fbpx
mercoledì, Aprile 30, 2025
Home Blog Page 2

La Bohème al Teatro Regio di Parma – La memoria come scena visibile

GIULIA BONGHI | C’è un momento, ne La Bohème, in cui la musica si ferma come per trattenere un respiro, e il passato fa irruzione nella realtà dei personaggi senza che nessuno lo nomini esplicitamente. È il momento in cui Rodolfo e Mimì si ritrovano, dopo che l’amore ha lasciato spazio alla lontananza, alla malattia, alla paura. Quel che accade nel quarto quadro non è solo un epilogo: è un ritorno.

La Bohème è tutta attraversata dal ricordo. Non tanto il ricordo di un evento specifico, ma di una stagione della vita: la giovinezza, l’amicizia, la fame, le notti fredde scaldate da candele e da sogni e soluzioni d’artista. Ricordare è un gesto drammatico, a volte disperato, che porta i personaggi fuori dal tempo presente e li riconsegna a un altrove più sincero. È così anche per noi spettatori: ogni volta che ascoltiamo quella musica, ci sembra di tornare in un luogo familiare, in cui le emozioni sono sospese, pure, quasi infantili.

Ph Roberto Ricci

Ed è proprio un luogo della memoria l’allestimento curato da Marialuisa Bafunno, vincitrice del Bando Operalombardia 2024: una scatola dei ricordi. All’inizio dell’opera, un Rodolfo ormai anziano apre la scatola impolverata che contiene la cuffietta rosa della sua amata Mimì. E così ripercorre tutta sua la storia; la giovinezza è qualcosa che ci lascia, ma che possiamo sempre, ostinatamente, ricordare.

Ambientata in epoca contemporanea, tra graffiti, fotografie digitali e paillettes, questa produzione del Circuito lirico lombardo è stata affidata a un team under 35. Le scene sono di Eleonora Peronetti, le luci di Gianni Bertoli, le coreografie di Emanuele Rosa. Un ensemble giovane che, pur con qualche sbavatura o ridondanza registica — il Rodolfo attempato a tratti troppo presente — dimostra idee chiare e una buona capacità realizzativa.

Dal debutto a Como fino all’apertura di stagione al Teatro Ponchielli di Cremona e alla tappa parmigiana al Teatro Regio, questa produzione è cresciuta e si è trasformata anche grazie ai diversi interpreti musicali. A Parma, la direzione di Riccardo Bisatti ha mostrato qualche squilibrio, soprattutto nei rapporti tra orchestra – la Filarmonica di Parma – e voci. Ad ogni modo è apprezzabile l’espressività asciutta che lascia spazio al vero Puccini, senza compiacimenti o sentimentalismi fuori misura. Si conferma il talento precoce del giovane direttore milanese, classe 2000.

Ph Roberto Ricci

Roberta Mantegna interpreta il ruolo di Mimì con voce solidità e morbida, nient’affatto lamentosa, pur risultando un po’ più statica dal punto di vista espressivo. Atalla Ayan restituisce un Rodolfo vocalmente espressivo, nonostante l’indisposizione annunciata prima dell’inizio dell’opera. Si conferma abile e incisivo Alessandro Luongo nel ruolo di Marcello, e sono affidabili anche gli altri bohémiens: Roberto Lorenzi come Schaunard, e Alexei Kulagin nei panni di Colline. Maria Novella Malfatti è una Musetta dal timbro scuro e sensuale, che bene si adatta al personaggio. Molto efficace Eugenio Maria Degiacomi, che caratterizza con gusto e misura i due ruoli comici di Benoît e Alcindoro, restituendo a entrambi uno stile vocale appropriato e mai sopra le righe. Completano il cast Francesco Congiu, brillante Parpignol, Angelo Lodetti e Matteo Mazzoli nei ruoli dei doganieri, infine Matteo Monni come venditore ambulante.

Ph Roberto Ricci

L’ambientazione è contemporanea, ma non forzatamente attualizzata: Musetta è una ballerina e aspirante influencer, Marcello è uno street artist, Schaunard un musicista rock e Colline un attivista impegnato nella lotta contro il cambiamento climatico.

Nonostante alcune scelte registiche discutibili, come le fiamme che si accendono senza apparente ragione alla morte di Mimì, viene gestita quella perfetta e implacabile macchina drammaturgica emotiva costruita da Giacomo Puccini, tutt’altro che semplice. In definitiva, l’approccio ha saputo cogliere il nucleo autentico dell’opera: il ricordo della giovinezza, assieme alla dolce violenza della vita.

 

LA BOHÈME

Scene liriche in quattro quadri su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini

Rodolfo Atalla Ayan
Schaunard Roberto Lorenzi
Benoit e Alcindoro Eugenio Maria Degiacomi
Mimì Roberta Mantegna
Marcello Alessandro Luongo
Colline Aleksei Kulagin
Musetta Maria Novella Malfatti
Parpignol Francesco Congiu
Sergente Dei Doganieri Angelo Lodetti
Doganiere Matteo Mazzoli
Venditore Ambulante Matteo Monni

Filarmonica di Parma
Direttore Riccardo Bisatti
Coro del Teatro Regio di Parma
Maestro del Coro Martino Faggiani
Banda degli Allievi del Conservatorio Peri-Merulo
Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Parma
Maestro del Coro di Voci Bianche Massimo Fiocchi Malaspina
Regia e costumi Marialuisa Bafunno
Scene Eleonora Peronetti
Luci Gianni Bertoli
Coreografie Emanuele Rosa

Nuovo allestimento in coproduzione con OperaLombardia e iTeatri di Reggio Emilia

Teatro Regio di Parma, 10 aprile 2025

Abracadabra: la magia di Babilonia Teatri per far sparire la morte

Abracadabra. Foto di Eleonora Cavallo

RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: È la parola intraducibile più usata al mondo. Abracadabra. È la formula, meglio, che permette al mago di fare (accadere) la magia. Ovvero, di intervenire sulla realtà: modificarla, trasformarla, imprimendo sul visibile – ciò che è qui, e che vedo, adesso, davanti ai miei occhi – un mutamento, che è un passaggio di condizione, di stato, di per sé invisibile nel suo farsi. Inconoscibile. E quindi, inspiegabile a parole.
Esistono, comunque, alcune ipotesi sull’origine di questo termine. Babilonia Teatri in Abracadabra, si muove, secondo me, tra i due significati che verrebbero dall’aramaico: “Io creerò come parlo” e “Sparisci come questa parola”. Il mago Francesco Scimemi, che fa spettacoli da più di 40 anni ed è stato in tutti e cinque i continenti, agisce in un “teatro delle apparizioni” costruito per lui da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Un “magicomio”, per citare la sua autobiografia. Le parole gli servono per ricreare un dialogo con la sua compagna, attraverso la magia di nuove occasioni di contatto con la loro storia. Abracadabra. Ma è impossibile. È tutto quanto una grande, impetuosa finzione. Lo sa fin troppo bene: lei, adesso, non c’è più. È morta. Le parole, allora, servono a Scimemi anche, o forse soprattutto, per far sparire il suo dolore. Colmando il vuoto lasciato dall’assenza del suo “amorì” con l’incantesimo di un amore che piega il tempo e lo spazio nell’eternità del ricordo di lei, memoria viva e presente, che lascia a bocca aperta. Abracadabra.

Abracadabra. Foto di Ivan D’Alì

RF: Scimemi collabora da diversi anni con Babilonia Teatri. Personalmente, lo avevo visto lanciare coltelli contro Paola Gassman e Ugo Pagliai in un Romeo e Giulietta visto nella programmazione dell’Estate Teatrale Veronese, qualche anno fa. Faceva abbastanza impressione vedere due mostri sacri del teatro italiano stare lì, appoggiati davanti alla tavola di legno, mentre il mago, illusionista e mentalista gli tirava contro i coltelli come al circo. Immagino cosa sia stato per loro, divi maturi e che avevano calcato le scene di mezzo mondo, come d’altronde ha fatto anche il mago, mettersi in quella scomodissima posizione, davanti a un lanciatore di coltelli. Certo, lui era vicino, il rischio era magari ridotto, ma non era nullo!
Questo per dire che il duo Castellani e Raimondi trova sempre modo di offrire ai propri interpreti e performer esperienze attorali nuove e sfidanti. E di certo il teatro, che assomiglia alla vita, offre davvero occasione di grandissime sfide, ma nessuna ha la potenza della vita stessa, e della sua più grande sfida e incognita: il passaggio della morte. E già dicendo passaggio, edulcoriamo e immaginiamo che esista uno stato ulteriore di vita oltre, quando il soffio emigra dallo stato incorporato che gli esseri umani conoscono. Ma non potendo noi saper nulla del dopo, né avere davvero esperienza di quello che c’è oltre, ecco che la morte resta il massimo mistero dell’esistenza umana. E Scimemi l’ha dovuta carezzare con mano, lasciando andare la persona, la donna, che lo aveva accompagnato nel lungo percorso della vita, privata e artistica – la sua compagna, da poco scomparsa per una grave malattia.
Questo è il motivo per cui lo spettacolo che Babilonia Teatri voleva realizzare con il mago intorno al tema della magia e dell’illusione è diventato un progetto per ragionare intorno alla sfida più grande, all’illusione che davvero esista qualcosa oltre. Miglior luogo per debuttare non avrebbero potuto trovare se non Prato, in quel Teatro Metastasio che già da un paio d’anni accoglie un importantissimo progetto di pensiero e ragionamento intorno al fine vita, insieme ad associazioni e realtà sanitarie del territorio che discutono e si confrontano con filosofi, artisti, pensatori, sulla morte (mi riferisco al progetto Da vivi – Il miracolo della finitezza).

