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sabato, Luglio 27, 2024
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Il vero teatro necessario di Belarus free Theatre

BRUNA MONACO | È con “Generation jeans” che si è aperta la micro rassegna che il Teatro India di Roma ha dedicato alla compagnia bielorussa di Minsk nata nel 2005, il Belarus free Theatre: fuorilegge nel proprio paese, ha partecipato a numerosi festival internazionali con spettacoli di denuncia. Un teatro-documentario, quello del Belarus, che urla contro la situazione politica della Bielorussa, democrazia solo nominale, di fatto una dittatura di Aleksander Lukashenko. Un teatro che urla e sa farsi ascoltare, tanto da convogliare al teatro India un pubblico numerosissimo e caloroso.
“Generation jeans” è un monologo, un one man show o uno spettacolo di narrazione che dir si voglia. In scena c’è solo Nikolai Khalezin, fondatore (insieme alla compagna Natalia Kolyad) del Belarus free Theatre, che ha scritto diretto e interpretato lo spettacolo. Lo accompagna il DJ Laurel (Laur Biarzhanin) che sul fondo, dietro i sintetizzatori, dà musica alla performance.
Nikolai Khalezin ha un borsone da tennis, dentro ci sono gli oggetti di scena, quelli della sua vita: una busta di plastica firmata, come quelle che da adolescente acquistava per tre rubli e rivendeva a cinque, uno status symbol nella Bielorussa anticapitalista degli anni ’90. Dischi di vinile, musica vietata dal regime: rock americano e inglese, musica progressive. Qualche paia di jeans, quelli che rubava negli alberghi ai turisti stranieri, quelli che lo facevano sentire come gli altri, come gli altri fuori dalla Bielorussia, nel resto del mondo capitalista, il mondo che, a chi vive in dittatura, pare il mondo libero. E allora “jeans” diventa sinonimo di libertà. E i “tipi jeans” sono gli spiriti liberi.
Nonostante sia in lingua russa e i sopratitoli scorrano veloci a seguire le parole di Nikolai Khalezin, l’ironia del testo non si perde. Come non se ne perde la drammaticità laddove il racconto si fa duro. Quando, insieme al protagonista, entriamo in una cella punitiva di un metro per un metro, per aver srotolato in piazza cartelloni inneggianti alla libertà.
“Generation jeans” non è uno spettacolo esteticamente perfetto e Nikolai Khalezin che nasce giornalista e si fa drammaturgo, non ha una formazione d’attore, forse nemmeno una vocazione. Si potrebbe dire che è attore per caso, o forse, meglio, per necessità. Necessità vera, prima politica poi personale. Guardando il lavoro del Belarus ci si ricorda che il teatro non è solo un fine, ma anche un mezzo. Un mezzo di comunicazione.

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Angelica

angelica-CosentinoRENZO FRANCABANDERA | E comunque. La settimana scorsa a Milano potevo andare a vedere uno spettacolo di Steven Berkoff, grande autore del teatro contemporaneo anglosassone, rivisitatore dei miti del classico, interpretato da lui in persona. E invece sono andato a vedere al Teatro Litta, Angelica, di Andrea Cosentino, uno dei suoi primi spettacoli, scritto nel 2005, interpretato sempre da lui medesimo in persona.

Alla fine non ho maturato una sensazione di pentimento per la mia scelta, innanzitutto perché Angelica incorpora una serie di riflessioni tutt’altro che banali sulla semantica del medium scenico, e su come questo si vada sempre più modificando grazie a tempi e modi di cinema e televisione. In secondo luogo perché è un monologo divertente, fresco, dove universo intellettualistico e piacere del racconto sono calibrati in modo giusto.
Il pre-testo è una riflessione di Pasolini circa la differenza fra piano sequenza e montaggio nel cinema. Mentre il piano sequenza è descrizione, presa diretta del vissuto senza cesure, analisi finanche prolissa ma pur sempre analisi, il montaggio è operazione di riduzione all’essenziale. Lo scarto geniale nel pensiero pasoliniano è in una breve ma densissima similitudine a margine del pamphlet, in cui paragona il piano sequenza alla vita, e il montaggio alla morte che seleziona, riduce l’esperienza del vissuto a poche, salienti immagini, prima di consegnarle alla Storia, procedendo ad una sorta di imbalsamazione dell’emotività, che ovviamente in questo “trapasso” si perde.
Lo spettatore ovviamente non assiste a nessuna tirata epistemologica nel corso dello spettacolo, perché tutto il postulato viene dimostrato raccontando due storie, una attraverso il mezzo teatro, con un dettaglio da piano sequenza, e una attraverso il mezzo televisivo.
Si tratta di alcune scene di uno sceneggiato di basso cabotaggio, girato in un interno romano. Nel mondo teatro assistiamo a tutto quello che a queste riprese fa da contorno, con tutte le figure che popolano l’universo delle riprese, gli attori, le loro emozioni laterali, i mille ciak per ottenere quei pochi minuti di riprese tv, che ovviamente fanno perdere molta, quasi tutta l’umanità del girato. Questo spiega parecchio della tecnica cinematografica di Pasolini, fatta di lunghe panoramiche ambientali, piani sequenza, e dettagli di un vissuto, di sguardi di dentro ma anche di/da fuori. Ma anche molto del lavoro di Cosentino che, pur essendo fatto, a suo modo (e questa è la grande ma d’altronde inevitabile aporia del linguaggio inteso come scelta, in senso assoluto) di scene e sequenze narrative montate in sequenza fra loro, cerca di restituire quella pluralità di sguardi interni, esterni, voci a margine, che ricordano nella loro struttura, quella tecnica cinematografica, contrapposta a quella più sterile e banale del medium televisivo.
Nostalgicamente potremmo riflettere su quanto perdiamo passando dall’analisi alla sintesi, dalla vita alla morte, è però altrettanto certo che nessun elemento esiste di per sé senza il postulato della sua negazione. Tutti i linguaggi, dai primordi della scienza a quelli della filosofia, ci ricordano che l’Essere è, il non Essere non è, che un punto, una retta e un piano sono.
Come tutto questo possa passare attraverso una passeggiata per Roma in un anno santo, con tanto di vista sulla papa mobile di Woityla con lui medesimo in persona che ci benedice apparendo di colpo in scena, uno spettacolo da realizzare in una cantina, due vecchie parrucche, due barbie, due miniature di plastica, un vestito da sposa e una carrozzina, è quanto spiegherà Cosentino.
E comunque. Angelica, forse perché all’epoca Cosentino era non meno ardito di quanto sia ora, ma forse in scena osava riflessioni meno strutturalmente complesse sulla decostruzione del linguaggio scenico, è uno spettacolo godibilissimo, appuntito nel suo portarci verso una comprensione alta ma al contempo semplice del postulato semantico in discussione. Di Angelica lo spettatore tiene a mente molte cose, anche a diversi giorni di distanza. E’ uno spettacolo che, dunque, a suo modo, favorisce la ritenzione. Si lascia ricordare. E questo è un motivo non banale per andarlo a vedere, con un Cosentino che con la maturità interpretativa di ora, torna su quello che era allora, si confronta con tutto quello che è stato finora (fino alla recente rilettura assai decostruita e forse intimamente meno lineare di Fedra, che è stata ospitata sempre al Litta) e da dentro una scatola televisiva, quasi come un gestaccio, ci benedice.

