RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | RF: Dopo il debutto a Udine a inizio stagione (il CSS coproduce), Black Star, diretto da Fabrizio Arcuri sulla drammaturgia di Fabrizio Sinisi, ha iniziato una tournée che ha fatto tappa al Teatro Metastasio di Prato, dove lo abbiamo visto entrambi. Siamo di fronte a un esplorare coraggioso le dinamiche della società occidentale, sottolineando la fragilità delle esistenze normali di fronte alle molteplici sfaccettature della violenza, ma non solo, anche dell’isolamento relazionale e della incomunicabilità dei disagi.
Lo spettacolo si sviluppa attraverso episodi interconnessi, sebbene ciascuno abbia come protagonista un personaggio diverso della vicenda. La presenza enigmatica di Grock (Martin Chishimba), un giovane afrodiscendente, si evolve come un filo conduttore, assumendo ruoli multipli fin dal primo quadro, in cui compare come l’amante di una ricca borghese di età matura (una potente Aglaia Mora). Per lui pare voler mandare all’aria la sua famiglia e le certezze, seguendolo in un viaggio a casa della sua famiglia di origine in Francia, dove, però, la donna capirà di essere distante da un mondo che non la accetterà mai.

Foto di Alice Durigatto

Da questo momento in poi la vicenda prederà una piega che sposterà la figura del giovane da corpo erotico ad avversario politico. Poi, evolverà in un vero e proprio thriller, composto per lo più di intensi monologhi e rari dialoghi, trasformando il ragazzo in vittima sociale e capro espiatorio.
Il testo affronta la violenza in vari modi, attraverso il lirismo del linguaggio e una struttura prismatica che offre una visione completa delle dinamiche presenti nella società.

MB: Le facce della violenza in Black Star sono sostanzialmente due: occasionale e sistemica. La violenza occasionale è rappresentata nel quadro successivo dal brutale omicidio della figlia di una coppia qualunque, Tony e Nicole (Gabriele Benedetti e Maria Roveran), in una città qualunque. In vestaglia e pantofole, si confessano, si raccontano e si commentano a vicenda, ben sapendo che l’altrǝ è lì che ascolta. Sono sia per glɜ attorɜ che il pubblico di sé stessi considerati come coppia.
Presente nei discorsi, ma assente tra di loro, è la figlia. Non usciva mai di casa. Si guardava nello specchio del cellulare, ma allo specchio vero non si riconosceva. Esiste solo nei racconti che fanno di lei, come i due genitori, del resto, che si rappresentano unicamente attraverso un simile rapporto di “mutuo soccorso verbale”.
Su questo palco, in questa porzione di mondo, è tutto narrazione. Perciò, è tutto spettacolo. Le vite dei personaggi sono meri ingranaggi di un disegno più grande: una società iperconnessa, raccontata dall’onnipresente televisione. E che tiene uniti gli individui solo e soltanto opponendo alla violenza occasionale, anzi, proprio fondandola su di essa, la spietata faccia della violenza sistemica. Ovvero, il razzismo.

Foto di Alice Durigatto

RF: Lo fa ispirandosi all’opera Tito Andronico di William Shakespeare. Black Star pare quasi delineare un moderno trattato sulla violenza sociale, presentando una prospettiva contemporanea, che mette in luce i meccanismi spesso occultati della brutalità nella relazione umana, e snodandosi dentro una struttura drammaturgica che fonde elementi postdrammatici con un’evoluzione quasi filmico seriale della vicenda, intrisa di pungente violenza.
Arcuri e Sinisi intendono dimostrare che la violenza può essere affrontata solo quando viene riconosciuta, raccontata e condivisa. Il testo, con la sua struttura prismatica e il linguaggio lirico, rappresenta un contributo significativo al dibattito sulla violenza nella società contemporanea.

