ILENA AMBROSIO | «L’idea di Filumena Marturano mi nacque alla lettura di una notizia: una donna, a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fattarello piccante ma minuscolo: da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara delle mie creature». Così racconta Eduardo nel 1956, dieci anni dopo la prima rappresentazione di Filumena Marturano (il 7 novembre del 1946 al Teatro Politeama di Napoli).
Su Filumena Eduardo disse varie cose: oltre al riferimento al fatto di cronaca disse che l’ispirazione gli era nata dalle sue esperienze nei bassi napoletani; disse che, dopo la fantasia surrealistica di Questi fantasmi, aveva voluto ritornare a un’opera di estremo realismo, un testo scritto d’un fiato, in appena dodici giorni.
Soprattutto, ribadì sempre con affetto che quel personaggio immenso, che sarebbe diventato forse il suo più noto internazionalmente, l’aveva pensato e scritto per la sorella Titina, a lungo comprimaria delle sue commedie e ora finalmente protagonista (tenerissima la dedica della versione televisiva del ’62).

Ancora, ripensando al suo percorso artistico, Eduardo disse: «Dopo Filumena ritengo che quell’imponderabile che matura in ogni artista sia veramente divenuto realtà».
Imponderabile: qualcosa di non categorizzabile, a stento definibile, che ha permesso a Filumena Marturano di essere rappresentato in oltre sessanta edizioni internazionali (tra cui Buenos Aires, Mosca, New York, Corea) offrendo a tutti i pubblici qualcosa che apparteneva alla loro specifica sensibilità. Qualcosa che lo fece apprezzare dalla destra e dalla sinistra, persino dalla Chiesa di Papa Pio XII, che chiese a Titina di recitare il monologo-dialogo con la Madonna.

Ma Filumena Marturano resiste alle categorizzazioni e alle annessioni ideologiche e ci riesce perché è uno dei testi di Eduardo più intriso di profonda umanità e attraversato da tematiche trasversali e davvero universali.
‘E figlie so’ ffiglie: con un leitmotiv che puntella l’intero testo, la voce di Filumena Marturano dice prima di ogni altra cosa – la maternità viscerale, che giustifica qualsiasi azione, che si nutre del dolore di un’infanzia rubata dalla miseria e dalla prostituzione, del desiderio rabbioso di riscatto; che vuole darsi tutta, senza compromessi e menzogne. Ma anche la maternità accogliente verso figli non previsti, frutto di atti non voluti, privi di amore.
E allora ecco il tema dei figli illegittimi, materiale sensibile e dolente per Eduardo, lui stesso, con il fratello e la sorella, figlio illegittimo di Scarpetta.
Ancora, come fosse Antigone, come fosse Medea, Filumena si fa portatrice di una giustizia giusta, quella che tutela il diritto di una madre e di una donna e che trascende i codici civili a favore, invece, di un uomo che l’ha umiliata e usata per venticinque anni.
Vinticinc’anne: è passato il tempo nella storia di Filumena, un tempo cechoviano, il cui trascorrere Eduardo ricorda a più riprese, per raccontare l’aspetto che è mutato, i capelli ingrigiti, le energie affievolite. Ma, forse, anche per sottolineare la tenacia rabbiosa della sua eroina, segnata da un passato di lotte e di tristezze.
Nella didascalia iniziale – insolitamente lunga e minuziosa – Eduardo descrive una donna il cui ritratto aveva evidentemente ben impresso nella mente: l’alterigia, la coscienza, la ricchezza d’intelligenza istintiva e di forza morale, disegnano una figura altissima, di uno spessore umano e drammaturgico che mai una figura femminile aveva avuto nel suo teatro. E questa altezza, questo spessore, servono a sostenere Filumena nella sua lotta – è un ring quello che Eduardo descrive all’inizio della commedia – contro Domenico Soriano, ma anche contro il mondo intero, che la vuole relegata a prostituta e a madre illegittima. Una lotta, quindi, per la propria identità.

Difficile mettere mano a tutto questo. Eppure Eduardo non è intoccabile. Di certo inarrivabile, ma la sua altezza non è e non deve essere respingente. Anzi, è necessario recuperare il suo teatro, rimaneggiarlo, interrogarlo ancora, riattualizzare il senso di una scrittura che ha sempre avuto le radici ben piantate nell’umano.

Ci ha provato Edoardo De Angelis con il dittico composto da Natale in casa Cupiello e Sabato, Domenica e Lunedì. Altissima la prova attoriale – con due cast capitanati da un Sergio Castellitto davvero eduardesco –, raffinata la fotografia e affascinanti le ambientazioni. Tuttavia, si peccava di un eccessivo indugio nei tempi teatrali, una fedeltà estrema al testo che male si sposava con la trasmissione televisiva, la quale ne usciva rallentata e appesantita.
E ci ha provato Mario Martone sul grande schermo con Il Sindaco del Rione Sanità che, al netto di una regia da maestro, ha, a ben vedere, tradito l’anima profonda dell’opera, cedendo alle moderne tentazioni “gomorroidi” e attribuendo a un trentenne (Francesco Di Leva) il personaggio di Barracane, il quale trova il senso del suo essere e del suo operare proprio nell’età avanzata: è un uomo vecchio, segnato da un evento drammatico, i cui esiti psicologici ed emotivi sono tanto crudeli proprio perché riverberatisi nel tempo.