Ecco un video dello spettacolo
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Incendi, una storia di guerra

BRUNA MONACO | Wajdi Mouawad è ormai da diversi anni una vera e propria star in Francia, Canada e paesi francofoni. Nel resto del mondo si sta facendo notare da quando Denis Villeneuve ha trasformato “Incendi” nel film “La donna che canta”, che ha ricevuto i plausi di pubblico e critica, e quattro nomination come miglior film straniero nei più importanti festival del cinema internazionali.
Seconda tappa di una tetralogia della memoria, “Incendi” è un testo ricchissimo in cui le storie si intrecciano, i piani temporali si alternano, le teorie matematiche tentano di spiegare dinamiche familiari calate un contesto storico-politico aberrante.
Questo groviglio di fili è dipanato da una macchina drammaturgica che avanza come un caterpillar senza incontrare ostacoli, mai. È ai figli gemelli di Nawal Marwan, indiscussa protagonista, che è affidato il compito di svelare la trama di questo dramma. Sta cioè a loro indagare sulle proprie origini, scoprire l’impronunciabile verità e svelarla a un padre e a un fratello (o meglio, un padre-fratello) di cui, fino a quel momento, avevano ignorato l’esistenza. Una verità impronunciabile al punto che Nawal stessa smise di parlare appena appresa: suo figlio e il padre dei suoi figli sono la stessa persona. Una drammaturgia potente, che però ha appunto il difetto di una macchina narrativa schiacciasassi: la complessità della vita che Mouawad vuole raccontare è sbeffeggiata dalla facilità con cui, invece, tutti i nodi vengono al pettine.
La regia di Renzo Martinelli sottolinea questo difetto drammaturgico, punta tutto sul lato investigativo tranciando i monologhi, le scene e i personaggi più ricchi di pathos. La scenografia e i costumi sono accattivanti e servono con efficacia gli scivolamenti da un piano temporale all’altro, il passaggio dal Canada dei nostri giorni (il presente dell’azione scenica) al Libano della guerra civile (dove i figli di Nawal vanno a cercare le proprie origini, la verità). Dei microfoni pendono dal soffitto, diffondono, amplificano e a volte deformano le voci e i rumori sulla scena facendo da fastidioso contrappasso al silenzio di Nawal.
Qualcuno ha definito “Incendi” un Edipo al femminile, ma l’accostamento appare forzato. Si tratterebbe, al più, di una riproposizione del mito sofocleo visto con gli occhi sbarrati di Giocasta. Solo che Nawal di fronte alla verità non si ammazza, tace, fino alla morte. E poi non è amante, né regina, e l’incesto di cui è vittima (non complice) non provoca pesti, non è causa scatenante di nulla, ma conseguenza di quel flagello tanto simile alla peste che è la guerra. La storia di Nawal manca di universalità, è segnata e schiacciata dalla contingenza e dal caso: in un tremendo contesto di guerra e violenza, una donna viene violentata da un figlio che fu costretta ad abbandonare appena nato e di cui non può riconoscere il volto. Per caso, non per fato. Sempre casualmente anni dopo lo ritrova dall’altra parte del mondo, in tribunale, e da un dettaglio, questa volta, lo riconosce. Edipo, invece, è destinato ad amare sua madre (e certo non a violentarla), a uccidere suo padre. È il destino di ogni uomo, dice Sofocle, desiderio di ogni uomo, traduce in termini psicanalitici Freud. E qui il parallelo col mito sofocleo si sfalda: dire che la guerra produce orrori, come fa Mouawad è cosa ben diversa dal dire che la vita è una condanna. Nell’Edipo sofocleo la verità andava svelata proprio perché si giungesse a questa consapevolezza, e perché la verità si rivelasse per quel che è: insopportabile. In “Incendi”, invece, sembra dominare un sentimento voyeuristico che, abbinato al meccanismo investigativo, fa pensare alla televisione, anche se a quella rara, di buona fattura. O a un teatro di intrattenimento dai temi forti, poco diffuso in Italia ma di cui la scena francese, per esempio, è ricca.

L’istruttoria

istruttoria-teatrodueRENZO FRANCABANDERA | E’, a dire il vero, inspiegabile come questo spettacolo, che da quasi trent’anni gira l’Italia, per una delle produzioni storiche del nostro teatro, quella di Teatro Due di Parma del classico di Peter Weiss diretto da Gigi Dall’Aglio, non abbia mai avuto alcun riconoscimento, che ora sarebbe magari “alla carriera”, ad honorem; nessuno, se non quello del pubblico che da decenni continua ad uscire dalla sala sgomento e affascinato.
Il motivo dello sgomento è facile da intuire, trattandosi di una messa in scena di un testo ispirato, nei suoi 11 quadri, alla tragedia dell’Olocausto, al resoconto crudo e terribile delle torture dei campi di sterminio nazisti. Eppure non sono pochi gli spettacoli sul tema che restano superficiali. Se questo allestimento continua a girare, sempre diverso e sempre uguale, e a rimanere scolpito negli occhi di chi lo guarda, un motivo ci dev’essere.
Lo spettatore viene portato fin dall’inizio in una dimensione voluta di falsità teatrale, accedendo a teatro dal retro del palcoscenico, dove assiste al trucco degli attori entrando nei loro camerini a vista, mentre scorrono parole di Pasolini e l’atmosfera è di irreale attesa.
Ci guardano attraverso gli specchi gli storici interpreti Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Pino L’Abbadessa, Milena Metitieri, Tania Rocchetta (sostituita nella replica cui abbiamo assistito da Bruna Rossi) prima di apririci una porticina attraverso la quale entriamo in palcoscenico. Siamo costretti in piedi, in un recinto di corde sul palco, mentre alcuni attori in controluce in platea, con i fari che puntano giù, su di noi, iniziano a raccontare i momenti della deportazione. E dopo poco capiamo, iniziamo a sentire la sensazione di essere ammassati, uno sull’altro, costretti, impossibilitati a vedere tutto. Sentiamo ma non vediamo, qualcuno cerca di vedere ma è come trovarsi in un caro bestiame, dove la coscienza di sè piano piano cede il posto ad un’inspiegabile sentimento di paura e disagio.
Questa capacità di regalare allo spettatore la tragica ma compiuta e tangibile sensazione di essere in quello che assiste, di come il passo fra la realtà e la finzione sia una porticina, continua in questo lavoro per tutto il tempo, fino alla fine, fino a quando la luce blu gelida del freddo siderale degli inverni nei campi di concentramento e il gas avvolgono lo sguardo, sulle note delle musiche di Alessandro Nidi affidate all’esecuzione dal vivo di Davide Carmarino.
Tanto è stato scritto di questo spettacolo (ovviamente chiamarlo spettacolo porta in sé una giusta dose di cinica considerazione ma anche un’altissima e tragica significazione di quello che il teatro è, nella sua doppia faccia di finzione e mimesi del vero), quello che sento personalmente di aggiungere è che il lavoro di questo storico gruppo è proprio la testimonianza “altra” di come il nostro tempo abbia bisogno di un nuovo ricordare, di un ricordare con precisione. Che è diverso dal ricordare in modo didascalico e meccanico.
Perché il copia e incolla del tempo digitale mangia tutto e oblia in un istante, mentre L’Istruttoria di Teatro Due è analogica incarnazione, militanza dell’essere, partigiana resistenza che in quanto tale non abbisogna e non richiede applausi, ma mira a risvegliare, a dare un pugno all’in-cosciente dormiveglia nel quale siamo piombati. Mai abbastanza spettatori avrà questo lavoro, per arrivare dove dovrebbe. Ma guai a coloro che rinunciano a testimoniare, a far memoria.