Foto di Eleonora Cavallo

MB: La magia in questo caso è un modo, l’hai detto bene, di leggere il mondo. Così, Abracadabra è un lavoro che procede per immagini incantate, che partecipano di una natura tanto simbolista, quanto surrealista. Odilon Redon incontra Salvador Dalí. Francesco Scimemi prende gli oggetti magici che vediamo in scena e, nel compiere i suoi numeri, li risignifica. Cioè, li porta ad avere un significato, un valore, che va oltre la sola esecuzione del gioco di prestigio. Assumono una funzione narrativa ed emotiva fattuale, concreta. Più precisamente: rendono l’invisibile visibile.
Penso, ad esempio, a quando inizialmente Emanuela Villagrossi entra in una scatola colorata che riproduce all’esterno la sagoma di una figura umana. Scimemi la trafigge con una lastra di metallo, con un’altra, ma l’attrice resta impassibile: il suo corpo non versa una goccia di sangue. Poi, il mago sposta una sezione della scatola, creando un buco nella struttura. Nessuna reazione, anche stavolta.

RF: In realtà, c’è un prima dell’inizio di cui parli, quando il mago fa un gioco con il pubblico, utilizzando alcune carte del mazzo francese. All’ingresso in sala, infatti, gli spettatori vengono tutti dotati di quattro carte da gioco e il mago fornisce loro alcune indicazioni, facendole prima strappare in due, e poi giocando con i pezzettini a farne dei mazzetti, a ordinarli e scomporli, fino al magico finale in cui un pezzettino messo da parte all’inizio del gioco, e quello che resta in mano dopo aver buttato via gli altri uno a uno, magicamente sono le due parti della stessa carta. Ma come è possibile, se ognuno scarta e butta via in modo diverso da chi gli sta seduto di fianco? «Coincide!» sussurra Scimemi. «Non a tutti, ma coincide». D’altronde, la magia dell’amore, della coincidenza, del trovare l’altra metà esatta, non è una fortuna per tutti. Ma accade.

Foto di Eleonora Cavallo

MB: Non l’ho ricordato per non compromettere la sorpresa di chi deciderà di andare a teatro! Ma hai ragione, è un’apertura fondamentale per entrare fin da subito nel codice dello spettacolo di Babilonia Teatri. Parlando di ricomposizione, Villagrossi, una volta riunita con sé stessa e liberata, esce dalla scatola esattamente così come vi era entrata. Siamo di fronte al noto trucco della “scatola magica”, certo. Ma in Abracadabra è anche la rappresentazione sublimata della malattia che, non vista, colpisce un organo, lo fa ammalare, e quindi lo “stacca” dal resto del corpo, alterandone il normale funzionamento. E non ce ne accorgiamo neanche, perché dall’esterno non vediamo niente di diverso: tutto appare uguale a sempre.
Dunque, Villagrossi è la manifestazione, l’evocazione scenica della compagna di Scimemi. E la malattia che quella “scatola magica” ci rivela è un tumore: un cancro. Castellani e Raimondi poco dopo, all’unisono, ne scandiscono la diagnosi forte e chiaro, accompagnati dai suoni lancinanti di un tomografo PET. Intanto, Scimemi mangia il referto medico e poi lo risputa sotto forma di un pezzo di carta lunghissimo, come a restituire l’enormità e la violenza di una notizia che il suo corpo, ormai ridotto a una macchina, deve processare. Uno dei momenti più forti, a mio avviso, di tutto lo spettacolo.

Foto di Ivan D’Alì

RF: Uno dei pochi privilegi che tocca ai critici, così come agli spettatori molto molto assidui, è quello di imparare a conoscere a fondo gli artisti della propria epoca, riuscendo a individuare gli elementi ricorrenti all’interno del codice espressivo che questi abbracciano nell’arco della loro vita artistica. Nel caso di Babilonia siamo partiti, 20 anni fa, dallo spiazzante e destabilizzante gioco del linguaggio inespressivo, dei monologhi ripetuti a mitraglia. Ma al di là di questa novità per il teatro italiano di allora, non c’è dubbio che anche altri siano gli elementi simbolici e espressivi che la compagnia ha utilizzato in questi due decenni di arte negli spazi scenici.
Penso, per esempio, al non sufficientemente enfatizzato, ma praticamente sempre presente incontro che avviene, nei loro spettacoli, fra dispositivo scenico e dispositivo ludico. Lo spettacolo non è mai un gioco nel loro codice, ma c’è sempre un gioco nello spettacolo. E se non è un vero e proprio gioco, è un elemento che scardina l’aspettativa di un’evolvere naturale della storia, per come l’abbiamo sempre tradizionalmente intesa nel teatro di prosa. Ora è un gioco di carte, come qui, ora una sfilata di razze canine, ora un gioco con in palio le cavallette fritte, come in Calcinculo, ora il basket (David è morto), ora la giostra ricostruita in scena a dimensioni naturali o a pezzi di Romeo e Giulietta, in una logica di luna park insieme al lancio di coltelli.

Foto di Eleonora Cavallo

Sembra davvero che la vita sia un gioco (per non parlare dei tanti spettacoli dedicati al tema del rapporto familiare e all’infanzia con i suoi giochi, da Pinocchio a Baby Don’t Cry) o che la compagnia si sforzi di capire quali siano le regole del gioco della vita, e in questo giocare non manca mai l’elemento magico, la sorpresa, la macchina che inonda di schiuma il palcoscenico (Pornobboy), la pioggia di strisce brillanti, fino anche ad arrivare alla carcassa di bovino che penzola in stile Bacon dall’alto della scena e che diventa l’eye-catcher per lo spettatore in The End. Neanche gli ultimi lavori, con il cantante esule egiziano in scena in Ramy – The Voice of revolution o con il Koltès interpretato da un performer sordo con il linguaggio dei segni di Foresto, sfuggono a questa logica di impasto semiotico, in cui il linguaggio diventa, più che testo, pretesto per indagare i punti fragili del genere umano, avvicinandosi a questi pericolosi incroci della sensibilità, ogni volta con una modalità apparentemente leggera, giocosa.
La realtà, per chi conosce le basi delle tecniche chiaroscurali nel disegno, è che tanto più spargi punti di luce, di divertimento, di allegria, tanto più rendi profondi e leggibili gli abissi delle ferite, i lati oscuri e bui che vengono esaltati nel loro potenziale drammatico proprio dalla giustapposizione con il chiarore. Detto questo, rileggendomi, mi accorgo di aver visto in questi 20 anni tantissimi loro lavori, e di essermi confrontato con un teatro pensato, che pur dentro uno schema (e quale artista non ha un suo schema…) cerca di pensare, di ripensare e di ripensarsi. E non sono poche le occasioni in cui il tema del fine vita è emerso potente in queste creazioni, cercando pensieri e spiegazioni ai sentimenti che genera negli esseri umani (che ancora le sopravvivono).

Foto di Eleonora Cavallo

MB: L’infinito piccolissimo che abbiamo dentro e che ci conduce, comunque, alla morte, rimane inspiegabile. È un mistero. Abbiamo parole per provare a tirarlo fuori, ma, spesso, queste parole più che unirci, ci dividono, più che avvicinarci, ci separano. Come e perché succeda è un trucco presto svelato: niente può per davvero riportare in vita qualcunə.
Abracadabra, allora, è l’attesa e la speranza che, in ogni momento, avvenga una magia. E, puntualmente, la magia arriva. Succede, perché crediamo che possa succedere. Perché ci affidiamo alla dolcezza e all’irruenza di Francesco Scimemi. Confidiamo in lui, nei suoi poteri di mago e di uomo innamorato. E lui conta su di noi, tanto che fonda la riuscita finale del suo racconto sulla sincerità delle nostre risposte ai suoi continui inviti a tenergli il gioco.

RF: È proprio quello che dicevo: alla fine il gioco in questa logica vale sempre la candela, perché quello che Babilonia indaga nel suo fatto artistico, e che ne ha sancito anche l’affermazione sulla scena italiana e internazionale, è proprio quanta magia ci sia intorno alla fragilità dell’essere umano. L’individuo non ha la forza di affrontare da solo questa indagine negli abissi dell’esistenza, nel suo pirandelliano guardarsi allo specchio, per arrivare, magari dopo una vita di riflessioni, a vedere il proprio naso storto prima di quello altrui. Il processo di sublimazione, di metaforizzazione, l’essere umano l’ha affidato all’arte.
Probabilmente, non siamo nemmeno l’unica specie vivente a godere della dinamica ludica. Tante volte si parla dei giochi dei delfini, del loro cantare, del loro generare sott’acqua bolle d’aria per perdercisi intorno. Non sono altro che manifestazioni simboliche in presenza di altri individui della stessa specie, per arrivare, attraverso un segno leggero, a definire il perimetro del proprio esistere, del proprio essere in quel luogo, in quel determinato momento, dando senso all’esistenza.

MB: Questo non è, in definitiva, il teatro? Babilonia non ci sta forse dicendo che la vera magia è questo nostro ritrovarci insieme nella fiducia che, se ci credi tu e ci credo anch’io, qui dentro tutto può diventare realtà, anche l’impossibile?

Foto di Ivan D’Alì

ABRACADABRA
di Babilonia Teatri

con Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Francesco Scimemi, Emanuela Villagrossi
scene e costumi Babilonia Teatri
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Operaestate/CSC di Bassano del Grappa e Ariateatro Ets

Prima Assoluta

Teatro Metastasio, Prato | 10 aprile 2025

White Out al teatro delle Muse per una danza ad alta quota

ph Andrea-Macchia

CRISTINA SQUARTECCHIA l Scalare per raggiungere cime altissime, provando quel brivido vertiginoso nello sfidare la gravità e la sorte su pareti rocciose. E una volta arrivati lassù godere in una sola veduta di strapiombi e panorami mozzafiato. O basta trovarsi sul divano di casa, comodamente distesi, per sperimentare e trovare se stessi? Piergiorgio Milano, coreografo, performer, artista circense e danzatore versatile, esplora queste possibilità dell’umano, in un lavoro che mescola la danza al circo, all’acrobatica, al climbing, all’alpinismo e a cultura e pratiche della montagna raccontando un’avventura ad alta quota dal tragico epilogo. Lo fa con White out – la conquista dell’inutile, andato in scena al Teatro delle Muse di Ancona in prima regionale, completando così la stagione di danza di Marche Teatro diretta di Giuseppe Dipasquale.