MB: Al centro c’è l’irresistibile ascesa di una macchina del fango, resa in scena da più macchine del fumo. Come il fango, il fumo si manifesta dal nulla, resta, sta, piano piano si distende e diffonde, si lascia trasportare dalle correnti dominanti, finché non scompare e deve essere riattivato. Questo fumo rende tutto sospeso e le figure che abitano la scena appaiono alla stregua di spiriti degli inferi. Non c’è vita, secondo me, c’è trapasso. Attrici e attori non impersonano, non vivono: recitano. O meglio, tornando agli ingranaggi di cui parlavo prima, portano avanti il discorso, la trama.
Il costante uso del microfono, poi, contribuisce a rendere l’azione distante, asettica, quasi un sottofondo, come i programmi nella tv dimenticata accesa nel salotto di casa. Il tono, inoltre, è costantemente soffiato, quasi fossero sempre in uno stato di trance, con gli occhi fissi e spauriti.
Le parole, ripetute di continuo in loop ossessivi, inseguono l’obiettivo dichiarato di stupire o, a seconda del momento, di commuovere. Ma gli attacchi, le grida, le recriminazioni, sono soltanto frasi. Un inganno di frasi: nascondono in sé grandi fragilità. Si mostra il petto, ma il fiato è spezzato dalla rincorsa per non sentirsi impostorɜ.

RF: Qui, secondo me, parliamo di una felice e riuscita collaborazione fra le diverse forze che prendono parte alla creazione, a partire da Fabrizio Arcuri, regista e fondatore dell’Accademia degli Artefatti, che porta nella creazione la sua esperienza nel dirigere e nel plasmare luoghi di aggregazione ispirati a una visione plurale. Co-direttore artistico del CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Arcuri ha scelto qui di lavorare su un bellissimo testo commissionato a Fabrizio Sinisi, drammaturgo, poeta e scrittore, che ha all’attivo collaborazioni con alcuni dei registi più influenti della scena italiana, ricevendo riconoscimenti importanti, tra cui la menzione dell’American Playwrights Project e il Premio Nazionale dei Critici di Teatro. Con Black Star, per me, arriva a una grandissima prova d’autore.

Fabrizio Arcuri e Fabrizio Sinisi

MB: I mondi scoppiano, dice la matura donna del primo quadro: ci si salva uscendo fuori, non restando dentro le difficoltà o le brutture della vita. E l’unica salvezza possibile è individuale. A livello di società, non c’è alcuna salvezza: c’è solo violenza. È la “stella nera” di questo universo, che consuma le persone, oltre le cose, nella notte di un’estetica scenica ferma ancora agli anni ’80/’90. L’asta del microfono al centro, lo skyline di una qualche metropoli sullo sfondo, una palla stroboscopica buttata da una parte oppure caduta, tracciano la strada pop di uno show di lustrini e nastrini da debordiana società dello spettacolo.
In questo set da tv commerciale, i personaggi ragionano, filosofeggiano, concionano, perché sanno che siamo qui per ascoltarli, e non andremo via tanto facilmente. Non parlano, secondo me: si autoassolvono. Ci vogliono convincere che non hanno colpe, che sono delle vittime. In realtà, sono l’espressione buffonesca di una cieca brutalità consumistica, che unisce mondi diversi e distanti non attraverso percorsi di scoperta e di rispetto reciproco, ma di conquista e di sfruttamento.

RF: Se le scene hanno un tratto vintage, sul resto devo dire non solo di dissentire da questo tuo punto di vista, ma di aver trovato, invece, tutta l’operazione, il thriller psicologico e la cifra interpretativa, particolarmente interessante. Sono belle le atmosfere luminose create da Arcuri, specie gli interni domestici, fino all’algido compianto della madre della vittima, che su una di quelle scale da camposanto, ma con una passerella che buca il proscenio e arriva in testa alla prima fila, sembra lì lì pronta a buttarsi nel vuoto, proclamando il nulla che resta della sua esistenza dopo la perdita della figlia e l’esplosione della famiglia. Un testo che risuona involontariamente finanche di una tragica e involontaria attualità.
Ma a parte questa circostanza, a conti fatti marginale rispetto al fatto artistico, il tema della condanna, invece, di questo fragile consesso borghese, che non sa fare i conti con le dinamiche geopolitiche globali (questione esplicitamente richiamata nel testo in forma molto molto ben posta), emerge in tutta la sua chiarezza.
La vicenda, poi, non si chiude qui, a casa nostra, ma emigra per cercare le sue causazioni profonde lontano, lontanissimo.