L’istruttoria di Teatro Due è un segno di civiltà, esattamente come il mandare un libro a mente in Fahrenheit, come qualsiasi cosa che sfida l’ottundimento non per farsi compiacimento di sé, ma per il ricordare. Agli altri e a sé. Che compito stancante e disperante è a volte testimoniare la memoria, la cognizione del dolore. Usciamo.

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Le scuole a teatro

ELENA SCOLARI | Le rassegne scolastiche offrono classici eccentrici e riflessioni sull’attualità: una carrellata su quattro spettacoli visti al Teatro Verdi di Milano e alla Sala don Ticozzi di Lecco.

La primavera è arrivata prepotente in queste ultime settimane, di solito segna il ramo declinante della stagione teatrale, ma prima che il clima morbido induca a godere del tepore serale all’aperto ci siamo dedicati ad un’incursione nei cartelloni di alcune rassegne scolastiche per gli istituti superiori, che spesso comprendono spettacoli adatti anche ad un pubblico adulto, che li può incontrare in tradizionali stagioni di prosa.

E’ questo il caso di Clitemnestra – l’altra donna, ultima produzione del Teatro del Buratto, per la regia di Renata Coluccini e Marco Di Stefano. Il lavoro è presentato sia in matinée sia in serale e sarà al Teatro Verdi di Milano fino al 5 aprile.

Tre attrici di bianco vestite ad interpretare tre personaggi archetipo della letteratura classica greca: Coluccini è Clitemnestra, Benedetta Brambilla Cassandra e Ylenia Santo Elettra. Gli uomini sono assenti e le parole su di loro sono tutt’altro che lusinghiere. L’idea portante è la rappresentazione femminile, intima e familiare di fatti mitologici e grandiosi. Un’Elettra adolescente e bulimica attende nervosamente il ritorno del padre dalla guerra di Troia, nel frattempo è lei che fa la guerra alla madre Clitemnestra, la quale smitizza il concetto eroico di Agamennone raccontando gli orrori e le viltà della battaglia, soprattutto rivelando le violenze contro le donne per quello che sono: una barbarie. Anche se a compierla sono i vincitori.

Al rientro dei soldati sarà l’indovina Cassandra, condannata a non essere mai creduta e fatta amante/schiava da Agamennone stesso, a testimoniare del crudele comportamento dei greci. Solo Clitemnestra le crede, e attuerà la sua tragica vendetta: assassinerà Agamennone per fare “giustizia” e obbedirà alla preghiera di Cassandra che vuole morire per poter dimenticare.

Tutto si svolge a casa della protagonista e tutto è visto con occhi di donne, agito con gesti di donne. E’ interessante un punto di vista completamente sbilanciato sul femmminile, che analizza il mondo attraverso le loro relazioni: rivalità, complicità, antagonismo, comprensione.

Le scenografie richiamano il teatro classico con due gradinate bianche dove le attrici parlano, dormono, mangiano, si scoprono. Al centro un frigorifero, elettrodomestico che costituisce il focolare ma che anche simboleggia Agamennone, col quale tutte e tre i personaggi hanno, diversamente, a che fare.

Abbiamo apprezzato l’asciuttezza e la modernità del linguaggio, sfrondato da ogni classicismo, troviamo invece meno azzeccata la modalità di attualizzazione resa, in buona sostanza, soltanto dalla presenza di un televisore che Elettra guarda compulsivamente mentre trasmette Ufficiale e gentiluomo. Questo solo elemento, insieme al disagio alimentare della ragazza, ci sono sembrati francamente superflui. A nostro avviso, il buon testo è strumento sufficiente a rendere attuali le riflessioni che emergono dallo spettacolo, la recitazione è sincera (tranne per Elettra che risulta forse un po’ troppo petulante) e la forza del mito arriva a noi ancora intatta grazie alle parole e agli argomenti, anche senza televisore. Non nascondiamo qualche perplessità anche sul frigorifero/Agamennone, senza averlo letto sulla scheda difficilmente ne avremmo intuito la simbologia.

“Assedio”, ispirato all’Iliade, della compagnia Mariano Dammacco, è un altro esempio di eccentricità di sguardo per rappresentare un testo che più classico non si può. Dammacco sceglie di richiamarsi ad un saggio della filosofa Simone Weil, che ipotizza il concetto di Forza come vera protagonista dell’Iliade, distribuita su tutti i personaggi del poema, non soltanto su Achille che ne rimane invece schiacciato. L’Achille di Dammacco (regista e interprete) è sotto assedio, la sua mente è assediata dalla follia della guerra, è un uomo reso fragile dalla continua esibizione di violenza, un eroe antieroe che vuole andarsene dal campo di battaglia e non vuole più essere indentificato e appiattito sulle sole idee di virilità e potenza. Una prospettiva inusuale e che permette un’analisi atipica e per questo avvincente del più epico racconto di guerra mai narrato. L’interpretazione sofferta di Dammacco tende a far sfociare la disperazione di Achille in un eccesso di lamento ma la compagnia è ben equilibrata e il risultato intelligente.