White out, che nella cultura montana e metereologica indica lo stato lattiginoso in cui il paesaggio innevato fa tutt’uno con il biancore del cielo carico di neve fino ad annullare i contorni dell’orizzonte, rappresenta lo sfondo immaginativo nel quale Piergiorgio Milano immerge il suo spettacolo. Il bianco candore, da sempre simbolo di salvezza e pace celestiale, qui incombe sulla scena come qualcosa di sinistro e si fa simbolo del pericolo, della solitudine, dello svuotamento e della perdita di orientamento. È il bianco del ghiaccio, delle bufere e delle sfide che si affrontano in montagna come nella vita.
Una strana figura che trascina due corpi avanza da una quinta, ricoperta da imbracature pesanti. Trapelano sfinimento e assideramento, testimoniati dal tremolio del suo corpo logorato dal freddo e dal peso, mentre sullo sfondo il biancore della neve ricopre il palco. Prova a spostare i corpi dei due amici – Javier Varela Carrera e Luca Torrenzieri  –  li cambia di posizione mentre, esausto, tenta di trovare nuovi appoggi per alleggerire il peso.
Siamo alla fine della storia, e cioè davanti al tragico epilogo di un’escursione in montagna di tre amici, in cui, forse, qualcuno è rimasto disperso o travolto da una slavina. Con la tecnica del flashback la narrazione prende il via in un susseguirsi di quadri scenici, modulati fluidamente tra loro da un puntuale disegno luci di Bruno Teusch. Dal finale si passa infatti al momento iniziale della storia, quello più giocoso e colmo di entusiasmo in cui i tre amici si accampano montando una tenda in una tranquilla sera d’estate, tra scherzi e risa sulle musiche dei Dire Straits e Whitney Houston.

Uno dei quadri più allegri di tutto lo spettacolo (dalla platea arrivano anche molte risate) dove la narrazione dà spazio a siparietti danzati tra amici: giocare ad accendere e spegnere la radio tra appoggi pizzicati e passaggi hip hop, scivolamenti in break quasi felpati e intrecci di corpi risolti ogni volta in aperture dinamiche, lasciano scorrere nell’insieme una danza agile e rotonda. Una cornice che cede poi il passo a un quadro in cui Milano è solo in scena, indossa gli slip e sfida temperature glaciali di fronte a un faro che lateralmente taglia lo spazio e che lui cerca di raggiungere disperatamente come fosse un miraggio. Assideramento e tremolio rappresentano gli stati della danza in questa scena fatta di cadute, fremiti convulsi, propensioni verso quella luce che in realtà non offre nulla se non un flebile abbaglio che finisce per fiaccare la disperata resistenza del danzatore.
Lo spettacolo scorre alternando così il senso del tragico all’ironia, le più estreme situazioni che può riservare la montagna ai frammenti di danza pura con una scrittura scenica empatica, capace di portare dentro lo spettatore e suscitare stati emozionali differenti.
I tre danzatori cooperano a tale scopo registico grazie alla forza performativa dei loro corpi che trasudano agilità acrobatica e morbidezza gestuale in una sintonia dinamica che fa fluire una qualità di movimento  che ha il sapore delle faticose scalate su pareti rocciose. Lo si coglie in certe oscillazioni nel vuoto più volte reiterate e visibili nelle aperture delle braccia e della schiena ad arco dopo aver sperimentato brividi vertiginosi ed equilibri improbabili nel tentativo di restare aggrappati e fiduciosi al solido appoggio di un piede, funzionale allo sviluppo, poi, di virtuosismi complessi ma leggeri e aerei insieme.

Uno stile che trova poi massima espressione nel solo del coreografo Milano prima del montaggio finale delle funi e delle corde per approntare la scalata in scena. Il danzatore inizia la sua ascesa verso l’alto e si aggrappa con i moschettoni, afferra e sale un pochino per volta, per giungere lassù, in cima, a sfiorare il cielo con un dito e godere di quell’ebbrezza, quella sensazione di libertà per aver superato fragilità e paure al punto da sentirsi anche solo per un attimo invincibile.
Un traguardo che si conquista per singoli passi, piccoli gesti come appoggiare, afferrare, tirare, sospendere e che il danzatore ripete restando avvinghiato alle corde, mentre il sonoro è affidato a una serie di frasi sulla montagna come metafora di vita: ‘ognuno ha la sua montagna da scalare’, ‘la vita appesa a un filo’, o ‘tutto dipende dall’appoggio dei piedi’. Un’assonanza tra questi due mondi diversi, corpo in bilico e corpo danzante, che  White out percorre e mescola per generare un linguaggio poetico e fisico insieme che costruisce la sua sintassi sugli elementi comuni.
La sfida della gravità, la ricerca di un nuovo assetto spaziale nell’orbita, teso a nuovi verticalismi e possibilità cinetiche, rappresentano gli assi portanti di questo spettacolo che scorre per circa 60 minuti in una concatenazione di quadri d’azione diversi e carichi di potenza immaginativa. I corpi che li abitano portano in danza le svariate ed estreme esperienze di vita che si possono provare in montagna in un dialogo continuo tra metafore e senso del reale, tra corpo e spazio, tra la paura e il brivido di essere sospesi ad alta quota, lassù in cima come quaggiù tra ansie e tensioni quotidiane.

WHITE OUT

reazione, direzione e coreografia 𝗣𝗶𝗲𝗿𝗴𝗶𝗼𝗿𝗴𝗶𝗼 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼
performer 𝗝𝗮𝘃𝗶𝗲𝗿 𝗩𝗮𝗿𝗲𝗹𝗮 𝗖𝗮𝗿𝗿𝗲𝗿𝗮, 𝗟𝘂𝗰𝗮 𝗧𝗼𝗿𝗿𝗲𝗻𝘇𝗶𝗲𝗿𝗶, 𝗣𝗶𝗲𝗿𝗴𝗶𝗼𝗿𝗴𝗶𝗼 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼
design luci 𝗕𝗿𝘂𝗻𝗼 𝗧𝗲𝘂𝘀𝗰𝗵
sound design 𝗙𝗲𝗱𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗗𝗮𝗹 𝗣𝗼𝘇𝘇𝗼
soundtrack 𝗣𝗶𝗲𝗿𝗴𝗶𝗼𝗿𝗴𝗶𝗼 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼
costumi 𝗥𝗮𝗽𝗵𝗮𝗲̈𝗹 𝗟𝗮𝗺𝘆, 𝗦𝗶𝗺𝗼𝗻𝗮 𝗥𝗮𝗻𝗱𝗮𝘇𝘇𝗼, 𝗣𝗶𝗲𝗿𝗴𝗶𝗼𝗿𝗴𝗶𝗼 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼
scenografia 𝗣𝗶𝗲𝗿𝗴𝗶𝗼𝗿𝗴𝗶𝗼 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼
con l’indispensabile aiuto di 𝗙𝗹𝗼𝗿𝗲𝗻𝘁 𝗛𝗮𝗺𝗼𝗻, 𝗖𝗹𝗮𝘂𝗱𝗶𝗼 𝗦𝘁𝗲𝗹𝗹𝗮𝘁𝗼
un grazie speciale a 𝗙𝗿𝗮𝗻𝗰𝗲𝘀𝗰𝗼 𝗦𝗴𝗿𝗼, 𝗠𝗮𝘁𝗶𝗮𝘀 𝗞𝗿𝘂𝗴𝗲𝗿

Teatro delle Muse, Ancona | 29 marzo 2025

Amare l’irrazionale a dismisura: il progetto Culture care di Teatro19

ELENA SCOLARI | Teatro, irrazionale e salute mentale. Questa la linea sintetica del progetto Culture care, curato da Teatro19: quattro giornate di laboratori, spettacoli, incontri, prove aperte che hanno animato vari luoghi di Brescia, dal Teatro Mina Mezzadri Santa Chiara  (sede del CTB, Centro Teatrale Bresciano, che ha prestato i propri spazi) al Piccolo Teatro Libero di Sanpolino, al Cinema Nuovo Eden e al Circolo ACLI San Polo senza dimenticare il Bar Lumi dove spettatori e operatori si sono potuti ristorare con un buon pirlo  al Select. Insomma quattro vivacissimi giorni di pensiero e riflessioni intorno al teatro che lavora con la salute mentale per ragionare insieme su cosa significhi ‘irrazionale’, su cosa sia la follia degli artisti e segnare così un punto – sempre in movimento – condiviso e comune tra attori, operatori, spettatori e critici.
Francesca Mainetti, Roberta Moneta Valeria Battaini, battagliere e poetiche, in queste giornate hanno aperto le porte delle proprie pratiche professionali e hanno chiamato me e Massimo Marino – in qualità di testimoni – per coordinare un ‘gruppo critico’ che ha partecipato e osservato con noi questa occasione di approfondimento sulle possibili vie artistiche correlate al lavoro teatrale costruito con persone portatrici di disagi psichici. A Culture care (che si può anche pronunciare all’italiana) abbiamo visto Macbellum. La guerra dentro (versione sanguigna di Macbetto di Giovanni Testori, sua volta composto a partire dal Macbeth di Shakespeare e di cui abbiamo parlato qui al debutto) e uno studio sulla nuova produzione ispirata a La sagra del signore della nave di Pirandello, entrambi della Compagnia Teatro Metamorfosi, nata alcuni anni fa proprio dal lavoro dei professionisti di Teatro19 con utenti dei centri di cura mentale che citiamo tutti insieme, senza distinzione: Daniele Gatti, Giovanni Lunardini, Roberto Lunardini, Mariagiulia Manni, Katia Mordenti, Monica Winters, Francesca Valenti, Isabella Zipponi; in programma anche l’Accademia della Follia Claudio Misculin di Trieste e Teatro Nucleo di Ferrara, rispettivamente con lo spettacolo Quelli di Basaglia… a 180° e il film-documentario girato per i 40 anni della Compagnia, Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza, e Memorie dal reparto n. 6, ispirato all’omonimo racconto di Anton Cechov Reparto n. 6.

