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domenica, Marzo 16, 2025
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Lo spaesamento dell’uomo contemporaneo: ancora un Beckett per Mauri e Sturno

beckettmauriLAURA NOVELLI | Glauco Mauri e Roberto Sturno tornano a Beckett. E ci tornano con un lavoro, “Da Krapp a Senza parole” il titolo, che intende esplicitamente riannodare un doppio filo: quello con l’autore che meglio di altri ha saputo descrivere lo spaesamento dell’uomo contemporaneo e quello, non meno significativo, con la loro stessa storia artistica. Mauri, infatti, nel ’61 fu il primo interprete italiano de “L’ultimo nastro di Krapp” e di “Atto senza parole”; nel ’73 recitò con Laura Betti in “Beckett ‘73” su regia di Franco Enriquez e nel ’90, già in coppia con Sturno, diresse una silloge di dieci atti unici divisi in due parti (“Dal Silenzio al Silenzio” e “Senza voce, tra le voci rinchiuse con me”) che si aggiudicò il Premio della Critica ’91.

Questo nuovo allestimento beckettiano, in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino al 21 aprile, nasce dunque con un debito di riconoscenza nei confronti di importanti esperienze passate. Come se i due artisti (da decenni artefici di progetti condivisi) volessero in un certo qual modo misurare la forza di questa drammaturgia così scandalosamente innovativa a distanza di anni, modulandone le vibrazioni e il senso (anche) sui sedimenti che le tante diverse interpretazioni fatte nel frattempo hanno lasciato nel loro vissuto di uomini e di teatranti. Beckett sembra, infatti, aver quasi accompagnato, come un sottofondo di motivazioni e di domande sull’uomo, l’intero percorso creativo della coppia. Tanto quanto, del resto, egli ha accompagnato e nutrito, talora in modo esplicito talora in sordina, buona parte del teatro contemporaneo.

Impossibile dire qualcosa di nuovo su di lui. Ma partiamo da un ricordo. Nel 2007, per celebrare il centenario della nascita dell’autore irlandese, Peter Brook  attinse a cinque titoli brevi assai poco frequentati sulle nostre scene (“Come and go”, “Rough for Theatre I”, “Rockaby”, “Act Without Words II”, “Neither”) e ne trasse un unicum di estremo nitore, “Fragments”, dove la semplicità dell’impianto scenico sposava la geniale afasia di una lingua ridotta all’impossibilità stessa di dire. Mentre assistevamo allo spettacolo di Mauri/Sturno ci è tornata in mente quella messinscena e ci è tornata in mente anche un’affermazione del grande regista anglo-francese: “Beckett è un autore che tuffa lo sguardo nell’insondabile abisso dell’esistenza umana. S’inserisce sulla sottile linea che lega il teatro greco antico, attraverso Shakespeare, al nostro tempo, celebrando senza compromessi la verità, una verità sconosciuta, terribile, sconvolgente”.

beckettmauriE ciò capita non solo nei suoi capolavori più celebri ma anche nelle opere brevi, nei monologhi, nei testi di pura azione. “Da Krappa a Senza Parole” (regista lo stesso Mauri) mette insieme, non a caso, “Respiro” (1969), “Improvviso dell’Ohio” (1981), “Atto senza parole” (1957) e “L’ultimo nastro di Krapp” (1958), preceduti da un prologo, a dire il vero un po’ didascalico, in cui i due attori, chiusi in bidoni come i Nagg e Nell di “Finale di partita” ma citando brani di “Aspettando Godot”, ricostruiscono qualche stralcio biografico dell’autore e lo chiamano in causa (complice la proiezione di gigantografie) per raccontare con le sue stesse parole qualcosa di quel privato che egli difese sempre con decisa riservatezza.

Il registro dominante della pièce combina dunque, sin da subito, toni tragici e toni ironici da pantomima, suggerendo senza troppe allusioni l’ambivalenza di una drammaturgia che gioca fino in fondo la sua partita con il grottesco. Tanto che al lampo di intuizione visiva e sonora mostratoci in “Respiro” (una scena cosparsa di rifiuti e animata solo da un piccolo grido, poi da un vagito, e da precisi effetti di luce) segue la compostezza drammatica, e assolutamente misteriosa, di “Improvviso dell’Ohio”, dove due figure identiche siedono attorno ad un tavolo per imbastire (forse) il ricordo di una donna amata e ormai scomparsa, per fare (forse) una confessione a se stessi, per mettere (forse) faccia a faccia un uomo e la sua anima.

Arriva poi la clownistica impossibilità di accedere ai desideri – e dunque di vivere – raccontata con sarcasmo alla Charlot in “Atto senza parole”, affidato all’ottima prova di Sturno: un omino perso nel deserto tenta di fare qualcosa, vorrebbe prendere la brocca d’acqua che scende dal soffitto, non ce la fa, ritenta, non parla mai. Il suono di un fischietto scandisce i suoi “atti”: il ridicolo incedere dell’esistenza umana assume la fisionomia di un buffone destinato a mancare sempre la sua azione.

E’ tuttavia nell’ultimo quadro della silloge, “L’ultimo nastro di Krapp”, che il lavoro trova il suo momento più poetico e commuovente. Questo Krapp anziano, maldestro, quasi claudicante, indifeso, rintanato in una montagna di ricordi e rancori, è davvero l’immagine dell’infelicità, della nostalgia intesa etimologicamente come “ansia del ritorno”. Mauri ci regala un’interpretazione intensa e credibile che è un tuffo sordo nella solitudine, nel silenzio dell’oggi rispetto alla voce e ai sogni di ieri. Qui il richiamo alla sua personale biografia artistica si fa esplicito: utilizzando lo stesso nastro già impiegato nella messinscena del ’61, l’attore ritorna alle ragioni di quell’allestimento di cinquantadue anni fa e ci lascia intendere che la disperazione e l’angoscia sono sentimenti senza età.