Il classico per eccellenza, Amleto, è messo in scena dalla compagnia Ippogrifo di Verona, in un allestimento definito dal regista Alberto Rizzi “balcanico”. Ci sarebbe piaciuto molto vedere Shakespeare in salsa Kusturica, sarebbe stato un modo originale di trasportare la Danimarca, ma i Balcani annunciati sono presenti solo in un paio di brani di Bregovic, usati (abusati?) come musiche di scena, per il resto l’Amleto di Rizzi è piuttosto fedele ma certo non nuovo. Questo spettacolo è quello che spesso si intende per “versione scolastica” di un testo classico, cioè uno strumento adatto a capire la trama del dramma per uno studio più facilitato, non memorabile per qualità di recitazione e ridotto del giusto perché degli adolescenti non si agitino troppo sulle poltrone. Unico spunto interessante di analisi, se si amano le interpretazione freudiane, è il personaggio di Orazio, travestito da orsacchiotto, a significare il rifugio d’infanzia e l’unico depositario della fiducia di Amleto.

Chiudiamo questo mini dossier con una nota su “Binge drinking”, ancora produzione Teatro del Buratto, stavolta uno spettacolo pensato specificatamente per i ragazzi, un testo sulla dipendenza  sempre più giovanile dall’alcool, il titolo allude all’usanza di assumere più dosi di alcoolici in un tempo molto breve per poi godere dell’ebbrezza per il resto della serata. I tre attori (Stefano Panzeri, Elisa Canfora, Dario De Falco) sono tre credibili adolescenti, amici per la pelle, ognuno con un rapporto conflittuale con i propri genitori. Aspettano il sabato per dimenticare la scuola e la famiglia e bere. Bere per essere felici, bere per non avere più paura. Cappa, il Risu e il Rosso scandiscono la loro vita tra un weekend alcolico e l’altro finché non assistono alla morte del fratello minore del Rosso, che li scuote e li riscuote. Speriamo. La bella idea di scegliere la vittima al di fuori del terzetto dei protagonisti e un buon ritmo fanno di Binge drinking uno spettacolo che cattura profondamente l’attenzione dei ragazzi. Un cambio di stile e tempo di narrazione gioverebbe alla sottolineatura dei momenti più simbolici.

L’arte della commedia di Teatro Minimo, Terzo Millennio della Compagnia OlivieriRavelli e Idoli di Carrozzeria Orfeo

RENZO FRANCABANDERA | Troviamo in questo contributo lo spazio per parlare di tre spettacoli a cui di recente abbiamo assistito a Milano, girando fra Tieffe Menotti, Teatro della Contraddizione e Teatro Out Off.

teatro-minimo Arte della commediaL’arte della commedia nella versione di Teatro Minimo nasce da un incidente: l’anno scorso durante la tournèe del precedente lavoro, la compagnia subì il furto del camion con tutta la scenografia. Fu allora che, un po’ in preda alla rabbia, un po’ alla disillusione su un mestiere tanto complicato come quello del contadino, esposto alle intemperie del giorno per giorno, Michele Sinisi scrisse a Luca De Filippo rivolgendosi a lui come ad uno dei due personaggi principali de L’arte della commedia, il prefetto.

In questo lavoro del padre Eduardo, si racconta di un teatrante che ha visto distrutto in un incendio tutte le scene e il magazzino del suo teatro, e che si rivolge al nuovo rappresentante dell’autorità locale per chiedergli non un supporto in denaro, ma un segno di umana presenza, la sua partecipazione ad una replica. Identicamente Sinisi ha chiesto a Luca De Filippo un segno di umana presenza, quello che i De Filippo quasi mai accordano, ovvero i diritti di rappresentazione di un’opera paterna. Invece quel segno è arrivato, e così Teatro Minimo è una delle pochissime compagnie non amatoriali italiane che può portare in tournèe una drammaturgia di De Filippo padre.

L’allestimento ricorda moltissimo “Sequestro all’italiana”, con l’ambiente ricreato attraverso una porta e una finestra ma quasi senza muri: in questo caso le pareti sono nere e restituiscono la stessa idea di assenza. La rappresentazione inizia fuori da questo universo, in un prologo che forse vale l’intero lavoro, il preambolo, la dichiarazione d’intenti artistica: in cinque-dieci minuti il capocomico, che oscilla fra testo eduardiano e vita vera, racconta di sé, della sua vita d’attore. E’ un momento in cui Sinisi guarda gli spettatori in faccia, essendo lui stesso in platea, come in una passeggiata serale dopo una replica. Entrerà di lì a poco nell’universo della finzione totale attraverso il csipario ancora chiuso, come in un parto au-contraire, non eiectus ma reversus al mondo scenico.
Da lì in poi la rappresentazione, con il primo atto che ruota intorno al dialogo fra Sinisi e il prefetto (Continelli, bene nella parte e in generale come alter ego di Sinisi stesso), che si chiude con un nulla di fatto e una scommessa: il capocomico avrebbe inserito alcuni suoi attori fra le persone con le quali il prefetto avrebbe avuto appuntamento, sfidandolo a riconoscere chi fingeva e chi no. Ma realtà e teatro sono un unicum inconfondibile e quindi sarà il teatrante ad avere la meglio.
Lo spettacolo, in replica nei giorni passati a Milano al Tieffe, nel primo atto vive la sua parte più alta e intensa, mentre il secondo atto è un po’ figlio di quel teatro degli equivoci che, se calcato troppo nella recitazione, finisce per impoverirsi. Durante la recita cui abbiamo assistito, gli attori che Sinisi ha raccolto intorno al progetto hanno rivelato un’acerbità, una propensione all’eccesso e al tono carico che non permette al secondo atto di decollare, visto che tutto si regge intorno al delicatissimo equilibrio fra finzione e reale. Anche l’assistente del prefetto si muove per tutta la recita sulla lettura parodica del suo personaggio, risultando non sempre adatto a quel ruolo di collante fra mondo dello statuito e universo dell’arte.
L’arte della commedia è opera solo apparentemente leggera, in realtà una severa lezione di tecnica del teatro se trasportata nel nostro tempo e nel nostro gusto scenico mutato. Ecco dunque qual è lo spazio di miglioramento per il regista/capocomico, che deve calibrare la recitazione dei suoi giovani attori, per dar loro la più profonda dimensione di un testo che si regge sulla necessità di una concentrazione scevra da ogni autocompiacimento, che deve rifuggire la chiamata alla risata come la peste, per incarnare, proprio nel suo restare seria, la tragica comicità del reale.

