RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | RF: Non so se sei mai stato ai Piombi di Venezia. Sono le prigioni che si raggiungono con accesso da Palazzo Ducale superando il celebre Ponte dei Sospiri. In una mia recente visita, nel girone più profondo dell’inferno, quello al piano a pelo d’acqua, che in tempi di acqua alta si allagava, con celle scavate nella pietra e senza finestre, con porte di accesso minuscole, dove verosimilmente venivano sbattuti quelli destinati a dover morire rapidamente, mi è capitato di trovare una serie di lavori artistici a cui si doveva essere accinto qualche detenuto particolarmente attaccato al senso della vita nelle lunghe ed estenuanti ore  trascorse praticamente al freddo, al buio e all’umido.
Si trattava di piccoli bassorilievi scolpiti nella pietra che sono diventati centenaria testimonianza di quella vita, come se in quel fatto artistico l’uomo avesse condensato il senso del suo vivere in quella miserabile condizione. Come dire che il bisogno dell’arte, quello veramente disperato e assoluto, si manifesta insopprimibile nelle condizioni di maggiore deprivazione.
Ecco perché all’uscita dal Teatro Fabbricone di Prato, dove abbiamo assistito al debutto del nuovo lavoro dei Sotterraneo, Il fuoco era la cura, liberamente ispirato a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, mi sono tornate in mente quelle immagini; di simili ce ne sono in tanti luoghi di disperata prigionia.
E forse mai come in questo momento il genere umano è prigioniero di sé stesso verso un destino che sembriamo incapaci di sovvertire.

MB: Ce l’hanno fatta anche stavolta. Il tocco dei Sotterraneo ha funzionato anche con Bradbury. Fahrenheit 451, nelle mani di Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Daniele Villa, diventa il racconto incendiario di questo nostro presente impazzito a ogni latitudine, con il Doomsday clock (l’orologio dellApocalisse, creato nel 1947 all’indomani delle bombe su Hiroshima e Nagasaki) che segna 90 secondi alla fine del mondo.
La guerra atomica è scritta, è predetta nel romanzo. Per questo attraversa più volte il Fabbricone da parte a parte, come una lama, il rombo di un qualche caccia che fa abbassare tanto la testa di Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo in palcoscenico quanto i nostri pensieri in sala. È una guerra immaginata, tutt’al più temuta, ma non è campata in aria, come quel fragore vorrebbe far sembrare. Difatti, la canzone ossessiva su cui i pompieri “danzano” e si motivano durante gli incendi dei libri non è una qualsiasi: è Fire Water Burn di Bloodhound Gang, con il suo tormentoso «The roof, the roof, the roof is on fire» «Il tetto, il tetto, il tetto è in fiamme». Veniva ascoltata dai marines in Iraq e Afghanistan.
Il tocco dei Sotterraneo di cui parlo sta proprio qui: nella loro capacità di far emergere il proprio pensiero sul mondo amplificando usi, commistioni e abusi degli immaginari e dei linguaggi prodotti dal sistema e dall’industria culturale. E lo fanno in modo sia accattivante – fin quasi a rendere sexy anche il male – che intellettualmente onesto. Con il fuoco non si scherza: infatti, ed è quantomeno insolito per loro, l’ironia è praticamente bandita.

Foto di Masiar Pasquali

RF: Non so dire se sia davvero così, perché in fondo tutta la costruzione è un gioco ironico, a tratti sardonico. Più della risata leggera si gode dell’arguzia, dell’intelligenza della costruzione, guardando a quanto di miracoloso il teatro ancora può fare per raccontare il tempo che viviamo.
In scena, come in molti dei loro lavori, non c’è nulla: alcuni oggetti funzionali alla resa scenica (studiati da Eva Sgrò) vengono portati nello spazio agito da dietro le quinte, ma di fatto ci sono solo le luci e le videoproiezioni oltre alle presenze fisiche degli attori.
Torna in mente Post-it, il loro primo lavoro, quello che li aveva consacrati come emblematici rappresentanti della nuova generazione della scena italiana una quindicina di anni fa. Anche lì un focus sul tema della fine, anche lì la scena vuota che veniva alimentata di oggetti recuperati dietro le quinte, messi sulla scacchiera e poi riportati fuori, in un andirivieni apparentemente intonato al gioco.
Qui, tuttavia, come anche in Overload, dove al centro era la figura dello scrittore David Foster Wallace, c’è una traccia drammaturgica sottostante che, seppure con grande libertà, funge da collante concettuale dell’operazione performativa. Ma anche lì si parlava di termine, di interruzione, di scomparsa.