Foto di Alice Durigatto

MB: La vitalità parla da morta. Alla fine dello spettacolo, o più precisamente, quando la trama si è compiuta fino in fondo, parla il rimosso di Black Star, l’assente, la figura dello scandalo, colui di cui è stato detto tutto, senza che potesse dire niente. Grock.
Fa quello che ci si aspetta da uno che ha il suo colore della pelle. Canta, balla, non solo impersonando, ma incarnando lo stereotipo dell’uomo nero. E rovesciandocelo addosso con rabbia e con dolore, cosa che, a mio avviso, prima di lui non erano riusciti a fare, con i loro rispettivi cliché, la donna in carriera e insoddisfatta, la coppia integra all’esterno e disintegrata dentro, il poliziotto inetto e aggressivo (Michele Guidi).
Grock ha introiettato il razzismo, si vede attraverso quella lente deformata. Con quella maschera da clown che stringe nella mano, lui è un vero vinto ed è davvero incolpevole, perché non ha avuto scelta. O emigrare o morire. E poi, è morto lo stesso.
Ma la possibilità che dà il teatro è quella di far morire il personaggio, non la persona. E anche di ripetere le cose che sappiamo già, perché magari stavolta smetteremo di farci manovrare dagli eventi, come Tony, apriremo gli occhi e agiremo per il bene comune, anziché per il male.
Ti aspetti il finale, ma questa non è la fine, non ci può essere una fine, finché non ci alzeremo da questa poltrona e andremo fuori a dire che I morti non sono morti, come recita la poesia del poeta senegalese Birago Diop, citata da Chishimba. È un peccato, allora, che questo grumo di irrisolto venga sciolto dagli applausi, permettendo che lo spettacolo, la finzione si prenda davvero tutto, fino all’ultimo bagliore di verità. Senza, io credo, ce ne saremmo andati con un peso che ci avrebbe obbligati a guardarci allo specchio e sentirci un po’ colpevoli anche noi. Almeno noi.

RF: Il finale è affidato all’esponente di una cultura differente, anch’essa millenaria, che anche noi occidentali finiamo per ammantare di stereotipo, certo, ma che in questo caso prova a svestirsi dello stereotipo, invece.
Poi, che si possa o meno apprezzare l’invito alla coralità canora con cui accompagnare il monologo finale e metateatrale di Chishimba, l’addendum drammaturgico in cui l’immigrato di seconda generazione cerca le radici del proprio non esistere nelle drammatiche vicende del colonialismo occidentale, è un post scriptum dall’aldilà che suona feroce e tutt’altro che assolutorio.
Anzi. Secondo me, lo spettatore se ne va a casa non solo con turbamenti e agitazioni contemporanee e palpabili, ma anche con dubbi come quelli che durante tutta la vicenda si annidano nella drammaturgia. Tradizionale, ma molto ben costruita e contemporanea, di ritmo travolgente, affidata a un cast di interpreti ben diretti e capaci di tirare fuori uno specifico attorale di qualità. Due ore che corrono, che avvincono e convincono. Non mi stupirei se questo spettacolo l’anno prossimo ricevesse giuste menzioni per alcuni riconoscimenti. A mio parere sarebbero meritati.

BLACK STAR

di Fabrizio Sinisi
regia e luci Fabrizio Arcuri
con Gabriele Benedetti, Martin Chishimba, Michele Guidi, Aglaia Mora, Maria Roveran
musiche composte ed eseguite dal vivo da Giulio Ragno Favero
scene e costumi Luigina Tusini
video Renzo Carbonera
una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato e TPE – Teatro Piemonte Europa

Teatro Metastasio di Prato | 9 e 10 dicembre 2023