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olivieriravelliIn replica fino al 1 aprile al Teatro della Contraddizione è la Compagnia OlivieriRavelli, con Terzo Millennio un testo di Fabio Massimo Franceschelli diretto da lui medesimo. La Compagnia, come noto, fa parte del consorzio Ubusettete che raccoglie alcune compagnie della scena romana, e fa di un linguaggio di prosa compreso nell’intervallo logico fra l’assurdo e il tragicomico la propria cifra. La drammaturgia è un esito interessante della produzione drammaturgica del regista. Descriverla è pressochè impossibile. Il lettore sappia che si troverà per quasi tutto lo spettacolo, ovvero per un’ora e trenta minuti circa, in compagnia di un duetto, che diventa, ai due terzi della recita, un terzetto. Un delirio a due con ospite, un Aspettando Godot durante il quale ad un certo punto entra in scena una signora un po’ sboccata e un concreta, che mette in crisi l’astratto filosofeggiare sulla funzione e sui paradossi della lingua dei due interpreti primigeni, il Maiale (Claudio Di Loreto), il Pescatore (Alessandro Margari), che attendono esisti ontologici della propria presenza al mondo, che non arriveranno.
La scena è semplice. Tre grandi superfici circolari di legno, come i famosi tondi di Vedova, ma monocromi, due (i laterali) di color rosa, uno, quello centrale, nero, fanno da sfondo. Rosa e nero sono anche i colori dei vestiti dei due interpreti iniziali, il primo intento a pescare già all’inizio dello spettacolo, quando appare poeticamente in controluce, mentre fa balenare un piccolo giocattolo di legno appeso all’amo della sua canna da pesca. Pochi istanti dopo arriva dalla platea l’altro protagonista, il porco. I due dibattono in forma alta su questioni al bordo fra logica e linguistica: dal significato delle parole a quello della loro presenza al mondo in quel contesto isolato e arido. Assiste alla diatriba un manichino di donna che solo a recita avanzata smetterà di incombere con il suo silenzio, lasciando il posto ad un’incarnazione tutt’altro che manichina (Francesca Guercio).
L’arrivo della terza figura in un primo momento pare aggiungere elementi risolutivi e pragmatici al dialogo precedente, ma ben presto si impasterà della stessa anti-logica, arrivando a creare un delirio a tre che finisce per esaustione. La messa in scena è una prova d’attore, in cui il duo iniziale funziona meglio del terzetto successivo, anche se il divertimento e il ritmo, ovviamente, nei terzetto trovano esiti più interessanti. Gli attori tornano nel teatro in cui già l’anno scorso avevano riscosso un interessante successo, anche se questo esito è meno appuntito. Sicuramente l’impatto frontale, su una drammaturgia che ricorda l’assurdo di altri tempi, porta il sapore delle minestre d’una volta, espressioni di un teatro d’attore, testo e regia che, se da un lato non muore mai, per altro verso dopo un po’ ferma il metronomo nell’attenzione dello spettatore. I repentini cambi luce abbinati ad alcune parentesi del recitato non sono momenti di rottura di temperatura sufficienti a riscaldare il rapporto con il pubblico che dopo un po’ scema. L’avvento della figura femminile, e questo è un limite della drammaturgia, ha una forza intrinseca invero modesta e anche la relativa interpretazione resta scontata su un binario di amorevole isteria.
Si potrebbe dire che lo spettacolo dura un po’ troppo, lasciando la porta socchiusa al distacco fra scena e pubblico, ma effettivamente, considerato che le interpretazioni sono nel complesso riuscite, questo tipo di considerazioni resta limitato alle decisioni della regia di scegliere un impatto tradizionale e centrato sull’apicalità del testo. E’ il classico caso in cui una regia altra rispetto a colui che ha materialmente redatto il testo, avrebbe potuto creare quella (a volte) necessaria distanza per operare qualche scelta sul di troppo. La potenza del testo penetra, quella della recitazione anche, quello che rimane perfettibile è una modernità della diegesi testual-teatrale, vale a dire l’incardinazione della parola al suo posto in scena, la coerenza fra narrato e interiorizzazione del momento teatrale. A volte, insomma, il pubblico si trova fuori, e questa è sempre una responsabilità di chi deve leggere il rapporto fra chi recita e chi sta al di qua.

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idoli_carrozzeria-orfeoIdoli è uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, interessante realtà lombarda che in pochi anni ha saputo conquistarsi uno spazio non marginale fra le compagnie di ricerca tanto sulla prosa che sul linguaggio scenico e sull’uso della maschera. Avevamo di recente assistito alla loro ultima fatica, Robe dell’altro mondo, nel corso del festival bresciano Wonderland, ma questo passo indietro ad una produzione dello scorso anno, grazie al teatro milanese Out Off che ne favorisce l’ospitalità, è una preziosa occasione per leggere, a distanza di poche settimane, l’evoluzione letta a ritroso.
Cercheremo di leggere il tutto in forma diacronica, partendo dalla crescita nella scrittura drammaturgica che la compagnia ha registrato da quel testo, Sul confine, che fu segnalato dal gruppo di visionari al Kilowatt Festival del 2010 a questi esiti più recenti. Innanzitutto va segnalata la capacità ormai acquisita di costruire le trame in maniera più efficace, incastrata, logica fino al necessario, ma capace anche di valicare i confini del sillogismo per i fuori campo nel laterale, nell’onirico, nell’impossibile.
In secondo luogo la compagnia si distingue per la capacità di portare in scena i propri testi in maniera ancor più forte e viva di quanto la parola stessa non sia di suo capace di dire. La compagnia sicuramente merita attenzione per la modalità di rappresentare la nostra società nel suo modificarsi, nelle sue derive, nelle sue insicurezze, che non è comune. Da ultimo ma non ovviamente in ultimo, l’abilità di dialogare con linguaggi altri rispetto all’arte scenica, come per il lavoro presentato a Brescia, che nasce dal dialogo con l’arte del fumetto. Ma non è sicuramente un caso isolato visto che in primo luogo questi ragazzi colpiscono per una maiuscola capacità di ascolto del circostante.
Le loro “situazioni”, le loro gag, nascono dalla più comune banalità, dall’ovvio. Nessun irreale à-la-Kane, con militari che irrompono a forza di bombe in vicende di coppia che si tengono in stanze d’albergo. Qui la storia è proprio basica, due ragazzi di periferia con lui ultras e lei legata ad una famiglia ormai evaporata, un nucleo familiare tediosamente borghese, due ragazzini che chattano, con lei che ancora adolescente gli chiede il numero di carta di credito, una nonna morta e già cenere in un’urna, e un nonno sulla sedia a rotelle che finirà vittima di un rigurgito di inaudita e inspiegabile violenza.
Cosa leghi tutto questo è proprio l’oggetto dell’indagine di Carrozzeria Orfeo, che prendendo come spunto alcune ricerche di Umberto Galimberti sulle distonie del nostro tempo, sul venir meno delle certezze e l’incombere della liquidità del sistema di valori, arriva a raccontare uno spaccato che lambisce il bordo del comics ma rimanendo saldamente entro il perimetro dell’umanità possibile. Restiamo convinti del grande potenziale della compagnia, che cresce in modo significativo e concreto, diremmo quasi misurabile, se davvero esistesse quel misuratore di contenuto poetico di cui si faceva grottescamente menzione ne L’attimo fuggente. Ma per fortuna nulla, nel fatto artistico, è realmente misurabile, se non la crescita del linguaggio originale dell’artista, la sua capacità di proporre le sue urgenze in intenso dialogo con il suo tempo. Da questo punto di vista Carrozzeria Orfeo è compagnia assolutamente figlia del nostro tempo, che nel nostro tempo cerca i pretesti per il proprio fare arte.
Diamo loro il tempo di crescere, non caricandoli di inutili aspettative e non gettandoli nel tritacarne delle produzioni in dinamica seriale, e fra qualche anno ci troveremo con un collettivo scenico in grado di apportare nuova linfa alla prosa italiana e non solo. Con riguardo invece allo spettacolo e alla prassi drammaturgica, si potrebbe, a mo’ di consiglio, dire che la giusta tensione emotiva va mantenuta verso un gesto scenico un po’ più sintetico, concentrandosi forse su un numero minore di personaggi in scena, approfondendo l’indagine sulla crudezza del vivere che ancora in alcuni casi non arriva alla più vera profondità. Ma sono peccati di gioventù, di quell’incosciente e costante sperimentare di cui seguiamo la scia, arrivando di tanto in tanto a leggere il momento conclusivo, lo spettacolo appunto. Finora hanno mostrato di saper fare, e di far bene.