ph. Mauro Zani

Culture care fa parte del progetto IN-LUDERE – Teatro sociale d’arte a Brescia fra centro, periferia e provincia” vincitore del bando “Cultura diffusa 2024” di Fondazione Cariplo per il biennio 2025-26 e arriva dopo le sette edizioni di METAMORFOSI Festival – scena mentale in trasformazione (2015-2021): si tratta di un patto di coproduzione tra Teatro19, città ed enti di cura. Non è più solo il teatro a prendersi cura dell’evento culturale, ma grazie al lavoro condiviso, le istituzioni sostengono la produzione e danno valore alla ricerca teatrale fatta in relazione alla salute mentale.
L’obiettivo di queste giornate non era solo mostrare spettacoli fatti e finiti a un pubblico esterno ma incontrare davvero destinatari, attori e critici per analizzare insieme il significato del lavoro teatrale agito in un ambito così delicato come quello dei disturbi psichici. Ciò che di più incandescente è emerso è infatti la consapevolezza che il valore della ricerca attraversa tutti, sani e matti, anche perché il confine può essere labile e il viaggio nella comprensione di sè è imprescindibile per chiunque. A maggior ragione in un momento storico-politico-sociale così complesso e instabile.
“I nostri utenti sono persone che stanno male e vogliono guarire. E noi ci aiutiamo a vicenda”, ci dice Francesca Mainetti, guida artistica della compagnia Teatro19, “alla base del nostro lavoro c’è un’urgenza di felicità, cercata in un teatro spirituale e giocoso, crudele e pieno d’amore, che cerca di innovare il linguaggio andando a fondo nell’animo umano, a stretto contatto con chi fa della propria ricerca artistica e umana una via resistente”.

ph. Simone di Luca

E se in Macbellum è fortissima la relazione tra il triviale e la componente animale che esiste in ognuno di noi, ne La sagra del signore della nave ci si concentra sull’aspetto “popolare” di una festa paesana che culmina con l’ammazzamento del maiale, rito conosciuto nell’area bresciana piena di campagne, inserendo pensieri sul rapporto tra arte e potere, sulla libertà dell’artista e sull’importanza del ‘dissidere‘. La Compagnia degli Scarrozzanti di Testori ha messo in scena Macbellum/Macbetto e ora si appresta ad affrontare Pirandello, con le stesse caratteristiche di sghembitudine e con una lingua sporca, mista, ancora da aggiustare perché non diventi troppo artificiale. La tracotante sconcezza di Testori ha urtato alcuni membri del gruppo critico: “Solo un folle poteva scrivere scene del genere”, affermazione interessante proprio a riprova del labile confine che in arte esiste tra norma e devianza.
Più descrittivo il lavoro di Accademia della Follia, in cui si racconta il momento epico di apertura dei manicomi nel 1978 a opera di Franco Basaglia, la sua impresa sfociò poi nella legge 180 e sullo spazio scenico, gli attori interpretano proprio quella storia, dando corpo e voce a parole di Basaglia stesso, dei suoi seguaci e dei matti da lui liberati. Il gruppo critico ha soprattutto rilevato il valore sociale e civico di questa operazione di memoria e testimonianza, perché non si disperda il ricordo delle nequizie compiute a danno dei malati. Il film documentario ha poi mostrato ancor meglio l’origine e la fisionomia dell’Accademia, dal 2019 orfana della magnetica e incontenibile guida di Claudio Misculin ma sempre impegnata a incarnare una storia artisticamente eccentrica e fuori dell’ordinario. Il dubbio che ci possa essere un’eccessivo attaccamento alla propria condizione viene proprio a uno degli attori di Teatro Metamorfosi, che segnala il timore di un’esaltazione del ruolo del matto, in cui si rischia di rimanere cristallizzati invece che allontanarsene grazie all’arte.
Nel film si vede anche il sorriso aperto e gioioso di Giuliano Scabia che, lo vogliamo ricordare, ha dato il suo ultimo contributo pubblico proprio nel convegno on line Teatro di ordinaria follia, organizzato da Teatro19 nel febbraio 2021.

ph. Marco Giuranna

Nei testi teatrali di Anton Čechov sembra che accada poco, i fatti sono fatterelli, la noia regna spesso sovrana tra un samovar e l’altro, perché tutto il tumulto è interiore. Nei racconti c’è invece profondo amore per il paradosso: in Reparto n.6 siamo in un manicomio, un medico conosce un paziente, lentamente diventa suo amico, fino ad aspettare con impazienza le visite al malato perché di certe cose può parlare solo con lui, il pazzo è un fine intellettuale filosofo e la bellezza è proprio il graduale, sottilissimo, avvicinamento dei due personaggi, che arriva a far passare il dottore dall’altra parte, a sua volta internato. Nello spettacolo di Teatro Nucleo, Daniele Giuliani (in scena con un braccio ingessato) è interprete generoso, pieno di energia, forse qui e là anche troppo prorompente, e tende a caricare gli aspetti più pesanti della vicenda, trascurando l’impalpabilità dell’equivoco psicologico cucito dall’autore russo.

Tirare le fila di questa ‘quattrogiorni’ davanti al pubblico intervenuto domenica sera al Santa Chiara è stato un lavoro di squadra, la restituzione di noi critici-testimoni durante l’incontro finale è stata possibile grazie all’attenzione e alla serietà con cui i membri del gruppo critico hanno guardato spettacoli, film, laboratori e prove, occhi sinceri e acuti che hanno saputo entrare dentro alla propria incoerenza. Per leggerla senza paura.

CULTURE CARE
MACBELLUM – LA GUERRA DENTRO

Da Macbetto di Giovanni Testori
Regia e adattamento Francesca Mainetti
Assistente alla regia Gianpaolo Corti
Luci Elena Guitti
Foto di scena Mauro Zani
Divise fornite da Associazione Cenni Storici
Con Valeria Battaini, Gianpaolo Corti, Daniele Gatti, Giovanni Lunardini, Roberto Lunardini, Mariagiulia Manni, Roberta Moneta, Francesca Valenti, Giusy Zanini

LA SAGRA DEL SIGNORE DELLA NAVE

Primo studio e lettura, riscrittura da Luigi Pirandello
Regia e drammaturgia Francesca Mainetti
Con Valeria Battaini, Daniele Gatti, Giovanni Lunardini, Roberto Lunardini, Francesca Mainetti, Mariagiulia Manni, Roberta Moneta, Katia Mordenti, Monica Winters, Francesca Valenti, Isabella Zipponi

QUELLI DI BASAGLIA… a 180°

Regia Antonella Carlucci
Drammaturgia e ricerca Angela Pianca e Antonella Carlucci
Coreografie Sarah Taylor
Musica Mario Rui
Canto a cura di Alice Gherzil
In scena Gabriele Palmano, Marzia Ritossa, Pavel Berdon, Carmela Bevilacqua, Giuseppe Feminiano, Paola Di Florio, Franco Cedolin, Abril Pimentel, Giordano Vascotto, Alberto Furlanis
Disegni di Luca Bencich
Scenografia realizzata da Strambo – La Collina 

NOI SIAMO GLI ERRORI CHE PERMETTONO LA VOSTRA INTELLIGENZA

Regia Erika Rossi
Fotografia Daniel Mazza
Montaggio Beppe Leonetti, Erika Rossi
Interpreti Claudio Misculin, Angela Pianca, Cinzia Quintiliani, Sarah Taylor, Antonella Carlucci e L’accademia della Follia

MEMORIE DAL REPARTO N° 6

Da Reparto n. 6 di Anton Čechov
Regia e drammaturgia Horacio Czertok e Cora Herrendorf
In scena Daniele Giuliani

CULTURE CARE, Brescia | 3-6 aprile 2025

Elena Arvigo in Appunti per il futuro: voci indomabili contro la stupidità della guerra

ph_Manuela Giusto

ELVIRA SESSA / PAC LAB*| La nuova creazione di Elena Arvigo, il monologo Appunti per il futuro,  rilegge la seconda guerra mondiale e il disastro nucleare di Chernobyl attraverso lo sguardo di “piccoli grandi donne” scaraventate nella grande Storia. Lo fa con delicatezza e originalità, mettendo al centro non gli avvenimenti ma la condizione interiore di alcune testimoni. Un inno ai dettagli del quotidiano e, soprattutto, alla potenza dei sentimenti che, profeticamente, rivelano la demenza di ogni guerra e sopruso.
L’opera, che ha debuttato al Teatro Argot di Roma dal 4 al 6 aprile con prossimi appuntamenti al Teatro Out Off di Milano dal 24 al 27 aprile, inaugura una ulteriore tappa del progetto Le imperdonabili – donne testimoni scomode del loro tempo iniziato nel 2013 con lo spettacolo Elena o della guerra, tornato sui palchi pochi mesi fa, in veste rinnovata.

Arvigo, tra le più raffinate artiste della scena contemporanea, dà voce alle protagoniste degli scritti di Svetlana Aleksievich, giornalista e premio Nobel per la Letteratura.
Si tratta di donne impegnate nell’esercito sovietico a vario titolo, tiratrici scelte, istruttrici sanitarie, aviatrici, carriste e sopravvissute a Chernobyl (i riferimenti sono Una battaglia persa, La guerra non ha un volto di donna, Preghiera per Chernobyl).
Nei loro racconti, a lungo censurati e autocensurati, non ci sono eroi o mitiche imprese ma persone reali che soffrono nel vedere un altro uomo ferito o affamato e si vergognano di aver compiuto azioni incompatibili con la ‘didattica’ dell’odio voluta dalla guerra.