Cesar Brie racconta Viva L'Italia, dedicato a Fausto e Iaio – il videoreport

fausto e iaioRENZO FRANCABANDERA | La categoria delle “morti assurde” è un topos chiaro. Ai giorni nostri si tratta per lo più di incontri col destino, cui spesso sono derubricati incidenti di varia natura. Ma negli anni Settanta e Ottanta sotto la categoria finivano anche omicidi politici, la cui spiegazione, a quarant’anni di distanza appare quantomeno difficile.
Trentacinque anni dopo. Alcuni dei ragazzi in scena(Massimiliano Donato, Andrea Bettaglio, Alice Redini, Umberto Terruso, Federico Manfredi) non erano ancora nati. I loro genitori, nella migliore delle ipotesi, erano giovani fra i venti e trent’anni. Quelli invece che racconta la storia rappresentata in Viva l’Italia è la vicenda di due ragazzi di diciotto anni.
Morire di politica a diciotto anni. Senza neanche avere una colpa specifica, se non quella di interessarsi alle indagini sociali sul consumo di sostanze stupefacenti. Sono morti così trentacinque anni fa Fausto e Iaio a Milano. Due. In una sera. Per mano di un commando di integralisti politici di destra. Che vendicavano forse altri morti di destra, uccisi a Roma alcuni giorni prima. Di età simile. O forse per altre ragioni.
Adesso parrebbe assurdo. E infatti è appunto una morte assurda quella che lo spettacolo racconta.
Il testo, come ci racconterà poi meglio Cesar Brie nella video intervista di oggi, si componeva di cinque monologhi, dialogizzati poi, per inserire nel testo una dinamica di relazione ancora maggiore fra i personaggi, interpretato da un giovane gruppo diretto dal regista italo argentino.
L’esito, pur con qualche peccato di ingenuità sia interpretativa (segnaliamo comunque la bella prova di Andrea Bettaglio nella parte del commissario) che drammaturgica, è certamente interessante per diversi ordini di questioni, dalla ricostruzione dei fatti al recupero dei documenti, all’affresco generazionale, al ritorno su un tempo su cui pare calato l’oblio.
E questa operazione è corroborata dallo stesso Teatro dell’Elfo attraverso la riproposizione di una interessante mostra di cartelloni (all’epoca avevano il più fluorescente e militante nome di taze bao, termine ormai caduto totalmente in disuso). Erano appunto desktop cartacei, come li definirebbe il progresso, su cui venivano affissi in ordine logico documenti estrapolati dalla stampa, integrati con interventi a mano, pennarelli. Insomma documenti, gli stessi che la scuola in cui i due giovani erano studenti volle realizzare per ricordarli. Il percorso nella memoria è affascinante, doloroso, inspiegabile soprattutto alla luce della totale piattezza in cui siamo piombati nel decennio successivo e poi di lì in poi fino ad ora.
Fino al nostro tempo. Ai trota. Alla giovane prostituzione di regime. A questa gioventù disperatissima, così lontana dagli occhi svegli, presenti, vivi di Fausto e Iaio. Forse sbagliati, ma sicuramente formidabili quegli anni per chi li ha vissuti. Perché ha potuto credere. Pensare utopia.
Vi lasciamo all’intervista con Brie.

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Unica certezza: la morte nella sperduta fortezza. Il deserto dei tartari a teatro

