, sciente campionamento  del reale, riproposto in forma potenziata ed efficace. Provare a “correggere” un’ingiustizia partendo dal piano mediatico, quello dell’immagine televisiva, ci pare davvero ipotesi ardita, come costruire un edificio partendo dal tetto e non dalle fondamenta. In questo senso, fondamenta sono le condizioni reali, di lavoro, di inserimento sociale, di dignità professionale, non certo la diffusione di modelli magari criticabili, ma che trovano riscontro, ahinoi, in rappresentazioni ben più sedimentate nell’immaginario comune. E, in questo senso, ci pare di riscontrare la vera impasse della sinistra contemporanea, che, da un lato, pensa di potersi permettere la ricusa di Marx, orpello inservibile, dall’altra, ignorandolo, finisce per smarrire completamente qualsiasi legame solido con i suoi interlocutori principali, relegandosi in una terra di nessuno autoreferenziale e velleitaria.

La questione dello sfruttamento del corpo femminile è, purtroppo, un problema secolare nella nostra cultura, checché ne possano dire gli anti-islamici dell’ultim’ora (o dell’ultimo decennio). La stessa storia del teatro moderno nasce grazie allo sfruttamento muliebre: tra le principali “armi” dei comici dell’arte, nel Cinquecento, i primi professionisti dello spettacolo, dove arte sta, appunto, per mestiere, lavoro, c’era l’impiego di attrici in scena, opzione inusitata e scandalosa per l’epoca, giacché il palcoscenico era spazio da sempre riservato ai maschi. Non è che gli Andreini, e le varie famiglie di teatranti che hanno attraversato i secoli, fossero femministi egalitari: macché. Semplicemente, pure all’epoca, la presenza di una donna tirava di più, specie se bella. Alla fin fine, un evento di questo genere, sorto da una necessità non particolarmente nobile (ma, per chi scrive, la sussistenza ha sempre quarti di nobiltà), ha comportato un risultato positivo.

Tornando al giorno d’oggi, pensare d’impugnare la bacchetta e pretendere di imparare alla pubblicità come rappresentare il mondo, ci sembra davvero voler drizzar le zampe ai cani, con la realtà di una sinistra che, per paradosso, da parte avanzata e progressiva della società, si ritrova, e non solo su questo campo, a svolgere battaglie di retroguardia, dai contorni conservativi. Convinti come siamo che l’etica sia un momento dell’estetica, pensiamo che il machismo, più o meno implicito, proposto dai mass media sia da combattere sul campo culturale, con l’umorismo, la parodia, l’assurdo, la rappresentazione stessa, e non con altre leggi, altre righe di codice, altri comandamenti da disattendere. Certo, per farlo si dovrebbe avere la forza di sobbarcarsi uno sforzo culturale, avere una sparuta visione da proporre, cosa che questa sinistra, benché non abbia (ancora) abiurato a Gramsci, sembra non saper sciorinare. Del resto, se così fosse, sarebbe anche ben chiara la gravità della situazione rappresentata dal caso genovese: se le donne potessero lavorare (e usufruire di leggi eque al riguardo), la pubblicità si adeguerebbe di conseguenza.

A proposito, restando in tema: della Barilla tacciamo. La pasta ci piace buona.

Vivo e Coscienza: il Pasolini crossmediale di Veggetti con la Paolo Grassi

vivoecoscienza_veggetti.jpgRENZO FRANCABANDERA | Che titolo straordinario per un lavoro “Vivo e Coscienza”. Il libretto per questa coreografia è stato scritto da Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta in collaborazione con il compositore e direttore d’orchestra Bruno Maderna e l’attrice Laura Betti. Gli allievi del terzo corso di Teatrodanza Paolo Grassi di Milano lo hanno rivissuto con la regia del coreografo Luca Veggetti, uno dei talenti italiani della coreografia che pare avere più seguito all’estero, con commissioni non di secondo piano fra le quali quelle del New York City Ballet e dalla Martha Graham Dance Company, per non dire delle serate di presentazione del suo lavoro al museo Guggenheim a NY e il recentissimo riconoscimento con la Maschera d’oro al Teatro Bolshoi di Mosca per il suo “Meditation on Violence”.

La delicata rilettura, operata su partitura musicale e sonora originale del compositore Paolo Aralla e lo straordinario contributo artistico in forma di voce registrata di Francesco Leonetti, ha debuttato al Mittelfest 2013 di Cividale del Friuli e viene replicato proprio il 7 ottobre a Milano all’interno della vetrina MilanOltre, presso il Teatro dell’Elfo.

E’ la storia di un bacio mancato, vissuta attraverso il personaggio di Vivo che di salto in salto nella Storia, fra Seicento, Rivoluzione Francese, Italia fascista e Resistenza, vive il suo conflitto con Coscienza. Vivo e Coscienza vogliono un incontro, vorrebbero scambiarsi un bacio, ma il destino, pur avvincendoli, li separa. Interpretano l’eterno dissidio in cui la condizione umana arriva a trovarsi i i giovani allievi della scuola Paolo Grassi di Milano che, partendo dalle scarne indicazioni lasciate da Pasolini hanno potuto sviluppare quadri emotivi suggeriti dall’analisi di Veggetti, che pare aver rivisto, come ci conferma nella videointervista che vi proponiamo, l’eco del tempo familiare, del rapporto e la memoria con la sua figura paterna, mentre nella memoria e nello spettacolo risuona, distorta, la voce di Domenico Modugno che canta “Cosa sono le nuvole”.

La videointervista è stata registrata a Cividale del Friuli in occasione del Mittelfest, all’interno del bellissimo chiostro della Chiesa di San Francesco.

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