Ph. Manuela Giusto

Ogni particolare è curato sin dalla prima scena: l’odore di erba tagliata accoglie il pubblico mentre prende posto in sala. L’attrice è intenta a tagliare gambi di fiori sparsi su un tavolo di legno. Poi è un susseguirsi di azioni silenziose nello spazio di un interno domestico accuratamente allestito da Arvigo e Maria Alessandra Giuri: una cassapanca, un tavolo lungo rettangolare, un tavolino rotondo pieno di libri, un paio di lumi, ricostruiscono gli ambienti di una stanza da pranzo e di uno studiolo.
Le atrocità della guerra, raccontate in questo ambiente domestico intimo, accogliente, con le luci calde e fisse di Pablo Canella, arrivano al pubblico come confidenze che rendono ancora più palpabile il contrasto tra i freddi e astratti programmi bellici e le vicende raccontate dalle protagoniste, nelle quali ognuno può ritrovarsi.

ph_Manuela Giusto
Ph. Manuela Giusto

L’attrice è per lo più seduta e rivolta verso la platea, con la quale sembra intessersi un muto e intenso dialogo. La narrazione è affidata quasi esclusivamente all’espressività del viso e della voce. Lo sguardo si perde nei ricordi, si illumina, si incupisce, diventa tagliente. Sembra di assistere a una sequenza di primi piani che risucchiano lo spettatore nelle emozioni di chi racconta.
E la voce rende efficacemente le sfumature dell’anima: si fa morbida nel racconto di una infermiera russa che confessa di aver soccorso un tedesco ferito, tra gli spasimi di una corsia di ospedale ridotto a mattatoio, si fa energica nei ricordi della donna innamorata del suo comandante che si infiamma quando esclama: « La guerra è stato il periodo più bello della mia vita! » .
Arricchiscono la messinscena le foto d’archivio proiettate sul fondale raffiguranti giovani militari sovietiche e le musiche registrate, come quelle visionarie ed evocative di Olafur Eliasson, alcune canzoni popolari russe e il brano Il Disertore di Boris Vian interpretato da Ornella Vanoni.

ph_Manuela Giusto
Ph. Manuela Giusto

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Elena Arvigo e siamo partiti da una curiosità:

Gli oggetti di scena, numerosi e non casuali, al tocco della protagonista sembrano animarsi. Quanto contano questi elementi?

Moltissimo. In questo lavoro parlo attraverso gli oggetti e le azioni a essi collegate. Sono azioni quotidiane come versare il the, mangiare biscotti, ma sono anche azioni simboliche, come spegnere un piccolo mappamondo illuminato e riporlo nella cassapanca, sfogliare un album di vecchie foto, rovistare in una cassapanca ed estrarne un registratore e un abitino a pois. Gesti che ci ricordano che siamo esseri umani non fantasmi.
H o immaginato che i fiori freschi, che compro per ogni rappresentazione, fossero, nella scena iniziale, il mio omaggio alle donne di Aleksievich. Poi possono diventare i fiori deposti sulla tomba dell’amato. La collana a doppio filo di perle che indosso può ricordare sia le lacrime che il prezioso dono delle testimonianze. Un filo di perle, inoltre, che ha anche un valore affettivo perché è di mia madre.

Quanto c’è di Elena Arvigo in quest’opera?

Anche se ho scelto Aleksievich per il suo genere letterario così affine al mio passo e al mio sguardo, desidero scomparire come Elena. Il costume che indosso, una maglia e un pantalone neri, risponde a questa scelta. Ho cercato di vestire nel modo più neutro possibile per farmi attraversare da tante voci diverse.

Quali sono state le principali difficoltà nella messa in scena?

In uno spettacolo come questo la cosa più difficile è la misura, perché si tratta di dare corpo a testimonianze. Perciò l’interpretazione da un lato deve restituire l’intensità emotiva delle storie narrate in prima persona, quindi non può essere fredda, dall’altro non può essere troppo recitata”.

Quali reazioni ha percepito nel pubblico?

La cosa più bella di queste prime serate è stato trovare, all’uscita, gli spettatori con il sorriso. Vuol dire che sono stata fedele al proposito di Aleksievich che non voleva rattristare ma dare la possibilità di scorgere, nelle situazioni più tragiche, forze irrazionali come la compassione, l’amore e l’amicizia.
L’infermiera russa che, con un gesto che non si spiega, soccorre il tedesco ferito e dice: «Io odio i tedeschi ma questo tedesco no», dà speranza.
Non a caso lo spettacolo si chiude proiettando sullo schermo le parole di Simone Weil: “Ci troviamo di fronte a un vicolo cieco dal quale l’umanità sembra che non possa uscire se non grazie a un miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli (…). Per il fatto stesso che non c’è sempre la guerra, non è impossibile che ci sia per sempre la pace “.

APPUNTI PER IL FUTURO

da Una battaglia persa, La guerra non ha un volto di donna, Preghiera per Chernobyl di Svetlana Aleksievich, Il Libro del potere La prima radice di Simon Weil
un progetto di e con Elena Arvigo
elementi scenici di Elena Arvigo in dialogo con Maria Alessandra Giuri
luci Pablo Canella
produzione di Compagnia Elena Arvigo in collaborazione con Teatro Out Off

Teatro Argot, Roma, 4 aprile 2025

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

 

Lei Lear e il gioco contemporaneo di Chiara Fenizi e Julieta Marocco

CHIARA AMATO / PAC LAB* | Nel 1605 William Shakespeare compose la tragedia in cinque atti Re Lear. Giorgio Strehler, a proposito della sua versione di Lear del 1972, disse “È una tragedia che si inteatra. Tutte le cose del testo che ho capito, le ho capite giorno per giorno sulla scena” perché la parola, nella sua intensità, è strettamente legata all’azione scenica.
Questo non accade, anzi viene capovolto in Lei Lear, di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco, andato in scena al Teatro della Contraddizione di Milano. Qui infatti l’azione è ridotta all’osso dando rilevanza all’interpretazione della parola più che al movimento e all’utilizzo dello spazio.
Le due artiste si sono occupate anche della regia, insieme ad André Casaca, e lo spettacolo è il risultato di una coproduzione internazionale tra SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias (fondato da Fenizi e Marocco nel 2018), e Teatro C’Art. L’opera, che nel 2021 vinse il Premio PimOFF per il teatro contemporaneo, è l’epilogo della trilogia Trittico Urbano, che affronta il tema dell’opposizione tra spazio pubblico e spazio privato.


Lo spettacolo si presenta come una strana forma di monologo, in quanto le due protagoniste, che interpretano Goneril e Reagan, due delle tre figlie di Lear, parlano e si muovono all’unisono, sovrapponendo le loro voci. “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”, diceva appunto Shakespeare, e le due malvagie figure, in questo caso, hanno portato all’estremo questa condivisione, trasformandola in simbiosi. Cordelia invece è una grande assente: il fulcro è la complicità di queste due colpevoli e tutto il resto è uno sfocato contorno.
Ma partiamo dall’inizio: non esiste una scenografia, c’è solo un fascio di luce basso e caldo che arriva dal lato sinistro, e le due attrici entrano in scena indossando lo stesso abito floreale, occhiali da sole scuri e un paio di scarpe con il tacco. Si accendono luci fisse dall’alto sulle due sagome: queste si aggirano per il palco e deridono il pubblico ghignando. Al grido di È lui il colpevole! inizia la parodia della vicenda shakespeariana e delle cospirazioni contro Lear. Le due donne non si assumono la responsabilità dell’uccisione del padre, ma parlano di come sia più difficile uccidere qualcuno che morire.

Il meccanismo dello spettacolo è subito chiaro: tutto ruota intorno alla loro ironia e alla mimica tipica della clowneria. Si muovono sempre a braccetto o tenendosi per mano o ponendosi una di fronte all’altra come davanti a uno specchio.
Si percepisce che la gestazione dello spettacolo è avvenuta durante la clausura pandemica, forse proprio per questa ossessiva prossimità di corpi che per lungo tempo abbiamo avuto solo con i familiari/conviventi.
Il riso, fragoroso in sala, è generato paradossalmente dalla loro diversità: i gesti sono gli stessi ma con ovvie differenze. Entrambe esprimono le stesse emozioni ma attraverso la personale singolarità di movimento ed espressione facciale. Non accade effettivamente nulla, ma si sente una beckettiana attesa che qualcosa accada.

Si gioca con la rottura della quarta parete: loro stanno interpretando un ruolo in quanto attrici e questo è svelato dal principio (parlano con il tecnico audio, commentano il pubblico come noioso, etc). Altro elemento della loro ricerca artistica è sicuramente il linguaggio verbale e i suoi singhiozzi: balbettii, lapsus ed errori di dislessia che generano il sorriso e fanno riferimenti continui ai classici shakespeariani (Padre sei tu o non sei tu?).
Si comportano come se avessero un solo corpo pur interpretando due personaggi diversi: chi è Goneril e chi Reagan non viene esplicitato e non interessa neanche più allo spettatore, che viene invece chiamato in causa in un dialogo surreale. Assistiamo così a una lezione di inglese buffa e paradossale che ha come unico fine la risata. Le parole scelte, anche in questo caso, non sono casuali brother and mother kill the father: it’s ok in Shakespeare. Ironizzano pesantemente sulle dinamiche tormentate e sui legami “tossici”, presenti negli intrecci di Shakespeare.
In due occasioni dialogano con il padre defunto e un cono di luce le incornicia dall’alto: ognuna delle due cerca di convincerlo che è stata l’altra a defraudarlo. Così si azzuffano e si punzecchiano richiamando alla memoria alcuni sketch di Stanlio e Ollio.
Il risultato è esilarante e fa tornare un po’ bambini. Il profilo tragico del testo ispiratore è totalmente rovesciato fino al paradosso e alla satira: le due interpreti si cannibalizzano, si parlano sopra creando un ritmo svelto e piacevole, lasciando solo sullo sfondo la vicenda del re inglese, che resta un pretesto per questa operazione di ricerca contemporanea.
Lear è solo un fantasma lontano.