deserto dei tartari Giordano PettorrusoMARIA PIA MONTEDURO | Considerato il capolavoro di Dino Buzzati e, forse, uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano, “Il deserto dei tartari” rappresenta l’angoscia dell’esistenza, l’attesa per un qualcosa che non arriva mai, sorta di “Aspettando Godot” letterario, incontro con una vita piena che, in definitiva, diventa l’appuntamento con l’unica certezza dell’uomo, la morte. Pubblicato nel 1940, il romanzo si impose subito come esempio di una letteratura realistica e al contempo surreale: l’accusa, per le stesse parole dell’autore, a un vita regolata da un tran tran abituale asfissiante (quelli che nel romanzo sono “i regolamenti”), ad assurdi principi che organizzano il vivere quotidiano senza lasciar posto alla fantasia, dove la speranza di sclerotizza, come sclerotizzata è la Fortezza Bastiani, dove l’ufficiale Giovanni Drogo consuma la sua assurda realtà esistenziale. Il romanzo fu anche trasposto per il cinema nel 1976 da Valerio Zurlini.
Maura Pettorruso ne realizza un intenso adattamento teatrale, con la regia di Carmen Giordano, in collaborazione con la Fondazione Dolomiti UNESCO e l’Associazione Internazionale Dino Buzzati: il giovane Woody Neri dà voce, corpo e spessore a Drogo, che si confronta con sė stesso, i propri pensieri, i propri desideri e le proprie paure esistenziali.
Una scena essenziale, spoglia – come essenziale e spoglia è la vita nella Fortezza – punteggiata e resa viva solo da alcune semplici lampade, che lo stesso Drogo accende e spegne, a sottolineare i momenti salienti dell’incedere della vicenda. Drogo cerca di convincere se stesso, e il pubblico, che resterà in quella dannata fortezza solo quattro mesi, certo di poter uscire da quel labirinto dell’anima, di poter tornare nella lontana città dove vive sua madre e, come si apprende poi, una donna che, forse, ha amato, riamato. Invece i mesi, gli anni, i decenni, scorrono pigri e ripetitivi, allertati talvolta da lontani movimenti che si scorgono verso l’orizzonte: miraggi, speranze, reali accadimenti?
Drogo non lo sa con certezza, perché la Fortezza Bastiani assorbe e annulla ogni gesto, ogni cambiamento, ogni illusione. Woody Neri interpreta con forza e coraggio le sconfitte di un uomo, che sono poi quelle dell’umanità, perché per Buzzati speranze e illusioni nascondono all’uomo il vero senso della vita. “Ho camminato girando a vuoto / senza nessuna direzione” ricorda Franco Battiato nel brano “Fortezza Bastiani” ed è proprio quello che fa Drogo/Neri, cercando di capire cosa lo tenga bloccato in quel lontano avamposto inutile, dove i quattro mesi iniziali si trasformano inesorabilmente in trent’anni!
Alla fine, sconfitta crudele, forse stanno veramente arrivando dei nemici, ma ormai Drogo è morente, dimenticato da tutti i suoi stessi commilitoni, e non può partecipare all’attacco: egli assapora così l’amaro gusto della sconfitta di una vita, della resa di fronte a un destino beffardo e spietato. L’adattamento teatrale ha ridotto il testo di Buzzati in un monologo, dove la valenza attorale del giovane Neri riesce a dare profondità alle laceranti variazioni di stato d’animo di Drogo; l’attore esibisce una voce possente e ben impostata che, con una leggera e piacevole inflessione dialettale, voluta, del Nord Italia – Buzzati era di Belluno –, riesce a ben raffigurare ciò che dilania l’animo del povero ufficiale.
Tante volte, anche dalle colonne di questa testata, si è sottolineato come ormai la forte crisi economica obblighi ad allestire spettacoli ”per una voce sola”, a volte svilendo e sminuendo testi che necessiterebbero di ben altri adattamenti teatrali. In questo caso invece il romanzo “Il deserto dei tartari” è, a ben analizzare, il romanzo di un’anima sola, perché solo è l’uomo davanti alla Vita, sia che viva in una frenetica città moderna, sia che sia confinato in una sperduta e irraggiungibile fortezza a difendere (chi? cosa?) da fantomatici tartari. Un’operazione teatrale ben riuscita.

Qui è possibile vedere uno studio dell’intero spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8m79cNKMZPg]

La vita modesta di Ronconi-Spregelburd

LA_MODESTIABRUNA MONACO | Quattro eccellenti attori. Otto personaggi intriganti. Due storie parallele e un testo lungo e controverso. Sono questi i numeri vincenti de La modestia di Rafael Spregelburd diretto da Luca Ronconi e in scena al Teatro Argentina dal 9 al 14 aprile.
La modestia è la terza parte di una “eptalogia”, sette opere sulla dissolutezza contemporanea. Una per ogni peccato capitale. L’imponente opera morale di Spregelburd si ispira ai dipinti medievali di Bosch che rappresentò i sette vizi condannati dalla chiesa. Il punto di vista del drammaturgo, regista e attore argentino però modifica non poco l’oggetto osservato e nell’attualizzarsi i vizi si trasfigurano. La lussuria diventa L’inappetenza. L’invidia, La stravaganza. La modestia prende il posto della superbia. La stupidità sta per l’avarizia. Il panico, per l’accidia, La paranoia sostituisce la gola. La cocciutaggine, l’ira.
Una commedia “enigmatica o ironica”, la definisce Luca Ronconi, “a seconda dell’occhio con cui lo spettatore sceglie di vederla”. Ma si potrebbe dire una commedia ironica e enigmatica, a seconda che si voglia descrivere una o l’altra delle due vicende che scorrono parallele al livello del racconto, non si incontrano mai. Eppure si intrecciano al livello registico-drammaturgico perché le scene si inseguono in un montaggio alternato che diventa chiaro solo dopo un po’.
Enigmatica, dicevamo, è certamente la storia ambientata a cavallo di due appartamenti di un condominio argentino: personaggi ambigui, traffichini, tengono nascosta la natura della relazione che li lega, nonché delle attività, senza dubbio illecite, che svolgono. Quattro personaggi sono in scena ma altri gravitano intorno a loro: un numero imprecisato di individui nominati, attesi, protagonisti non dell’azione ma dei discorsi e pensieri dei nostri personaggi. Probabilmente artefici o complici di ciò che si sta macchinando ma non è dato sapere, e non lo sarà neppure alla fine.
Tragicamente ironico l’episodio russo che mostra la desolante umiliazione di uomo dalle insoddisfatte velleità di scrittore, ridotto in fin di vita dalla tubercolosi e dalla povertà. È la povertà che induce sua moglie a mentire, a spacciare e vendere con la firma del marito l’inizio di un manoscritto all’apparenza geniale, composto (forse) dal defunto padre di lei. Ma l’aspirante scrittore, di genio non ne ha, e forse neppure talento se non riesce ad aggiungere una parola a quelle appassionanti e già scritte. Gli acquirenti non sono ricchi editori ma poveri rifugiati, con qualche soldo e poche prospettive, che vedono nel manoscritto e nel suo presunto autore la possibilità di riscatto delle loro miserabili vite.
Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pietrobon, Fausto Russo Alesi, egregi sempre, entrano ed escono dai personaggi con fluidità ingenerando una piacevole confusione nello spettatore che arriva a immaginare la diade di personaggi incarnati da ogni attore come i due contrastanti aspetti della personalità di un medesimo personaggio, piuttosto che come due esseri autonomi. Così ad esempio, Francesca Ciocchetti è allo stesso tempo Ángeles e Anja Terezovna. Paolo Pietrobon, Arturo e Smederovo. La regia di Luca Ronconi favorisce con vari mezzi questa confusione: gli attori non cambiano di abito, né cambia l’ambientazione: pareti verdi, divano e credenza nella stanza sudamericana come in quella europea. E talvolta nell’inizio della scena della nuova storia gli attori si comportano come fossero i personaggi della vecchia. Così La modestia parla anche della perdita dell’identità degli individui, della difficoltà a mantenersi granitici in epoca contemporanea, in cui tra precariato e crisi siamo tutti chiamati a riciclarci e a cambiare senza sosta ruolo e posizione di fronte agli altri. La distanza tra la chiarezza d’esposizione della storia russa e l’opacità di quella argentina, troppo marcata per non essere significante, può forse inserirsi in questo discorso: la perdita dell’identità è anche affare narrativo, non c’è un unico modo di essere storia. Spregelburd ce ne mostra almeno due.
Ma ci sarebbe il tema ad accomunare le vicende, la modestia, che dà il titolo alla pièce. Anche questo subito visibile nella vicenda russa, è sfuggente in quella argentina. Assodato che per Spregelburd la modestia non è la qualità di chi non ama mettere in mostra i propri meriti e cerca di sminuirli perché cosciente dei propri limiti o perché, timidamente, teme la lode. La modestia non è una virtù ma un vizio, una declinazione della menzogna. Infatti, nessuno dei personaggi di questo spettacolo modesto lo è realmente. Non lo è lo scrittore Terzov, non sua moglie, non lo erano Arturo, Ángeles e gli altri da giovani, quando si proclamavano comunisti (situazione evocata in uno dei momenti più esilaranti dello spettacolo quando gli amici argentini, sotto effetto di droga ridono e ricordano il passato). Tutti, al più, sono bugiardi, o sono stati ipocriti. Ciò che davvero accomuna le due storie, il vero motore delle azioni, a ben vedere, è la miseria. L’obiettivo di tutti, questo sì chiaro in entrambe le storie, è arricchirsi. Per sopravvivere gli uni, per vivere meglio gli altri. Così la miseria non è solo un dato economico, oggettivo, ma anche morale: miseri sono i rifugiati in URSS e i truffatori argentini. Miseri gli spiriti di questi eroi piccoli piccoli. Misere le nostre vite nel mare in tempesta della società liquida.