Filumena Marturano di Francesco Amato – andato in onda lo scorso 20 dicembre su Rai 1 – si aggiunge, dunque, a una serie di tentativi di riportare il teatro di Eduardo sullo schermo, ma lo fa riuscendo a coniugare con intelligenza fedeltà e rinnovamento. Lavorando sulle circostanze precedenti, sulle didascalie, sugli indizi del testo, la sceneggiatura (curata dallo stesso Amato assieme a Massimo Gaudioso e Filippo Gili) ha lavorato evidentemente a una ricostruzione delle scene di Eduardo volta ad arricchirle di ciò che, con assoluta verosimiglianza, potrebbe essere accaduto prima e dopo.
È verosimile che, mentre Filumena dirige da vera imprenditrice la sua pasticceria, Domenico Soriano poltrisca a letto dopo una notte di baldorie; è verosimile che Diana, la giovane fiamma di Domenico, sia un’aspirante attrice che lo ammalia leggendo copioni per un provino; sono verosimili i piccoli gesti di deferenza e devozione di Rosalia e di Alfredo. È verosimile che, per Filumena, lo sfregio inaccettabile sia aver dovuto far uscire dalla sua pasticceria – perché sua è diventata – trenta paste frolle per l’amante di Domenico e che, nel meditare la sua vendetta, si eserciti a firmare, a imprimere il suo nome sulla carta, attendendo che quel nome, e con esso la sua identità, vengano finalmente svelati e riconosciuti.

Sono aggiunte arbitrarie, certo, ma scaturiscono dalle pieghe del testo, plausibilmente affini alla sensibilità di Eduardo e al contempo capaci di incontrare la sensibilità moderna, vero scopo del rimaneggiamento di un classico.
I personaggi ne escono restaurati, rinvigoriti, come già era accaduto nella pellicola di Vittorio De Sica con Sofia Loren e Marcello Mastroianni, forse un po’ ammiccante alla commedia all’italiana, ma rimasta iconica nella parabola del personaggio di Filumena.
Seguendo fedelmente la traccia drammaturgica di Eduardo, Amato attinge anche a quel film recuperandone le scene più icastiche – tra tutte la mangiata di pasta e fagioli di Filumena rediviva. Soprattutto, spezza il continuum temporale con quella serie di flashback che riportano Filumena al suo passato, al basso, alla casa chiusa, all’incontro con Soriano, i quali, però, diventano qui semplici immagini, ricordi sfuggenti, perché è la donna di ora quella che conta – sembra voler dire –, lei e la sua battaglia per la propria identità di madre.
Questi personaggi, eduardiani ma nuovi, si stagliano sullo sfondo di una fotografia splendida, dalle tinte antiche, ma raffinatamente contemporanea: giustissima la coppia Rosalia/Alfredo (Nunzia Schiano e Marcello Romolo), eredi dei servitori della Commedia dell’Arte, che si muove con destrezza sul filo che separa la tragedia dalla commedia, rendendosi protagonista di alcuni dei momenti più godibili della vicenda; centrati e arricchiti di pertinenti particolari caratteriali e di contesto i tre figli interpretati dai giovani e davvero bravi Massimiliano Caiazzo, Francesco Russo e Giovanni Scotti.

E poi, una coppia di protagonisti che ha saputo essere degna tanto dell’opera eduardiana, quanto della pellicola di De Sica. Vanessa Scalera, star della fiction italiana, è una Filumena intensa, capace di incarnare tutto il grumo di strafottenza, aggressività, desiderio di rivalsa ma anche tenerezza, sofferenza, delusione, che Eduardo aveva affidato alla propria eroina.

Massimiliano Gallo, anche lui spopolante sul piccolo schermo, un Dummi’ con una sfumatura leggermente più sofferta di quello che era stato il Soriano di Mastroianni, ma grazie a ciò ancora più convincente nel percorrere l’iter di formazione che da scapestrato e a tratti biasimevole dongiovanni, furioso antagonista di Filumena, lo porta a essere uomo capace di accettare la paternità e di riconoscere la donna che ha a lungo mortificato e umiliato come propria compagna di vita.

Amato chiude, infatti, su una nota di romanticismo, con la coppia che teneramente si bacia alla finestra di casa. Una nota forse un po’ troppo addolcita, se pensiamo che il sipario di Eduardo calava su Domenico che tracanna il suo vino. Forse, una concessione a chi ha sperato per Filumena in un finale davvero lieto, pienamente conciliante, senza stonature. Una forzatura a fin di bene, in definitiva, che non macchia i guanti bianchi con i quali Amato ha saputo maneggiare Eduardo, restando lontano e dalla fedeltà ossequiosa e dall’esagerato stravolgimento dell’originale, restituendo con modernità l’essenza sempiterna del teatro eduardiano.