LEI LEAR

di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consulenza artistica Francesco Ferrieri
produzione SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias, Teatro C’Art

4 marzo 2025 | Teatro della Contraddizione, Milano

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Al cuore fa bene fare le scale: il Circolo Polare Arte abita i margini della vita teatrale di Patrizia Cavalli

GIORGIA VALERI / PAC LAB* | Circolo Polare Arte, un nome-manifesto, una metafora dichiarata del Nord polare che accomuna e distanzia, crea tensioni, polarità artistiche che si confrontano e convergono in una grande tela bianca. Marta Staffini, Marta Longo, Susanna Nuti, Eleonora Pace e Laura Zucchi – giovanissime che si dividono i ruoli di attrici, dramaturg e registe – sono sparse nel Nord Italia, sull’asse Torino-Milano-Bologna. In un tempo di “bandificazione”, in cui “i bandi sono il male assoluto, perché impediscono di pensare e costringono gli attori a essere provinomani” – come diceva Gabriele Vacis in un intervento di qualche anno fa – Circolo Polare Arte sceglie di costituirsi in proprio e di farlo sotto l’egida della poeta Patrizia Cavalli.
Poeta, come preferiva definirsi, anzi, come non voleva definirsi affatto, l’autrice di Todi che nel ‘68 si trasferì a Roma, dove conobbe Elsa Morante e, più tardi, la sua compagna/amante/amica di una vita, Diane Kelder, accademica e storica dell’arte inglese. Buffa, autoironica, spesso impenetrabile e dallo sguardo sottile, Cavalli è un serbatoio di quotidianità inattese, di correlativi oggettivi che si nutrono di immagini tangibili: dalle tasche troppo lunghe del cappotto, a una bottiglia di whiskey Benrinnes del ‘96, alla fluoxetina. Cavalli racconta un tempo, il suo, che si sottrae alla linearità e torna nella circolarità della percezione, all’andamento rotondo delle emozioni immutabili. Come i fiori della Signora Dalloway, che aprono e schiudono una vita nel respiro breve di una giornata, anche la poesia di Cavalli abita un tempo sospeso, dove ogni gesto si fa eco, ogni oggetto memoria, e la vita scorre in cerchi lievi, senza principio né fine.

E come si racconta una vita nell’arco di un’ora, nello spazio costretto di sei metri per cinque? Come si racconta e come si trova uno spazio in cui farlo? E il pubblico per ascoltarlo? Circolo Polare Arte ha trovato un primo rifugio nel quartiere Isola, in una casa di ringhiera chiamata Isolacasateatro, sede dell’omonima associazione no profit che dal 2004 ha trasformato un luogo quotidiano in una mostra permanente di arte che dialoga con le arti: teatro, musica, danza, letteratura e poesia raccolti in una cornice intima, che ha messo a disposizione la propria specificità soprattutto a giovani artisti e performer.

Al cuore fa bene fare le scale si legge sulla locandina appesa fuori dal portone d’ingresso al civico 16 di via Dal Verme: un palazzo labirintico, scalini d’epoca e l’ingresso in una casa culturale in cui le attrici si cambiano e si riscaldano a vista, insieme al pubblico entrante. Le luci si spengono e le attrici si dispongono a pochi metri dai piedi degli spettatori, appollaiati su sgabelli di fortuna o accovacciati di fronte alle ginocchia di chi è riuscito a trovare una sedia. L’ostilità spaziale non penalizza la drammaturgia performativa: le attrici si prendono il proprio tempo per convincere, per creare intimità con il pubblico. Passa una manciata di minuti prima che nella silhouette riccia e slanciata di Marta Staffini si riconosca la figura volatile e minuta di Patrizia Cavalli; nel tailleur azzurro e nei grandi occhiali tondi di Marta Longo c’è invece la sua amante Diane Kedler.
La biografia dell’autrice è pretesto per raccontare una storia non edulcorata, che dalle esperienze personali di Cavalli trae la forza per esplorare le origini di una poeticità lucida, schietta, amata dalla critica e dal pubblico. Così il primo incontro impacciato con Elsa Morante, una brava e puntuale Susanna Nuti che, forte di un’esperienza attoriale più estesa anche per età anagrafica, incarna il ruolo di leader, di mentore.

Molte sono le riprese al documentario scritto e diretto da Annalena Benini e Francesco Piccolo, presentato al Festival del Cinema di Venezia due anni fa: «La gelosia produce disprezzo e un senso di superiorità nell’altro» racconta Cavalli nell’intervista, e la regista Laura Zucchi traduce questa sentenza in dialoghi concreti, in battibecchi serrati tra le amanti, in gesti ed espressioni raffinate, pur se tradite qua e là da un velo di un pudore scenico che, più che indecisione, è cura. Evocativo, nel suo essere acerbo, il gioco teatrale tra Cavalli e Kedler: giocano, si tirano e si respingono, si legano attraverso un filo rosso, fino alla resa in ginocchio di Cavalli/Staffini. L’esercizio teatrale è dichiarato, quasi didascalico, ma non stona nel ritmo complessivo dello spettacolo, che rallenta e si ravviva anche grazie agli inserti comici affidati a Eleonora Pace nelle vesti di amica/psicologa con un forte accento toscano – trovata curiosa e piacevole che smorza il pathos romanzato e lo trascina in una dimensione quotidiana.
I faretti tremolanti, i cambi scena imprecisi e le luci da commento un po’ approssimative raccontano di un gruppo agli inizi, che si adatta e che si sta formando, non sono sintomo di trascuratezza.
E allora forse è proprio così che il teatro si fa spazio nell’era dei bandi: senza chiedere il permesso, senza aspettare un invito. Si entra in casa, letteralmente, e si abita il margine. Si prende in prestito una voce – quella di Cavalli – non per imitarla ma per sporcarla con la propria. Prendendosi cura di ciò che si racconta. Perché anche il teatro, come la poesia, ha smesso di chiedere di essere capito. Vuole solo essere vissuto. E se non c’è palco, si sale sul tappeto.

AL CUORE FA BENE FAR LE SCALE

con Marta Longo, Eleonora Pace, Susanna Nuti, Marta Staffini
regia e drammaturgia Circolo Polare Arte
luci e suono Andrea Formentini, Laura Zucchi, Anna Romanó

Isolacasateatro, Milano | 28 marzo 2025

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

L’ombra lunga di un trauma: l’Autoritratto collettivo di Davide Enia

EUGENIO MIRONE | Dal buio emergono due ombre che si proiettano lunghe sul fondo del palco, illuminate da un taglio laterale di luce calda. Nella lotta con le tenebre in cui è avvolta la scena quel poco di luce lascia intravedere uno spazio scarno: un paio di sedie, un chitarra. Nessuna scenografia, solo il fondale del palco lasciato a nudo con tutti quei segni che poco sanno di finzione scenica: uscite di sicurezza, prese a muro, i cartelli degli estintori.
Ora due voci si accavallano e impastano una cantilena di parole e suoni incomprensibili, sembra di stare in un sūq arabo ma ci troviamo a Palermo e quelle voci stanno simulando le abbaniate del mercato di Ballarò, le famose grida che i venditori intonano per attirare i clienti. Ma quella cantilena straziata ricorda anche U Lamentu siculo, l’inno di dolore alzato durante il rito pasquale per invocare la passione di Cristo. Non siamo fuori contesto, Autoritratto infatti è uno spettacolo doloroso. È doloroso perché parla del trauma più grande per i siciliani dopo la morte di Gesù: la mafia, Cosa Nostra.
Che poi, a proposito di lamenti, noi siamo un popolo a cui piace tanto lamentarsi, brontolare per noi è una sorta di autocompiacimento, si crea sempre tanto rumore attorno ai problemi, un miscuglio di chiacchiere e voci indistinte come le abbaniate del mercato di Ballarò, ma quando poi si tratta di “scannare il maiale”… tanto fumo e poco arrosto.

Foto di Masiar Pasquali

Ma se si riesce a scacciare via questa pesante nube di rumore rimane un palco semivuoto, un paesaggio dell’inconscio dove rivivere nel profondo il grande trauma della mafia.
Dopo quell’immensa macchina teatrale realizzata in Eleusi. Dittico sul Sacro, Davide Enia ritorna al linguaggio de L’abisso, quello di una narrazione, splendidamente accompagnata ancora una volta  dalle chitarre di Giulio Barocchieri, che ha le sue radici profonde nella tradizione del cunto siciliano.
Perché il teatro è anche questo: una storia potente, la prospettiva intima e autobiografica con cui si sceglie di raccontarla e un ritmo basato su una coinvolgente partitura di parole, suoni e gesti. «Il teatro serve anche a confrontarci con la realtà che abitiamo e noi abitiamo in un paese disgraziatissimo, il paese delle cosiddette mezze verità». È lo stesso Enia a ricordarlo. Ancora oggi, infatti non possediamo una chiarezza appurata sulla catena dei fatti che portò alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quando la verità è innominabile ha bisogno della mediazione artistica per farne affiorare i contorni. Torniamo così a quel teatro sventrato che mostra tutti i suoi segni, sono i segni del nostro inconscio e sono necessari per intraprendere l’opera di cicatrizzazione.

Autoritratto è, allo stesso tempo, un rito personale e collettivo. È il viaggio intimo di un giovane neomaturato palermitano alla ricerca dell’apparizione del male; ma chi sta parlando è anche un’intera generazione che stava diventando maggiorenne e tutta una città che si confronta con la sua storia.
Una ricerca che poggia su una base di ricordi personali ma che si apre anche al dialogo con i propri coetanei e i compagni di allora e alle interviste agli abitanti di Palermo. Più che raccontare la grande Storia con le piccole storie, Enia tende verso la creazione di un rito all’interno del quale collocare l’apparizione del male che apra a una riflessione intima e comunitaria. Che poi è quello che accade in teatro.

Dunque il montaggio prosegue per episodi, tra ricordi di adolescenza e incontri nel presente: la prima volta che Davide ha visto un morto ammazzato aveva otto anni, lo ha trovato sul tragitto di scuola proprio all’altezza dell’abitazione del suo migliore amico, Peppe Malato, che dopo aver sentito gli spari non vuole più uscire di casa. Il male e il dolore fanno crescere in fretta, le parole che quel bimbo rivolge ai suoi genitori risuonano nette e taglienti: «la colpa è vostra che mi fate vivere in una città dove uccidono le persone sotto al nostro balcone». Di fianco a me in platea c’è seduta una mia amica siciliana, a fine spettacolo mi confida che quella è una frase che  le è risuonata in testa per tutta l’infanzia. Poi il racconto prosegue: ora sono tre funzionari della DIA in pensione a raccontare a Enia il passaggio dalla “mafia delle famiglie” al potere assoluto dei Corleonesi.
L’episodio più significativo è il racconto dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, la cui unica colpa fu quella di essere il figlio di un collaboratore di giustizia. «Alliberateve de lu cagnuleddu», era stato l’ordine dato Giovanni Brusca al fratello Enzo Salvatore che l’11 dicembre 1996, insieme Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo, prima strangolò Giuseppe e poi sciolse il corpo del ragazzino nell’acido, dopo 779 giorni dal suo rapimento. 779 giorni senza vedere la luce del sole, 779 giorni in cui molti lì intorno sapevano ma nessuno parlò.
Il racconto del tragico avvenimento coincide con la descrizione schematica delle azioni dei tre carnefici. Non serve aggiungere altro alla tragicità dell’evento. È una scelta narrativa assennata, oltre che pudica, perché quella sequenza di azione fa emergere la totale e disarmante mancanza di coscienza in quei soldati di morte: «erano ordini che ci venivano dati».
Sembra paradossale ma Enia non ha memoria di dove si trovava il 23 maggio 1992. La strage di Capaci lo ha trapassato con un carico di angoscia talmente grande da lasciare il vuoto dentro di lui. Più nitido è il ricordo della strage di via d’Amelio, quel 19 luglio disgraziato in cui le foglie caddero dagli alberi quando non dovevano.