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A lezione di "shakespearism" con il Prof. Tim Crouch

banquo arcuriMARIO DI CALO |. Nella bella rassegna “Trend/Nuove Frontiere Della Scena Britannica”, arrivata alla dodicesima edizione, a cura di Rodolfo Di Gianmarco presso la storica sala romana Teatro Belli, sono stati portati in scena due ‘pezzi’ del professore, attore ed autore Tim Crouch: Banquo e Peaseblossom, tratti dal ciclo dei monologhi “I, Shakespeare”, tradotti per la scena da Pieraldo Girotto e con la appassionata ed intensa regia di Fabrizio Arcuri.
A sipario aperto con tre neon bianchi sospesi nell’aria, che poi saranno quasi esclusivamente la fonte di illuminazione della serata, su un fondale di stelle filanti argentate si rifrangono le luci mentre due banconi bianchi di diversa grandezza servono rispettivamente come banco regia e l’altro, di volta in volta, come letto, bara, trono, podio per il protagonista.

Mentre il pubblico ancora si accomoda in sala, entra Enrico Campanati/Banquo – di bianco vestito e con un bicchiere di whisky in mano – che con una specie di gramelot cerca le parole giuste per poter riferire la sua versione dei fatti, ma lui è morto e gli spettatori sono vivi, a lui è capitato di morire, non a loro, e infatti incita e invita il pubblico con un: “Prova ad immaginare…”. Prova a tirare tutti dentro la sua vicenda, ed ogni spettatore diventa, di volta in volta, il conte di Glamis, Duncan, Macduff, insomma tutti i personaggi, inclusi i servi, della straordinaria storia che racconta.
Fleance suo figlio è impersonato da Matteo Selis, che armato di chitarra elettrica, interferisce con appropriate incursioni musicali nel monologo paterno, ma è all’occorrenza anche datore luci e/o commentatore dell’azione.

La storia che racconta Banquo è quella di Macbeth, giustamente proposta da un osservatore che non è più osservatore poiché spettro. Comunque siano andate le cose può solo raccontarle: la storia non si modifica, la si racconta e basta, con quanta più obiettività è possibile, ed è quanto fa Tim Crouch.
L’immaginazione serve solo a far comprendere meglio i fatti ma non modifica la realtà.
Enrico Campanati, con toni quasi cabarettistici, narra con afflato e giusto risentimento quanto accaduto. Pur usando a profusione sangue coagulato che attinge da varie botole situate ad arte sulla scena non risulta mai tragico, al contrario, come se il suo stato di ombra/spettro gli permettesse il giusto distacco dalle cose.

Sullo stesso impianto di rilettura del classico del Bardo è anche Peaseblossom, commissionato a Tim Crouch nel 2004 per il festival di Brighton: racconta dei fatti accaduti durante una famosa notte di mezza estate in una Atene immaginifica ed immaginaria, riportati stavolta diligentemente dal candore di un folletto dal nome di Fiordipisello, interpretato qui dal comunicativo Matteo Angius.
Una proiezione sul fondo del palcoscenico nudo avverte, all’inizio, che si tratta un primo studio/lettura ma appare a tutti gli effetti – e lo è – uno spettacolo compiuto ed anche ben riuscito, suddiviso in sei sogni: Il calabrone, Nudo, La Recita, Il Fiore, Pruriginoso Pruriginoso e La Morte.