Un video de L’arte della Commedia di Teatro Minimo

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Un video del lavoro della Compagnia OlivieriRavelli

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Idoli di Carrozzeria Orfeo

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Paul Cezanne. Solitario poeta della concretezza

Cezanne-Pendule-noireMARIA CRISTINA SERRA | Arte di confine, ricerca costante ed infaticabile di un equilibrio sostanziale fra la realtà esteriore e la coscienza interiore, quella di Cezanne. Passaggio di frontiera tra la classicità “assoluta”, spogliata di nostalgia del passato, e la modernità incombente del Novecento. Studio meticoloso di uno spazio da realizzarsi in forme e prospettive dagli orizzonti allargati, volti a semplificare la sostanza delle cose e le sue incessanti combinazioni, dove i luoghi della vita e quelli dell’arte s’incontrano in una identità totale.

“Il pittore concretizza col disegno e col colore le proprie sensazioni, le proprie percezioni”, annotava Cezanne, “non si è mai troppo scrupolosi né troppo sinceri né troppo sottomessi alla natura”. Irrequieto e schivo figlio della ricca borghesia del Midi francese, ad Aix-en-Provence, la sua vita scorre metodica fra i colori e i profumi intensi della sua terra, rifugio dell’anima e ispirazione per la mente, e i rituali e lunghi soggiorni parigini, vissuti fin da ventenne, con sentimenti alternanti odio e amore, attrazione e respingimento.

Si è appena conclusa al Musée de Luxemburg una straordinaria mostra “Cezanne et Paris”, che ha ricostruito in modo insolito l’itinerario creativo, appassionante come un’intricata ed enigmatica storia d’amore, dell’artista della concretezza del visibile, inventore di una nuova “armonia parallela alla natura”, oltre alla quale liberare l’infinito attraverso una modulazione di colori pulsanti di vita e di forza plastica. Artista solitario e rigoroso, inconsapevolmente profetico, vissuto nell’oblio per gran parte della vita, refrattario a rincorrere il successo e il riconoscimento, che arrivò solo nel 1904, quasi alla fine della vita. La “Grandezza” l’aveva conquistata già dentro di sé, fra mille dubbi e una sperimentazione attraversata dalla fatica quotidiana di essere pittore in perenne “presa di coscienza critica” della realtà, in cerca della “Verità interiore” delle cose, oltre le impressioni visive.

Incastrando pazientemente tassello dopo tassello, così come per i suoi mosaici di colori vigorosi, privi di ombre, che scomponevano e ricomponevano le tele in un dinamismo dalle sorprendenti sfaccettature. Uno “sguardo tattile”, palpabile, nel quale “occhio e cervello devono aiutarsi fra loro per catturare l’inafferrabile e tradurlo in geometriche solidità, la cui resa volumetrica e spaziale è definita da pennellate dense di sostanza”. La lucentezza del nero si schiude dal fondo di un cofanetto prezioso nel quale sono custodite, come gioielli segreti, le opere giovanili dell’artista .

E allora “La pendule noire” domina con solennità la sobria composizione di oggetti resi vitali da una grande conchiglia venata di rosso posata sul tavolo, rivestito da una tovaglia bianca, ripiegata in un rigido drappeggio, che si sviluppa in verticale. E’ il gioco dei contrasti sempre presente nella sua pittura, lucente e opaca, solida e liquida. Due semplici baguette, sistemate su un candido tovagliolo, spezzano in orizzontale il fondo scuro de “Le pain et les oeufs” e stabiliscono un contatto immediato con la certezza dell’esistente.

Le mele, “modelle viventi”, animano come corpi autonomi una natura morta composta di “Tasse et fruit sur nappe blanche”, inglobata da una carta da parati che satura ogni via di fuga apparente. E’ seduto, severo, autorevole, scostante, intento nella lettura del giornale “J. Auguste Cezanne” padre, rappresentazione di quel rapporto di soggezione e incomprensione che lascerà segni indelebili di fragilità nel suo carattere. E’ di grande rigore formale il ritratto di Hortense, “Madame Cezanne dans un fauteuil rouge”: una figura monumentale nella sua indecifrabile compostezza, modellata nello smagliante blu cobalto dell’abito, reso ampio dai riflessi verdi delle righe verticali; come se i colori l’un l’altro si spingessero per appropriarsi di energie e trovare poi convergenza nel rosso della poltrona, rifugio della donna amata. Zola, amico di una vita, con il quale condivise sogni e speranze giovanili ad Aix e le prime avventure parigine, fino alla rottura traumatica nel 1886, è ritratto in modo frammentario, intimo, accovacciato in terra, avvolto da un informe caftano chiaro, lo sguardo meditativo immerso nell’oscurità della scena.

In un’altra tela giovanile, con pennellate fiammeggianti e impetuose, si ispira alla pittura di Delacroix per ritrarlo nel suo lavoro di scrittore. Disincanto e trasfigurazioni esotiche per i quadri di soggetto erotico degli anni ’60/’70: tentazioni da vivere con tormentato distacco. Anche Parigi all’inizio gli appare un po’ come una donna seducente, ma pericolosa, tentacolare e inaccessibile; ma poi impara a stabilire la giusta empatia. Ne ricerca gli angoli meno mondani, le strade lontane dal fragore, illuminate da luci fioche, intime, che nascono dall’interno dei pavè e dei muri, per espandersi all’esterno e far trovare così il giusto volume alle forme, come in rue des Saules, a Montmartre.