Se si volge lo sguardo al passato si noterà che quasi mai nella storia le politiche proibizioniste hanno sortito gli effetti sperati. Il male, infatti, non si cancella ma lo si può erodere a poco a poco come l’acqua del mare che consuma gli scogli onda dopo onda. È questa la via intrapresa da Enia con Autoritratto per mezzo di una ritualizzazione collettiva del male che ci renda tutti più consapevoli: «bisogna capire che quando nella tua città ti trovi di fronte una pozza di sangue, l’immagine riflessa è il tuo autoritratto».
Di pozze di sangue il nostro paese è pieno, è inutile girarci intorno. Quello che infonde coraggio è sapere che il proprio vicino di seduta condivide con me un po’ di quel male e che insieme contribuiamo a frantumarlo, un pezzetto alla volta. In questa occasione, più del solito fa rabbia vedere una platea mediamente avanti con l’età e le ultime due file vuote. C’era posto almeno per una classe di liceo. Fa rabbia perché i programmi scolastici trascurano completamente la storia del secondo Novecento italiano, un periodo cruciale per capire come affrontare il presente. Fa rabbia perché questa generazione di giovani così fragile e spaurita avrebbe tanto bisogno di esporsi al potere terapeutico del teatro.
Per superare un trauma occorre tempo, e la mafia è uno delle ferite più recenti del nostro Paese. Per questo è indispensabile lavorare costantemente nell’ottica di un passaggio generazionale, affinché il rito non si trasformi solo in una danza attorno a un fuoco spento.

AUTORITRATTO

di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri 
luci Paolo Casati 
suono Francesco Vitaliti 
luci e fonica Francesco Vitaliti/Paolo Casati
si ringrazia Antonio Marras per gli abiti di scena
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia GiuliaPiccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi 

Piccolo Teatro Grassi, Milano | 6 aprile 2025

Leonor Fini: teatralizzare la vita, ritualizzare la pittura

Io sono Leonor Fini Palazzo Reale Milano

ENRICO PASTORE | L’avanguardia artistica irruppe sulla scena del Novecento non con il vestito buono della domenica ma en travesti. Gli artisti alla ricerca di nuovi fondamenti per le arti si mostravano in maschera al mondo ancora ottocentesco, e quindi vittoriano, puritano e benpensante. Se la verità come aletheia solo velando disvela, l’identità, non solo artistica, veniva scoprendosi nel travestimento.
A Parigi Colette e la marchesa Mathilde de Morny davano scandalo con la loro relazione saffica e monogama dissimulando il loro sesso biologico. Detrattori e ammiratori andavano letteralmente in ebollizione di fronte a queste dee ambigue. Perfino nella licenziosa e perversa Ville Lumière fece scalpore nel 1907 quel Rêve d’Égypte all’Olympia dove Colette, mummia in cerca d’un palpito d’amore che la risvegliasse alla vita, baciò appassionatamente la Marchesa Missy vestita come un archeologo.

Colette et Missy in Rêve d’Égypte (1907)

Ma non erano solo le donne a mischiare le carte dei generi sessuali, pensiamo a Rrose Sélavy, alter ego e readymade autorappresentativo di Marcel Duchamp. E questo mescolamento e mascheramento delle identità, è bene ricordarlo, non avveniva solo sui palcoscenici o nei salotti più alla moda ma anche nei locali frequentati dalla media e bassa borghesia. Durante la Belle Epoque tutti cercavano di immaginare e costruire una nuova umanità.
A Mosca e a San Pietroburgo i cubofuturisti russi davano il via al loro scalcinato e festante carnevale; Majakovskij, l’arcangelo carrettiere di Marina Cvetaeva, giallo-rosso vestito cantava: «vi mostreremo quotidianamente che sotto le gialle bluse di pagliacci erano corpi di atleti robusti»; Velimir Chlébnikov vagava per le Russie vestito di stracci con una federa di cuscino piena di versi immaginifici; Michail Larionov e Natal’ja Goncharova passeggiavano per Mosca con il viso scarabocchiato di strani simboli mentre Vasilij Kamenskij si aggirava sul Kuzneckij Most con mestoli di legno all’occhiello.
Dada a Zurigo, in esilio da un Europa in guerra, dava spettacolo con i costumi argentei e vescovili che imbozzolavano Hugo Ball nella recitazione di Gadji beri bimba, mentre a Berlino e a Weimar le casacche alla russa e i pantaloni svasati identificavano la divisa dei Bauhaus e gareggiavano in stravaganze geometriche con i costumi del balletto triadico di Oscar Schlemmer. A New York la baronessa Elsa Von Freytag-Loringhoven fu tra le prime a fare del proprio corpo un’opera d’arte ornandosi con posate ricurve, latte di tonno aperte, molle deformi e strani oggetti rotti e ammaccati trovati nelle immondizie di Manhattan.

Balletto triadico

In Italia tra Venezia e Capri la diva assoluta del travestimento era la Marchesa Luisa Casati Stampa, erede legittima delle stravaganze della contessa Virginia Oldoini di Castiglione, eroina espulsa dal nostro Risorgimento che non poteva certo essere ravvivato da avventure licenziose in costume e vestaglie di seta. Luisa Casati fu esaltata da Filippo Tomaso Marinetti e dai Futuristi tutti come simbolo della donna ardita, coraggiosa, futura. I suoi balli in maschera a Ca’ Venier dei Leoni (oggi sede della Fondazione Guggenheim) riportarono in laguna i fasti carnevaleschi della Serenissima, mentre i suoi costumi con piume di pavone o di struzzo nero a disegnarla maga oscura, insieme ai suoi comportamenti sessualmente anomali, scandalizzarono la pur permissiva Capri, che in quel tempo accoglieva stravaganti di tutta Europa. Perfino D’Annunzio rimase stregato dal fascino demoniaco della divina marchesa, ritraendola in Isabella Inghirami, versione nostrana della femme fatale, in Forse che sì, forse che no. Tra i molti ritratti che ci consegnano la sua immagine inimitabile, il più affascinante è quello di Giovanni Boldini, forse suo amante, sicuramente suo ammiratore, in cui Luisa è raffigurata su sfondo di color perso in una mise total black floreale, dove il levriero nero si confonde con le pieghe delle gonne. Lo sguardo è intenso, ammaliante, ipnotico.

Giovanni Boldini – La Marchesa Luisa Casati con un levriero (1908)

Ed ecco infine la triestina Leonor Fini, l’italiana a Parigi, che fin da bambina fu travestita da maschio per sfuggire ai tentativi di rapimento del padre. Leonor, artista d’avanguardia della seconda ondata, ebbe modo di imparare e mettere a frutto le esperienze bizzarre di chi l’aveva preceduta e affermare così le sue strategie di travestimento in una Parigi ora dominata da Josephine Baker, che dai palchi alle Follies Bergères, con il suo gonnellino fatto di sedici banane e ballando indiavolati charleston provava a mettere in crisi i pregiudizi misogini e razziali.
Le feste di Leonor a Parigi, come quelle di Casati prima di lei al Palais Rose, erano una sorta di rito sciamanico in cui chi partecipava nascondendo la propria identità andava alla ricerca del vero sé nascosto. Come notano Montesarchio e Varriale, la sua casa in rue Payenne al numero 11 diventava «un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione, che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».
Leonor, quando le chiedevano di definire la sua attività artistica, negava l’appartenenza a un’arte o a un movimento e affermava semplicemente: «io sono». In questo non fu la prima e nemmeno l’unica. Far di se stessi un’opera d’arte era pratica già di fine Ottocento, così come confondere se stessi con i propri personaggi. Qualcosa stava però cambiando: la ricerca artistica diveniva ricerca di sé e, in quanto tale, abbatteva i confini entro i quali manifestarsi. Se Sperelli è l’alter ego di D’Annunzio, vita e arte restano ancora separate e distinte ma in Leonor la vita stessa diventa baroccamente teatro, una performance attraverso cui costruire la sua propria identità e manifestarla al mondo. Non vi è più quindi separazione tra un dipinto, una festa in maschera, una fotografia in posa o un romanzo scritto; non c’è differenza tra attore, maschera e personaggio. Ogni tassello è Leonor e per avere idea di lei bisogna ricomporre la sua identità come in un mosaico.

Leonor Fini – Autoritratto con scorpione (1938)

Lei stessa definì così il processo: «fra il teatro e me c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, in un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale, sentirsi invulnerabile e fuori dal tempo. Travestirsi è un atto di creatività […]. È una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano con sé».
Non siamo solo nel campo della teatralizzazione della vita, ma entriamo nel regno ovidiano della metamorfosi, dell’eterna trasformazione di sé, un processo alchemico di raffinazione in cui l’anima brucia, abbandona dei pezzi, ne forgia altri, nella speranza di giungere a una perfezione, per quanto instabile e precaria.
I dipinti di Leonor, in questo senso, non sono semplici immagini ma rituali che a ogni sguardo si rinnovano e i cui esiti sono di volta in volta diversi sia per l’autrice che per l’osservatore. Sono testimonianza di una generatio aequivoca, una venuta al mondo di esseri e spiriti viventi da una materia inanimata. Sono imagines agentes, quelle amate dai rinascimentali maghi neoplatonici: rappresentazioni pittoriche capaci di aver effetto sul reale e modificarlo.