In un contesto da 
post-festino, un naturalissimo Matteo Angius, con leggerezza ed autenticità, inforcando occhiali e qualche volta con il copione in mano, coinvolge il pubblico nello stesso gioco dell’altro spettacolo.
Lo spettatore, con l’uso di una maschera sopra-titolata, diventa ogni volta un personaggio diverso della storia, che il buon Fiordipisello con dovizia di particolari fa rivivere durante tutto lo spazio della notte, prima che sopraggiunga l’alba e non possa più sognare.
Con lui in scena stavolta c’è il regista Fabrizio Arcuri, che al banco di regia, accarezza con il suo sguardo sornione il suo attore, approntando spesso la scena con trovate illuminanti, come il carillon con i personaggi sospesi ad una cordicella, che diventano la commedia che inscenano gli artigiani ateniesi o quando, durante il matrimonio dei giovani sposi, accompagnati dalla celeberrima musica di Felix Mendelssohn, lancia riso a profusione.

Fabrizio Arcuri ‘scrive’ la sua regia in perfetto accordo con l’autore e racconta dei fatti accaduti assecondando e imprimendo leggerezza alle due famose storie Shakespeariane: scrive come se si trattasse di vere e proprie pagine, e se si tratta di Banquo del Macbeth utilizza il bianco dove il rosso sangue degli eccidi meglio risalti e meglio possa essere un monito per le generazioni future a non ripetere gli stessi errori; se invece si tratta di Fiordipisello del Sogno di una notte di mezza estate, aiuta e sostiene lo svolgersi della vicenda con proiezioni che conducono per mano durante tutta la durata della notte.
Sembra vivere uno stato di grazia nella duplice semplicità e freschezza di queste due nitide serate di apprezzabile teatro.

Qui un video di Maria Elena Buslacchi con un’intervista ad Arcuri. Provate a immaginare…
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=THE0nNebAho]

Le fumatrici di pecore, l'agnus dei e la pecora nera

le-fumatrici-di-pecore-foto-santa-castignaniRENZO FRANCABANDERA | Le fumatrici di pecore della compagnia Abbondanza/Bertoni aveva debuttato a Castiglioncello l’estate passata, quale esito di un percorso di crescita e confronto fra Antonella Bertoni e Patrizia Birolo.

Riproposto per alcuni giorni al PIMOff di Milano, ha fatto registrare sempre il tutto esaurito, quasi a dimostrare come esista un passaparola sotterraneo ma incessante su ciò che è di qualità, o con cui comunque vale la pena le intelligenze sensibili si confrontino. Effettivamente l’estate scorsa era stata grande la commozione degli spettatori che avevano assistito al debutto.

Scenicamente, a parte un tavolino di legno sgangherato e senza tutte le gambe ben messe, situato alla destra del palco, due candelabri e qualche pecorella di plastica di quelle della collana deluxe della Schleich (che fa pagare un po’ più cari ma rifiniti a mano i capi di bestiame) non c’è altro se non le due interpreti, vestite di una tunica corta di cotone scuro. Scalze.

La personalità complessa e non canonica di Patrizia Birolo, il suo immaginabile vissuto deprivante, il suo corpo rotondo, poco istituzionale eppure così interessante, intriso di vita e segnato, per un verso. La nota e indescrivibile, longilinea eleganza di Antonella Bertoni dall’altro.

L’intelligenza delle due donne inizia un gioco fin dall’inizio, un gioco la cui trama risiede in una sorta di percorso iniziatico all’arte coreutica che la seconda vorrebbe rendere alla prima. Ovviamente, come in tutte le storie di confronto con il disagio, si capisce come poi, nell’evolvere dell’allestimento e verosimilmente anche di quella che fu la fase di preparazione allo stesso, le parti spesso di invertono, i ruoli si capovolgono, come avviene proprio dal punto di vista fisico anche nel duetto.

Lo spettacolo ha una sorta di unconventional ouverture, con le due che per riscaldarsi e quasi preavvisare il pubblico, entrano in scena in modo familiare per un riscaldamento di voce e corpo. In realtà questo presunto riscaldamento dura poi tutto lo spettacolo perché, al di là delle luci che si abbassano, lo spettacolo vero e proprio è un sequel organico del riscaldamento, con movimenti, imitazioni, tentativi, voli goffi e voli leggeri, ironia sull’arte scenica, attraverso lo sguardo forse non del tutto consapevole di Patrizia ma che, proprio in quanto tale, incorpora la crudeltà del fanciullo che grida “Il re è nudo”.

Nella performer che trascina inginocchiata un asse di legno per il palcoscenico nel senso della longitudinalità si coglie quasi il portato, il riferimento diretto ad una via crucis, ad una salita al Golgota.
E sulle note della Petit Messe Solennelle di Rossini e del bellissimo Kyrie con quel dialogo magico e così raro fra pianoforte e armonium, la simbologia dell’innocenza, dello sguardo diverso ma forse più acuto, prosegue e si sviluppa a questo punto per una più chiara volontà registica, allorquando viene introdotto, nella seconda mezz’ora di spettacolo, un riferimento al simbolo protocristiano dell’agnello salvifico e al contempo sacrificale.

Il tavolino si muta in altare, e in un paio di dissolvenze luminose e sovrapposizioni iconografiche, la ragazza diventa per analogia “la pecora nera” chiamata dalla società ad una faticosa e impossibile scalata verso un orizzonte cui evidentemente non arriverà mai. E così la sagomina della pecora nera rimane a mezz’aria, poggiata sull’asse che dovrebbe portarla in cima al tavolino, dove la aspetta tutto il gregge “bianco”, proprio come il personaggio protagonista di Novecento di Baricco, che resta a metà nel tentativo di scendere dalla nave che lo ha ospitato per tutta la vita.
Qui la simbologia è un po’ rovesciata ma il senso d’irrimediabile sospensione, incomunicabilità e impossibilità di condividere con il resto del consesso umano è lo stesso.

Il dialogo fra le due donne, i due esseri umani, le rispettive fragilità che la trama spettacolare è capace di mettere in giusta luce, sono la parte sicuramente più interessante dell’allestimento, che di ciò si nutre e in ciò trova alimento.
La simbologia su cui la regia ragiona, appare, a lungo andare, inutilmente insistita, in alcuni accostamenti perfino didascalica, e toglie poesia proprio perché accosta in sillogismo diretto e prova a dire in forma esplicita, come se il regista reclamasse per il suo occhio una presenza che nel duetto e nel dialogo fra le due donne in fondo non c’è e di cui fondamentalmente, per certi versi, per questi versi, non si sente necessità.

Insomma, in nessuna altra arte come nella danza l’esigenza di aggiungere segni e simboli ai corpi diventa ancillare. Proprio per la particolarissima presenza scenica di Patrizia, la pecora nera, ad esempio, diventa accostamento superfluo (e quindi in quanto tale facilmente eliminabile), introducendo una lettura che non dialoga alla stessa limpida altezza con quanto si scambiano le due protagoniste e con ciò che, per parte loro, sono in grado di costruire. Oltre le parole, oltre i segni, oltre le sovrastrutture del gregge di pecore bianche di cui facciamo parte.

Foto dell’articolo Santa Castignani
Qui un video dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=E_E_wv2vP4g]

Tricher 3: lo sferzante smascheramento dell'ipocrisia di Mo.Lem

tricher3VINCENZO SARDELLI | Che differenza c’è tra non dichiarare la verità e mentire? Tra l’accontentarsi di pubbliche verità e l’adagiarsi su private menzogne? È questo l’input da cui parte “Tricher 3_Non dire falsa testimonianza”, spettacolo selezionato per il Napoli Fringe Festival 2013, che i torinesi di Mo.Lem (Movimento Libere Espressioni Metropolitane) hanno portato in scena a Zona K a Milano.
“Tricher” è un work in progress sulla testimonianza, sulla ricerca dell’obiettività, sulla coerenza e sulla libertà espressiva.
“Tricher” è un verbo francese che significa “barare, imbrogliare, truffare”. Percepiamo subito l’inganno e la menzogna evocati dal titolo, ancor prima di entrare. Le quattro attrici sono erinni che selezionano in un surreale ceck in gli spettatori: li schedano, prima di introdurli in sala secondo un ordine arbitrario, preludio a un qualche timido coinvolgimento nella pièce.
La scenografia è assente: la costruiranno gli attori con la loro performance fisica, con una mimica icastica e variopinti oggetti che porteranno con sé. Anche le luci colorate, con il loro sottofondo ombroso, creano la scena.
Sipario: le erinni si sono trasformate in sexy-bambine. Chiara Cardea, Roberta Maraini, Silvia Mercuriati, Elena Pisu occupano lo spazio recitativo volteggiando chiassosamente con un quinto attore, Salvo Montalto, che sciorina un aeroplano giocattolo. È un continuo rimpiattino tra fiaba e cinismo, suggestioni oniriche e cruda menzogna. Gli attori sono palloncini sospesi debolmente oscillanti, ballerine-carillon, personaggi di fiabe, bimbi sognatori.
Anche la favola cela la menzogna, Cappuccetto Rosso rivela retroscena macabramente osé; Babbo Natale è una trovata per narcotizzare il cervello. La violenza però, anche nel Cappuccetto noir-erotico, non è mai esibita: è sempre simbolica. Si esprime attraverso un cartone infilzato con punteruoli. Del resto una bugia vale l’altra, e le invenzioni ingenue che seducono i bambini sono meno dannose delle menzogne degli adulti. Come certi genitori, che hanno sempre un motivo per inibire l’infantile naturale impulso a esplorare, esplorarsi, crescere.
La fiaba si tinge di giallo. Le luci eclissano. Rintocchi pesanti evocano il panico. L’uomo nero bussa alla nostra ipocrisia: è il nostro ventaglio di fobie, l’extracomunitario, l’ossessione di perdere le nostre certezze, il terrore che Equitalia ci lasci in mutande.
La paura costruisce muri. Come quello che continua a crescere in Palestina, e segrega un popolo e una nazione. La realtà irrompe come uno squarcio nello spettacolo: normalmente è un collegamento Skype da Nablus, stavolta è un’intervista proiettata sullo schermo. Ma a essere esibita è la nostra cattiva coscienza, che assume il colore rosso-sangue di una delle guerre sporche a cavallo tra due millenni.
Poi c’è l’ipocrisia della burocrazia asfissiante, delle truffe bancarie, dei piedistalli di funzionari pignoli che offendono la nostra dignità persino quando restituiamo un libro preso in prestito in biblioteca.
La nostra felicità si basa sulle sofferenze altrui. Ogni oggetto in scena è ambivalente: i libri danno la conoscenza che crea potere che degenera nell’arroganza; una bandiera può creare identità ma anche divisione; un aereo può diventare un cacciabombardiere; un cilindro può diventare un candelotto; un gessetto crea giochi o confini.
Il magico mondo infantile si frantuma: le bambole deflagrano in automi, fino alla dissoluzione. Non resta che distruggere la scena. L’epilogo è un’apotropaica litania: “prometto di dimenticare quello che ho visto e di ricominciare da qui”. Ammonisce a non confondere realtà e rappresentazione della realtà, a costruire un nuovo inizio.
Cala il sipario sulle note di “Non insegnate ai bambini” di Giorgio Gaber.
Nell’esibita disarmonica giustapposizione delle scene (il coordinamento registico è di Marco Ivaldi, Marco Monfredini e Francesca Tortora) lo spettacolo segue un filo logico di domande, forse con un tantino di luoghi comuni nelle risposte e qualche ovvietà nell’accostarsi a temi come l’omosessualità e il perbenismo bempensante e credulone che, immancabilmente, viene fatto coincidere anche con la religione.
Troppa carne al fuoco? Forse. È questo l’appunto più serio che si può muovere a una regia fantasiosa, capace di valorizzare le abilità recitative e coreografiche degli attori, ma che deve proteggersi con accortezza dagli eccessi-zibaldone per concentrarsi su uno stile comunicativo più solido ed essenziale. Così che anche il pubblico, che pure non è avaro di applausi a fine spettacolo, capisca con più chiarezza se, quando e come debba lasciarsi coinvolgere nella performance le varie volte che viene chiamato in causa.

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Mondocane#3 – Il rovescio di Agassi

fotoMARAT | A un certo punto Andre Agassi non vince più. Ha perso entusiasmo lo scugnizzo di Las Vegas. La risposta supera l’incrocio delle linee, il rovescio a due mani finisce in rete. Questione di vizi, donne sbagliate, manager che han rotto le balle e quel concetto che racchiude un mondo: nessuna gioia per una vittoria è pari al dolore per una sconfitta. Insomma, il guappo col parrucchino ha un che di esistenzialista. Così molla tutto e ricomincia dai tornei universitari. E risorge. Comunque Agassi mi è venuto in mente pensando alle recenti chiacchierate sullo stato dell’arte. Dove a raccontare del mondo del teatro c’erano i soliti amici: vecchi assessori, nuovi assessori, vecchi direttori di stabili (di quelli non ce ne sono di nuovi), vecchi professori universitari (idem), rivoluzionari istituzionalizzati. Radical-chic inchiodati alle poltrone, nel curioso ruolo di dar voce a problematiche popolari. Già. Oppure grillini teatrali de noantri, che ancora non si capisce bene come possano unire le istanze dei Lavoratori dell’Arte con la gestione da ragazzini di un qualsiasi centro sociale. Retoriche varie, slogan di più di mezzo secolo fa, velleità post-sessantottine. E io che pensavo ad Andre Agassi. Non so perché, come diceva Raz Degan. Forse sono fatti miei… O forse perché mi saliva quel bisogno di un passetto indietro, di respirare con più agio. Di sentirsi assumere parte della responsabilità delle cose, che non è che cada tutto maledettamente dall’alto. Un passetto indietro magari a fianco di impiegati e tecnici, quelli che non parlano mai. Oppure a fianco di chi fa i salti mortali per pagare tasse e contributi, mettere lo spazio a norma, trovare finanziamenti senza taroccar le carte. Un passetto indietro per fermarsi e ricominciare. Invece no, la solita logorrea di giacobini in camicia botton down. Anche se bisogna ammettere che si vestono meglio. Perché diciamolo una volta per tutte: i pantaloni nepalesi non faranno mai bene a nessun tipo di causa. Manco a quella dei nepalesi.

Che ridere, morire!

Oibò foto M_AchilliELENA SCOLARI |  Oibò sono morto è il bel titolo dello spettacolo prodotto dalla Compagnia Donati/Olesen per I Teatri del Sacro di cinque anni fa, con Jacob Olesen e Giovanna Mori, autori e registi del lavoro. Ci troviamo per vederlo al PalaBachelet di Oggiono – Lecco, uno degli spazi utilizzati per la rassegna provinciale Circuiti Teatrali. Citiamo il luogo di rappresentazione perché tutti gli spettatori presenti lo ricorderanno come un luogo “allarmante”…: lo svolgimento è infatti stato bruscamente interrotto dall’antifurto, partito a sorpresa e rimasto ostinatamente inarrestabile per alcuni minuti, vogliamo per questo attribuire una lode particolare ai due interpreti che, lontanissimi da alcune bizzose star del mondo teatrale, hanno professionalmente sospeso e poi ripreso lo spettacolo per portarlo a termine, offrendo un importante esempio di serietà e rispetto per il pubblico.

Lo spettacolo è esilarante. Ispirato agli scritti di due autori scandinavi, Arto Paasilinna e Jan Fridegard, racconta con tenera leggerezza che cosa ci potrebbe succedere dopo morti. Uno sciocco incidente stradale pone fine alla vita del protagonista che… si era voltato distrattamente per guardare il bel sedere di una donna, un atto vitale e godereccio provoca la dipartita. Da questo momento il personaggio vede il suo mondo senza essere visto e scopre una quantità di cose inaspettate: l’annosa intesa della moglie con il suo migliore amico, un funerale con pochi presenti che si rivela essere proprio il suo e altre buffe situazioni descritte con grande ironia. Irresistibile la stesura del necrologio da parte della vedova.

Chiediamo a Jacob Olesen, artista da sempre concentrato a farci ridere, il motivo della scelta di un tema “antipatico” come la morte per il suo spettacolo:

“Ho voluto affrontare un argomento difficile attraverso lo strumento che più mi è congeniale: l’ironia. Mi è piaciuto l’atteggiamento leggero ma profondo che i due scrittori nordici hanno ispirato a me e Giovanna Mori per parlare della morte. Trovo che  si possa riflettere molto sul senso della vita rendendo sereno il pensiero della fine”.

PAC : “Possiamo dire che Oibò son morto è in realtà un inno alla vita”?

Olesen: “Sì, certo! La causa della morte del protagonista è già una dichiarazione in questo senso: si può morire per una sciocchezza, per un gesto divertito e superficiale, in un certo senso però la vita continua, le emozioni del personaggio non si interrompono e anzi lo spingono ancora verso il sentimento. Nelle sue incursioni nel mondo dei vivi si innamora di una donna e aspetta che muoia per conoscerla nello spazio dell’aldilà che ora abita”.

PAC: “Questa donna è interpretata da Giovanna Mori, che ha un modo di stare in scena molto diverso dal suo: in lei c’è tutto il sapere clownesco, il movimento della scuola europea di Lecoq, c’è una scelta precisa dietro questi due caratteri”?

Olesen: “Sì, io recito con tutto il corpo, mi agito anche più del dovuto, proprio per accentuare le nostre opposte caratteristiche: Giovanna si muove pochissimo,  usa quasi solo le mani, in maniera impercettibile e concentra l’essenza dei personaggi nella particolarità del suo recitare misuratissimo e carico di arguzia”.

PAC: “La coppia scenica infatti funziona bene grazie a questo evidente contrasto. C’è molta sorpresa, presso il pubblico, davanti ad una recitazione così originale, si ha l’impressione che le parole nascano naturalmente mentre Mori le recita”.

Olesen: “Abbiamo scritto insieme il testo dello spettacolo e questo ha permesso a entrambi di cucire le parole addosso ai personaggi ma anche addosso al nostro modo di stare sul palco”.

PAC: “L’allegra coppia di defunti, una volta ambientata in questo nuovo spazio trasparente, si prende a cuore un’altra coppia, aiuta un uomo e una donna anziani ad avvicinarsi. A questo punto indossate delle maschere: è solo per distinguere i caratteri”?

Olesen: “Senza addentrarmi in letture psicanalitiche posso dire che le maschere aiutano anche a rendere più universali i due personaggi, le due anime sono tutti noi, e ogni spettatore ci si può ritrovare. Il nostro intento è raccontare con umorismo una situazione drammatica che assume toni di grande divertimento grazie ad una tenerezza leggera. I due vecchietti con le maschere fanno un balletto sulla musica degli Abba, c’è un effetto di buffo straniamento fino alla fine”.

Il divertimento sincero del pubblico conferma la riuscita dello spettacolo, poetico e molto molto divertente. Due ottimi interpreti per un soggetto che sa parlare della morte attraverso la risata, la manifestazione più umana della vita.

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Una prima per Emanuel Gat al Théâtre de la Ville

GAT - peiteANTONELLA POLI | Si tratta di una prima per Emanuel Gat al Théâtre de la Ville, un appuntamento importante di fronte al pubblico esigente del teatro parigino, tempio della danza contemporanea.
In programma Brilliant Corners, balletto creato nel 2011 per il Festival di Montpellier.
Quest’opera esplora le possibilità di comunicazione fra gli individui, il desiderio allo stesso tempo di unirsi e di separarsi per riconquistare la propria libertà: i danzatori dall’inizio alla fine si scambiano sguardi ammiccanti, si avvicinano e si allontanano senza fratture e ciascuno con la propria gestualità. Anche i duo, ove il sentimento d’unione si manifesta in tutta la sua forza, diventano occasione di separazione dopo alcune sequenze eseguite all’unisono dai protagonisti.
Il linguaggio coreografico é molto ricco, lo stile fluido. Vanno apprezzati per la ricchezza di tutti i dettagli lessicali impiegati.
Il coreografo inventa per i nove danzatori in scena movimenti singolari, ciascuno danza la propria coreografia e questa ricchezza fa comprendere tutta la profondità del lavoro coreografico valorizzata dalla fluidità dei gesti che permette di creare quadri successivi omogenei.
Come lo stesso Emanuel Gat afferma, l’attitudine che bisogna avere di fronte a Brilliant Corner per cercare di comprenderla si sintetizza nell’interrogativo «why does it look the way it does?» piuttosto che in « what will it look like » o «how do I want it to look?».
La differenza di livello evidenziata tra questi due differenti approcci ci mette di fronte a tutta la complessità di questo balletto che ci emoziona anche per la sua semplicità.
L’accompagnamento musicale é firmato dallo stesso coreografo, una composizione astratta di suoni che guida i danzatori senza divenire l’elemento ritmico predominante. Tralaltro ricordiamo che Brilliant Corners é il titolo di una composizione di Thelonius Monk del 1957, anche se le due opere musicali non hanno alcun punto in comune salvo la metodologia adottata dai due artisti nel processo di creazione : il musicista s’interroga sull’effetto del mélange dei suoni e il coreografo sull’amalgama dei movimenti necessaria a creare una composizione omogenea ed equilibrata.
Questa prima parigina é stata senz’altra un successo per Emanuel Gat ma un dubbio sussiste : il tono di quest’opera rimane lo stesso per tutta la sua durata come anche il suo significato, non ci sono evoluzioni. Quindi non potrebbe tutto ció annoiare il pubblico ? Il dibattito resta aperto anche se inevitabilmente va riconosciuto il buon livello di ricerca coreografica.

Ecco un video per i lettori di PAC
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