Dipinge la zona industriale del Quai de Bercy attraverso il caratteristico mercato dei vini, con le lunghe file di botti a segnare la Rue Jussieu. Ricostruisce la sua idea di città dai “toits de Paris”: una composizione architettonica armoniosa, suddivisa in tre piani orizzontali: la compattezza color ardesia dei tetti, la scansione alternata con tonalità pastello degli edifici, la nitidezza omogenea e grigio-chiara del cielo. Una ritmica perfetta di relazioni spaziali, che definiscono un’essenziale prospettiva in divenire. I dintorni di Parigi, la foresta di Fontainebleau, Auvers-sur-Oise, Pontoise, ospite dall’amico Pissarro, sono i luoghi ideali per definire la sua arte.

Il suo colore denso, forte, avvicina le cose, le impasta di bruni, violetti, rossi, verdi e azzurri, in vibrazioni che penetrano tra le nostre inquietudini del cuore per poi tornare in superficie. Troveranno pace, rivelazione e sintesi nei paesaggi e nelle cime delle montagne provenzali, dove le parole si sospendono per lasciare integra la realtà della natura in un impressionismo durevole, che si fa coscienza di sé.

Un video della mostra della AFP
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Una guerra di terra e cognac

ELENA SCOLARI |  Giugno 1916 – Luglio 1917: la brigata Sassari è di stanza sull’altipiano di Asiago. Ci passa un anno intero. Andrea Brunello incarna le parole di Emilio Lussu e racconta gli episodi di questo folle anno della prima guerra mondiale. Storie di uomini dal romanzo Un anno sull’altipiano.
Queste storie di guerra sono belle e terribili, sono grottesche e crudeli, raccontano soprattutto dell’ottusità di capitani che non sanno comandare, della ridicola protervia di generali sciocchi che mandano al macello i proprio soldati pur di conquistare qualche metro di terreno al nemico. Ma per i soldati in trincea chi è davvero il nemico? Gli austriaci o i superiori con i loro folli ordini senza senso?
Brunello ci parla in un’atmosfera intima, fatta di pochi oggetti in scena e costruita sulla necessità di una vicinanza fisica col pubblico, una forte componente olfattiva è elemento caratterizzante dello spettacolo: i soldati si reggono in piedi ad acool, soprattutto cognac, e cognac è quello che viene asperso (e poi offerto) sopra gli spettatori diffondendo un odore alcolico che ci dà l’idea di un’ebbrezza rassegnata. La terra in cui sono scavate le trincee è il luogo dove i militari passano lunghissime ore di lunghissimi mesi e l’odore di questa terra arriva fino a noi che vediamo il protagonista farsela scivolare addosso. La regia di Michele Ciardulli è misurata, sono questi segni decisi che ne connotano lo stile.
I personaggi che popolano l’altipiano veneto sono vivi, sono resi vivi dalla calda recitazione di Brunello, la sua drammaturgia restituisce in modo rotondo la verità delle parole di Lussu, semplici nel descrivere le azioni sul campo e ironiche per definire la mente stolida del Generale Leone, per la cui morte i soldati avrebbero fatto gran festa.
I soldati che conosciamo in questa avventura sono tutti meglio della situazione in cui trovano, sono coraggiosi, sopportano tutto, non si lamentano e si fanno forza sì col cognac ma anche con il pensiero di amori romantici che aspettano a casa, sono uomini con un fortissimo senso del dovere, di una dignità commovente. Capiamo la follia della vita in trincea, delle marce lunghe giorni e notti intere, la noia di fare per settimane la guardia da una feritoia di legno,  l’orrore di vedere i compagni crivellati di colpi a pochi metri di distanza sotto le moderne armi austriache, ascoltiamo una bellissima descrizione di una disperata carovana di cavalli con cavalieri immobili perché ormai morti. Tutto questo è però narrato senza pesantezza, senza retorica alcuna, il ribelle Ottolenghi, Avellini l’innamorato e il soldato semplice Marrasi Giuseppe sono persone di cui abbiamo sentito il carattere e di cui serberemo un ricordo affettuoso.
Lo spettacolo della compagnia Arditodesìo di Trento riesce a fare un’operazione interessante di diffusione storica: con la giusta misura di sentimento e distacco mette in scena qualcosa che abbiamo ancora bisogno di ricordare per riconoscerne l’assurdità.

arturo ui1RENZO FRANCABANDERA | Come dare l’idea di un lavoro importante, accurato, senza scadere nell’eccessiva didascalia o nella seriosità di dire cose che possano apparire scontate per lettori, attori e a maggior ragione ad uno studioso di Brecht come è Claudio Longhi, il regista de La resistibile ascesa di Arturo Ui?

Siamo di fronte a uno degli allestimenti più importanti della scorsa stagione teatrale, una scommessa (l’ennesima, dobbiamo darne atto) vinta da ERT e Pietro Valenti, che ha voluto affidare a Longhi un cast importante per un’operazione rischiosa, che avrebbe potuto definitivamente consacrare o marginalizzare uno dei registi più interessanti e consapevoli del nostro panorama teatrale. Insieme a ERT, la co-produzione di Teatro di Roma. L’abbiamo visto al Teatro dell’Elfo.
Lasciando agli studiosi gli approfondimenti più intrinsecamente filologici, ritagliamo per la critica il compito, spesso più arduo, di trasmettere un sapore, un’impressione, di provare a stimolare un gusto, un olfatto, un senso, in un percorso che metta a fuoco punti di forza ed eventuali punti di debolezza di un allestimento.
Come noto, si tratta di un’opera scritta di getto nel 1941 da Brecht ormai in fuga, che attraverso similitudini neanche velate, avvicina la vicenda di un immaginario gangster della Chicago degli anni Trenta e i suoi tentativi di controllare il racket dei cavolfiori a quella del dittatore che aveva preso il potere in Germania (Longhi recupera la didascalia istruendo il pubblico con sovrascritte luminose sull’identità fra Ui e Hitler, fra l’America e la Germania, fra la città di Cicero e Vienna ecc.). Non ebbe rappresentazione che quasi vent’anni dopo.
Cassette di plastica, simili a quelle normalmente usate per la frutta, impilate, riescono a rendere l’idea di una metropoli americana con grattacieli, palazzi, inaccessibilità verticali di cemento. Lo spettatore entra in sala e trova già disposti ordinatamente in triplice filare i cavolfiori. Il clima narrativo è da subito quello del più ortodosso dramma epico brechtiano, con un corredo musicale originale, frutto della creatività musicale di Hans-Dieter Hosalla.
La trama, nota, racconta la vicenda di un uomo sostanzialmente fallito, un nulla di buono, che per una serie di circostanze incredibili e violente, complice la ricattabilità di una politica e di un sistema giudiziario molli e ormai all’ultimo respiro, riesce a demolire prima e a creare poi un sistema di potere, arrivando al controllo del tessuto economico con una modalità mafiosa. Gli attori sono chiamati a recitare, cantare, interpretare il proprio ruolo come parte di un ensamble musical-attorale, una banda che si sviluppa su un duplice piano, quello musicale e quello criminale che è della drammaturgia, esaltando il particolare talento di alcuni attori particolarmente vocati alla duplice sfumatura.
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La parte più interessante e coraggiosa dell’impianto registico è quella di non fare di Umberto Orsini, nel ruolo del protagonista, l’icona teatrale da portare in giro come santo in processione, ma quella di sviluppare in modo orizzontale le abilità a disposizione, in particolare dei giovani Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti (dramaturg e interprete, poi premiato con l’Ubu per la notevolissima performance), Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis, per un’opera dal tratto corale e disperatamente, ma anche grottescamente sociale.

In questa dimensione, l’Orsini attore prende un altro respiro, mitigando le tensioni da mattatore per porre la sua esperienza al servizio di un obiettivo di ordine superiore.
Le scene pensate da Csaba Antal e ben supportate dai costumi di Gianluca Sbicca e dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero, ricreano gli interni e le strade, e la metropoli americana prende vita fra le casse di frutta, in un gioco di primi e secondi piani capace di piani e orizzonti plurali; è un perimetro scenico all’interno del quale si muovono gli attori in forma molto aperta, fino a strabordare, inondando a più riprese la platea, chiamando nel respiro dell’allestimento il pubblico, che in non rare occasioni partecipa, vive, applaude a scena aperta, vivendo il sentimento di progressiva angoscia che la regia, filologicamente brechtiana, però decide spesso di smorzare attraverso piccoli escamotage: brillante, ad esempio, quello in occasione della mattanza malavitosa finale, dove le esecuzioni vengono accompagnate da didascalia sonora fumettistica. Nulla del pathos si perde, e tutto acquista una dimensione viva, pulsante.

arturo ui3Lo spettacolo, come la resistenza di una lampadina d’altri tempi, si riscalda via via, fino a raggiungere una temperatura, un calore, un’intensità che di rado si respira nelle fruizioni cui siamo abituati. E’ una lettura, quella di Longhi, rigorosa ma capace di mondarsi della sovrastruttura di consapevolezze che pure il regista avrebbe potuto profondere nell’allestimento. Al contempo è indubitabile che nella chiave di lettura della regia si possa respirare la consapevolezza di scuola, ma anche quella dell’accademia. Ma in questo caso il combinato disposto delle due forze rimane grandemente equilibrato, paritariamente soppesato nelle sue componenti, capace, un po’ come Ben Hur con i cavalli della sua auriga, di togliere e dare briglia ai diversi talenti, in maniera profondamente consapevole dei punti di forza e di debolezza di ciascuno.

A questo spettacolo, dal nostro punto di vista, forse andava riconosciuto qualcosa in più in termini di segnalazioni e riconoscimenti nell’ultima tornata Ubu. Ma tant’è, ormai è andata, quindi non resta che invitare il maggior numero di spettatori a godere di queste ultime date al teatro dell’Elfo (fino al 18 marzo), contribuendo a riempire la sala, come sempre è stato in questi giorni passati, in un interessante confronto a distanza con il Brecht di Ronconi al Piccolo Teatro. Il piatto della bilancia pende, secondo noi, dal lato di Ui.

Un video promo dello spettacolo realizzato da ERT
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Addio Monsieur Moebius

Moebius-davanti-manifMARIA CRISTINA SERRA | La vita deve avere la consistenza dei sogni per essere compresa e amata: imprevedibili e luminosi, assurdi e rivelatori, informi e pur fasciati nei colori della realtà. Leggerezza del cuore e profondità della ragione per raccogliere le molteplici fluttuanti alternanze dell’esistenza e gli strani schiribizzi del destino. Doni che possedeva in quantità, Jean Giraud, artista leggendario del fumetto, morto sabato mattina a soli 73 anni, dopo una lunga malattia, a Parigi.

Gir o Moebius, erano gli pseudonimi sotto i quali celava la complessità della sua identità, insieme alla necessità di vivere con coerenza il suo profondo bisogno di libertà interiore, che era “mio dovere esprimere anche attraverso i miei disegni”. Affabulatore delle nostre anime, insaziabili nel rincorrere trame ed esigenze di mondi poetici, sconfinati, oltre i quali cercare risposte alla finitezza delle cose apparenti. “Io sono un folle che può realizzare delle cose ragionevoli”, diceva di sé, perché un artista “sa cogliere i rilievi delle cose e diventare la voce del mondo”.
E allora noi lo vediamo sorridente e ironico come sempre e misterioso, curioso, profondo, mentre a bordo di una di quelle sue strane, ibride creature megalattiche si avvia all’esplorazione di cieli immobili, popolati da pianeti, galassie, firmamenti, sospesi senza tempo né spazio, che tante volte erano stati lo scenario, costellato di costruzioni barocche e fascinazioni surrealiste, sul quale ricamare le sue storie (Garage ermetico, Arzack, Il mondo di Edema, Incal), che mai imboccavano una sola soluzione, per lasciare perennemente sospesa ogni conclusione.

Certamente avrà portato con sé i suoi pastelli, per continuare a dare forma a quell’universo fantastico che emerge sotto traccia nel libero vagabondare alla ricerca di ogni possibilità; così da poter “scovare” in un deserto senza inizio e senza fine, la vita che si nasconde dentro il più piccolo granello di sabbia”.

Forse sta cavalcando in compagnia del solitario e malinconico “Soldato blu”, Mike Steve Donovan, alias Blueberry, per praterie assolate, sferzate dal vento, a rincorrere avventure dal sapore fiabesco e dai concreti minuziosi dettagli del disegno. Di sicuro non porrà limiti alla sua fantasia metafisica che aveva preso ispirazione dal “magico anello” del matematico e astronomo tedesco August Ferdinand Moebius, simbolo dell’infinito, per passare da un dimensione all’altra.

Ce lo immaginiamo così, insieme ai suoi due amici “principi dell’onirico”, Hugo Pratt e Federico Fellini, a spaziare tra le calli settecentesche della sua impalpabile visionaria “Venezia celeste”, privata dell’acqua per meglio sospendersi nell’azzurro eterno dei cieli, per rammentarci che il mondo per rinnovarsi ha bisogno di grandi sogni collettivi, perché senza di questi ci si può solo perdere.

Il servizio che Euronews ha dedicato alla scomparsa di Moebius

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Il video della stupenda mostra alla fondazione Cartier a Parigi
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