MB: Fahrenheit 451 è un libro che parla della scomparsa dei libri. Sulla scena dei Sotterraneo è una realtà già avvenuta. Non c’è più l’incendio, c’è il fumo. Il fuoco era la cura. L’azione, dunque, è còlta al passato, nella continuità ininterrotta del suo svolgimento. Linizio e la fine sfumano nell’oggi, il presente di cinque interpreti che entrano come Amleto, anche loro con un libro in mano, e ciascunə prova a imparare il proprio a memoria ma non ci riesce, mentre i suoi sogni e i suoi timori alle prove passano nell’audio. L’unico scritto che sono in grado memorizzare e di recitare nel senso di ricitare, è il testo dello spettacolo, composto da tre capitoli, più prologo ed epilogo.

Foto di Masiar Pasquali

L’ossatura del romanzo, interpolato con estratti dalla sceneggiatura dell’omonimo film di François Truffaut, è restituita nei tre capitoli per dialoghi e descrizioni. Ognunə è sia personaggio sia narratore onnisciente. Quando parlano tra loro non ricorrono ai microfoni, li usano soltanto quando raccontano. Sono di colore arancione e corrono veloci di mano in mano: rappresentano le vere lingue di fuoco che si sprigionano sul palco. Sono i fili del discorso su Fahrenheit 451 che ci portano ai “dibattiti post spettacolo di Comi, Fasano, Mascagni, Murarasu, Tramparulo.
Il fuoco era la cura, infatti, non si svolge adesso ma nel 2051. Quindi a distopia avverata. Le “persone libro” di Bradbury per i Sotterraneo sono glɜ interpretɜ copione” che recitano anche nel senso che ricordano la loro vita prima e dopo i roghi dei libri, ciò che li ha portati lì, a essere come sono. Un’invenzione, a mio avviso, inquietante e sorprendente, perché ci fa vedere la realtà per quella che potrebbe o, peggio, potrà essere se continuiamo a bruciare la complessità sull’altare della mera semplificazione binaria.

RF: Lo spettacolo si apre proprio dentro questa finzione in cui il pubblico (in modo immaginario) partecipa a un incontro con gli interpreti, in cui loro, fra trent’anni, in un mondo in cui è già tutto successo, come dicevi, raccontano a un gruppo di presenti in quale maniera si è avverata la profezia dello scrittore. Gli ascoltatori della conferenza-dibattito siamo noi, presenti oggi, ma anche, in un certo qual modo, le nostre identità future che raccolgono questa drammatica testimonianza. Tanto che loro rispondono a domande che nessuno di noi rivolge loro in realtà.
È un finto dibattito, un finto dibattimento. È un finto abbattimento della quarta parete. Potemmo anche non esserci.
Magari fra 30 anni non ci saremo.
Ma l’interrogativo è anche rivolto a cosa faremo noi da oggi ad allora per scongiurare che non si sia davvero solo testimoni; o magari, peggio ancora, complici di questa deriva, senza opporre resistenza, cosa a cui il finale dello spettacolo vuole alludere, fra catastrofe e speranza. Ma, un po’ come anche in altre loro creazioni e, in particolare, ne L’Angelo della Storia, l’andamento della narrazione va avanti e indietro nel tempo, fino a tornare ai riti primordiali dell’umanità intorno al fuoco. Che ovviamente c’è ma non c’è.
Il tutto viene reso mirabilmente da un disegno luci, opera di Marco Santambrogio, che crea un kolossal nel vuoto, rafforzato nelle sensazioni dai suoni del sempre affidabile e tridimensionale Simone Arganini e anche da una presenza in scena che mai come in questo lavoro punta anche sull’elemento direttamente o indirettamente coreografico cui ha collaborato Giulio Santolini. Di arguta semplicità iconica, ma senza pauperismi e sciatterie, gli abiti di scena di Ettore Lombardi. Semplici perché, comunque, gran parte del lavoro di completamento immaginativo viene lasciato allo spettatore, come sempre deve essere in un’opera d’arte che non deve mai farsi completa in sé.

Foto di Masiar Pasquali

MB: È esattamente così. Al pubblico Il fuoco era la cura chiede un grande lavoro di immaginazione, quasi al pari di un libro. Come se il teatro fosse una pagina da sfogliare, un tableau vivant di copertine che svelano storie e canzoni ispirate ai volumi più celebri o ai personaggi letterari più popolari. Aglɜ interpretɜ, invece, chiede un impegno altrettanto grande di esecuzione per interpretazioni a velocità normale, ma anche rallentata, tipo “stop-motion”, oppure accelerata, stile “fast forward”.
È come se vedessimo tutto su uno schermo, inquadrato da una telecamera, ripreso e riprodotto in video. E il telecomando ce l’ha qualcuno che è tra noi ma che non siamo noi. Questa prospettiva, che può essere presa per una trovata di intrattenimento, un esercizio di stile o una prova di abilità per glɜ interpretɜ, delinea, a mio avviso, la seconda invenzione dei Sotterraneo, notevole e autentica, perché si rifà al pensiero originario di Bradbury: nelle sue intenzioni Fahrenheit 451 era una critica della televisione, considerata colpevole di distruggere linteresse nei libri.
Cosa c’è di tanto importante in un libro? Non cosa c’è scritto ma leggere. Ovvero, raccogliersi in sé stessə e dare la propria voce a parole di altrɜ. Un’azione che unisce i popoli da secoli e secoli, poiché non è mai cambiata da quando è stato inventato il libro. Se scomparisse, ci dicono i Sotterraneo, non avremmo più uno strumento di comunione con la nostra umanità.

RF: Lo spettacolo è l’esito teatrale più maturo della compagnia, e non perché l’ultimo in ordine di tempo, ma perché compone in questa creazione una summa di molti dei percorsi, delle tematiche, delle tecniche sceniche e drammaturgiche studiate e sperimentate nelle creazioni precedenti, che qui arrivano a sintesi: va accolto come un bene, dal punto di vista semantico, che il collettivo abbia stilemi e ossessioni artistiche e tematiche, e che, con una modernità di approccio al linguaggio della scena, sappia intessere un dialogo con il pubblico senza ricorrere alla ormai banale rottura della quarta parete, a cui qui si gioca ma senza che davvero mai accada. Anzi, pare quasi che la si voglia chiudere.
Ma soprattutto, devo ammettere, in più occasioni mi sono fermato a pensare fra me e me: ma che meraviglia che a teatro si possano fare tutte queste cose con pochissimo, e con la maestria dell’esperienza e del pensiero di chi, avendo esplorato la macchina, arriva a conoscerla così a fondo. In diverse occasioni i membri dei Sotterraneo giocano sulla povertà dei mezzi, ma in fondo è una scusa per lasciare allo spettatore – in questo spettacolo più che mai – il compito di completare con il pensiero e l’immaginazione quello che volutamente manca in palcoscenico. Ed è per questo che con ancora maggior forza si porta a casa la fortissima, angosciante e più vera sensazione su questo tempo malato e sconvolgente.
Avevo visto anni fa un allestimento di Fahrenheit 451 con grandi mezzi ma di cui oggi non riesco a tenere in me quasi nessun fotogramma, se non qualche espediente scenografico da kolossal. Qui, invece, ho dentro una sensazione emotiva durissima, che si rafforza con l’andare dei giorni. Siamo di fronte a un gioiello. Hai ragione: ce l’hanno fatta anche stavolta. E, per quanto mi riguarda, persino meglio delle altre.

Foto di Masiar Pasquali

IL FUOCO ERA LA CURA

creazione Sotterraneo
ideazione e regia Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Daniele Villa
con Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo
scrittura Daniele Villa
luci Marco Santambrogio
abiti di scena Ettore Lombardi
suoni Simone Arganini
coreografie Giulio Santolini
oggetti di scena Eva Sgrò
tecnica Monica Bosso
amministratrice di compagnia Luisa Bosi
produzione Teatro Metastasio di Prato, Sotterraneo, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
con il sostegno di Centrale Fies / Passo Nord
residenze artistiche Centro di Residenza della Toscana (Fondazione Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro), La Corte Ospitale, Centrale Fies / Passo Nord

Sotterraneo è Artista Associato al Piccolo Teatro di Milano, fa parte del progetto Fies Factory ed è residente presso l’ATP Teatri di Pistoia

PRIMA ASSOLUTA

Teatro Fabbricone, Prato | 12, 13 aprile 2024