Leonor Fini – Comme tous les soirs (1977)

Il dipinto è qualcosa di vivo che crea materia organica ed effetti nel mondo e in questo si apparenta al teatro. Artaud aveva compreso il fenomeno quando parlava di Van Gogh e della capacità della sua pittura di far apparire la realtà e i suoi doppi.
E benché Artaud lodasse in Van Gogh l’assenza di mistica, ritualità o liturgia, fenomeni invece ben presenti in Leonor, in comune con la pittrice triestina vi era la capacità di scatenare forze che non paiono presenti in natura: «Sotto la rappresentazione, ha fatto scaturire un’aria e ha racchiuso in essa un nerbo, che non sono nella natura, che sono di una natura e di un’aria più vere dell’aria e del nerbo della natura vera». Inoltre Artaud non disegnava forse splendidi e terribili esorcismi i quali avrebbero dovuto proteggerlo dagli affatturamenti?
Quando Leonor si lascia ritrarre in fotografia a fianco del suo Mephisto dipinto su una porta o quando dipinge Comme tous les soirs (1977) rappresenta la propria lotta nel bilanciare l’attrazione della terra e la vertigine del cielo. Chiede insomma alle immagini, usando le parole di D’Annunzio, di porre «contro la mia maschera il tuo viso raggiante di musa o il tuo viso mortifero di Medusa».
Questa ambiguità è riscontrabile nelle sfingi che vegliano giovani uomini dormienti e inermi. In Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane (1946) l’uomo nudo dormiente è vegliato da una nera donna-leonessa con le fattezze di Leonor. Il cielo è scuro e il paesaggio pare abbandonato dalla vita: le foglie e le piante sono secche, la terra è arida. La sfinge guarda verso l’uomo ma dal suo volto non traspare alcun sentimento. Potrebbe proteggerlo come custodirlo in quanto preda.

Leonor Fini – Stryges Amouri (1947)

In Stryges Amaouri (1947) l’uomo è sempre beatamente dormiente ma questa volta avvolto da un’edera. Uno steccato di fragili bambù lo divide da due esseri: a sinistra una specie di gatto nero e peloso, a destra una fanciulla dai lunghi capelli ricci e neri, sulla testa un teschio di animale e una corona di rami d’alloro. La ragazza non guarda l’uomo ma direttamente l’osservatore. Anche qui gli esseri animali e femminili non sembrano minacciosi ma tutto può accadere, sotto quel cielo plumbeo.

Leonor Fini – Le bout du monde (1948)

L’evocazione di energie ctonie, potenze ambivalenti al di là di ogni morale come le forze della natura, pervadono i dipinti di Leonor Fini, quadri che hanno in comune con la scena teatrale la possibilità che sulla loro superficie tutto possa accadere, dalla più magnificente e gloriosa epifania al più turpe delitto. In Le bout du monde (1948) una fanciulla dai lunghi e voluminosi capelli bianchi sorge da uno stagno scuro, sullo sfondo un cielo che cattura l’ultima luce di un tramonto, niente ci assicura che quella luce possa riapparire. Nello stagno insieme alla ragazza galleggiano teschi di animali, animati da occhi vivissimi. La giovane donna si specchia sulla superficie lucida e immota color petrolio, non guarda la propria immagine riflessa, come Narciso, ma guarda verso di noi insieme al suo doppio ombra. È uno sguardo senza emozioni eppure non si può sfuggire alla sensazione che in quegli occhi azzurri vi sia una domanda a cui sia necessario rispondere.

Leonor Fini – La guardiana delle fenici (1954)

In La guardiana delle fenici (1954) una giovane donna sotto un cielo rosso come d’incendio è seduta di profilo e figge lo sguardo nel vuoto. Un lungo manto avorio con sfumature mandarino le copre le spalle, un morbido e voluminoso abito arancione le veste il corpo ma le lascia scoperti i seni. In mano la ragazza regge un candido uovo di struzzo. Attorno a lei le fenici. In primo piano i mitici uccelli hanno le piume bianche al contrario di quelle sullo sfondo, nere come la pece. La donna è bellissima, intangibile, e nella sua immota inviolabilità potrebbe generare la vita come scatenare un’apocalisse che potrebbe essere già avvenuta, a giudicare dalle rovine sullo sfondo.
La forza delle immagini di Leonor Fini risiede dunque in questa capacità di produrre in chi osserva emozioni discordanti e diversissime. Esse agiscono in base all’animo di chi guarda e lo cambiano. Non gli danno scelta. Una volta viste non possono essere dimenticate. In questo sono simili al grande teatro. La teatralità infatti è la cifra stilistica di Leonor, nella sua opera il teatro è ovunque e in tutti i suoi dipinti, i disegni, le immagini, le foto, i suoi romanzi, i suoi costumi sono maschere dietro cui scoprire il reale. Anche il teatro finge e nella finzione dice la verità, quella verità che in purezza sarebbe impossibile guardare negli occhi.

Leonor Fini – La tenebrosa (1978)

È come nel racconto del vecchio soldato nel romanzo di Murakami La città e le sue mura incerte: il militare in convalescenza vede apparire una donna di notte nella sua stanza, è bellissima ma ne vede solo il profilo. L’uomo a quel punto desidera vedere anche l’altra metà di questa donna incantevole e misteriosa, esce dalla sua stanza e la ammira dall’altro lato della finestra. Non sappiamo cosa vede, ma rimane sconvolto, per sempre segnato dalla visione. E questo che ci capita quando i nostri occhi si posano sui dipinti di Leonor, e per chi volesse provare l’ebbrezza dell’esperienza, a Palazzo Reale a Milano, la mostra curata da Tere Arcq e Carlos Martin è aperta fino al 22 giugno.
A volte per trovare il teatro, occorre uscire dal teatro.

L’esercito dei matti di Caraboa Teatro: la follia della guerra

ph_Paolo Blocar

ELVIRA SESSA/ PAC LAB*| L’esercito dei matti – regia di Gioia Battista e Nicola Ciaffoni, produzione Caraboa teatro – torna a Roma, al Teatro Argot, dopo il debutto al Festival Inventaria nel 2023.
Il potente monologo a più voci, scritto da Battista e interpretato da Ciaffoni, frutto di una lunga ricerca tra cartelle cliniche, fonti inedite e censurate, immerge il pubblico in un viaggio allucinato dal ritmo serrato, scandito da metronomi, canti, effetti sonori e luci.
Un’ora nelle  trincee della Grande Guerra, labirinti di sangue, fango, dove corpi straziati di ragazzi poco più che adolescenti si dimenano tra bombe, granate, grida, smarrimento e incredulità per tanto orrore.

Protagonista è Riccardo, che invano si finge matto per non andare in guerra e, sul fronte, perde davvero la ragione. Diventa uno «scemo di guerra», internato in manicomio insieme ad altri soldati che scontano la pena di essere rimasti umani a dispetto di ogni bandiera.

Ph. Paolo Blocar

Al centro della scena un mixer audio e alcuni strumenti musicali; intorno alcuni fantocci che a mano a mano vengono animati dall’attore.
Immaginazione, ironia e poesia smontano ogni retorica. Anzi, la irridono. Come suggerisce la scelta di Alberto Rocca – autore delle sculture – e di Chiara Barichello – alla scena e ai costumi – di rappresentare i comandanti e un medico, boriosi personaggi che riempiono i ricordi e gli incubi del protagonista, come spaventapasseri in divisa e con teste fatte dalle povere suppellettili dei soldati: una vuota scodella di latta, uno scolapasta sormontato da uno sturalavandino, un pallone, una testa di scopa . Il generale Luigi Cadorna, che senza aver trascorso un solo giorno in trincea «accompagna allegramente le truppe italiane alla disfatta di Caporetto», ci appare così come un misero vessillo, senza corpo né anima.

ph_Paolo Blocar

Il ritmo è mantenuto incalzante, grazie anche al movimento continuo dell’attore che cammina sul posto e lungo tutto il palcoscenico, seguendo l’incedere tumultuoso dei pensieri di Riccardo.
Con disinvoltura e maestrìa, Ciaffoni dà vita, pur da solo, a un’opera polifonica: cambia all’occorrenza registro di voce; esegue dal vivo, con tromba e chitarra, canzoni recuperate dalla tradizione alpina e riadattate dagli arrangiamenti di Walter Giacopini, come Il Testamento del Capitano, Stelutis Alpinis, Monte Nero; dà voce ad angosce e speranze dei giovani militari facendoli parlare nei dialetti di varie parti d’Italia; gioca con gli effetti sonori del mixer audio che si fanno lamenti, mitragliate, sassolini pestati durante le marce estenuanti tra le doline del Carso.
Molto efficaci le luci di Veronica Penzo, ora tenui e soffuse come quelle delle lampadine appese adun filo che piovono dall’alto, ora rosse avvolgenti, ora blu e sinistre a enfatizzare l’ansimare dei soldati con le maschere antigas.

La folle vanità della guerra è condensata nella scena finale. Cala il silenzio e dei fantocci che inneggiano ad eroiche imprese, spogliati della testa e della divisa, resta solo uno scheletro a forma di croce, a ricordo dei tanti che, dal fronte, non sono tornati più.

L’ESERCITO DEI MATTI

di Gioia Battista
con Nicola Ciaffoni
regia Battista/Ciaffoni
arrangiamenti Walter Giacopini
consulenza disegno sonoro Giulio Ragno Favero
consulenza disegno luci Veronica Penzo
scene e costumi Chiara Barichello
sculture Alberto Rocca
con le voci di Riccardo Maranzana, Angelo Campolo e Mirko Soldano
e di Luigi CerpelloniWalter GiacopiniEnrico MorelloFrancesco Morello
con l’amichevole contributo al violoncello del M° Luca Franzetti
Scene realizzate da Delta Studios – Udine
Produzione Caraboa Teatro

Teatro Argot, Roma, 29 marzo 2025

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica